sabato 2 ottobre 2010

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

Lectio divina su Lc 17,5-10

Il giusto vivrà per la sua fede



Invocare
Signore Gesù, ti ringraziamo per il dono della Parola per capire meglio la volontà del Padre. Fa' che il tuo Spirito illumini questo cammino interiore e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola suggerirà ai nostri cuori. Fa' che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell'unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Leggere
5Gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe. 7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
Mt 8,5-13.26; 9,2; 10,5-8; 13,31-32; 14,28-31; 17,18-20; 21,18-22; Mc 4, 30-32.37-41; 5,21-23.36; 9,17-24; 16,11-17; Lc 7,37-38.50; 22,25-27; 2Cor 12,7-10; Gb 22,3; Gal 2,20; 1Pt 5,2; 1Cor 3,9

Capire
Nelle sue istruzioni ai discepoli e alle folle che lo seguono lungo la strada, Gesù ha ripetutamente parlato delle dure esigenze che comporta il seguirlo. Le possiamo riassumere in due affermazioni: “Chi non preferisce me al padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle e perfino alla propria vita non può essere mio discepolo” (14,26); e poi l’altra: “Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo” (14,33).
Ora non c’è più un discorso sulle esigenze del vangelo, cioè sulle cose da lasciare e sugli impegni da assumere, ma alcune parole sulle condizioni che le rendono possibili e sulle modalità che le devono accompagnare. Queste sono due: la fede e l’umiltà. Per avere il coraggio di seguire Gesù occorre la fede, e se Dio ti dà il coraggio di seguirlo non vantartene.
Gli interventi salvifici di Gesù sono sempre legati alla fede. E che tipo di fede bisogna avere? Anche se Gesù dice: “La tua fede ti ha salvato”, è chiaro che non è la fede dell’uomo che salva, ma la potenza di Dio. La fede però ne è la condizione, senza la fede anche la potenza di Dio si annulla. Perché? Perché aver fede significa riconoscere la nostra impotenza e, nello stesso tempo porre tutta la fiducia nella potenza del Signore. La fede è il rifiuto di contare su di sé per contare unicamente sul Signore. E’ questo lo spazio interiore necessario che il Signore vuole per donarci la salvezza e il coraggio di seguirlo. Ma se la fede è tutto questo, allora è anche chiaro che non è qualcosa che possiamo ricavare da noi o costruire da soli: anche la fede è, a sua volta, un dono. E non resta perciò che chiederla, come hanno fatto i discepoli: “Signore aumenta la nostra fede”. Lo ha fatto Gesù stesso nei confronti di Pietro: “Simone, ho pregato per te, affinché la tua fede non venga meno” (22,32).
All’insegnamento sulla fede segue la parabola, esclusiva di Luca. Indirizzata agli apostoli, questa parabola avverte i capi della Chiesa che essi non possono mai fermarsi e riposarsi nella convinzione di avere già lavorato abbastanza.
Questa piccola parabola, non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, ma indicarci come deve essere il comportamento dell’uomo verso Dio: totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno. Dopo una giornata piena di lavoro, non dire “ho finito” e non accampare diritti. Non vantartene e non fare confronti con gli altri, ma dì semplicemente: ho fatto il mio dovere, sono soltanto un servo.

Meditare
vv. 5-6: Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape…I discepoli si rendono conto che non è facile avere gli atteggiamenti che Gesù ha appena richiesto da loro: attenzione verso i più piccoli (Lc 17,1-2) e riconciliazione verso i fratelli e le sorelle più deboli della comunità (Lc 17,3-4). E questo con molta fede! Non solamente fede in Dio, ma anche fede nella possibilità di recupero del fratello e della sorella. Per questo, vanno da Gesù e gli chiedono di accrescere la loro fede.
Il verbo “accresci” può essere anche tradotto con “accordaci” la fede. Si potrebbe mettere questo versetto in relazione con Mt 13,31 e a quanto si dice a proposito del Regno dei cieli: (‘il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa. [..] Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma una volta cresciuto è più grande degli altri legumi...).
La nostra fede ha nel granello di senapa la stessa dimensione del Regno di Dio. Un granello di senape è piccolo come una pulce, minuscolo, quasi invisibile. Ma una volta seminato velocissimamente cresce, e nell'arco di un anno quel piccolo seme può divenire un albero anche di tre o quattro metri. La dimensione del granello di senapa non è la dimensione minima richiesta, ma la dimensione massima richiesta. Questo testo è di grande speranza per le nostre parrocchie. I movimenti rischiano di essere sempre cose grandi, dove tutto riesce; difficilmente si riconduce al granello di senapa la dimensione che hanno i movimenti. Il vangelo va in un’altra direzione. La dimensione di piccolezza che la chiesa vive è in realtà la dimensione necessaria che il vangelo ci chiede.
La risposta – se aveste fede - equivale a dire che non è questione di quantità ma di autenticità della fede. La fiducia nell’aiuto divino e l’aiuto divino stesso, quando ci sono, operano le cose che sembrano le più difficili.
potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe. Il gelso, è un albero secolare, può vivere anche seicento anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. E'un albero molto difficile da sradicare, simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità. E che un gelso si radichi nel mare, beh è alquanto difficile (cioè impossibile)! Allora qui Gesù dice: "Se aveste un po' di fede, di fede vera, autentica, trasparente, nulla vi sarebbe impossibile, nessun ostacolo potrebbe fermare il vostro cammino". Nel vangelo troviamo spesso frasi del genere: "Tutto è possibile per chi crede; la tua fede ti ha salvato; chi ha fede sposta le montagne; tutto ciò che chiederete, credete e vi sarà dato". Se vuoi vedere la tua fede, la tua fiducia in Dio e nella vita guarda a come reagisci di fronte agli ostacoli.
Gelso è anche la paura di cambiare e di non sapere cosa accadrà poi; il timore di affrontare una paura; la paura di non avere le forze per reggere; la paura di conoscersi e di guardarsi dentro; la paura di affrontare chi temiamo o chi consideriamo superiori; la paura di rimanere da soli che ci fa accattonare l'amore; la paura di essere impopolari; un "salto" di vita che dovresti fare ma di cui sei terrorizzato; un sogno da inseguire che tutti deridono; una malattia che ti si manifesta e di cui hai paura, ecc. Ma basta un po' di fede. Tu inizia; tu datti da fare; tu mettiti in movimento e scoprirai che quella piccola fede diventerà enorme (piccolo seme che diventa un albero enorme) e compirà l'impossibile.
vv. 7-9: Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Per insegnare che nella vita della comunità tutti devono essere abnegati e distaccati da sé, Gesù si serve dell'esempio dello schiavo. In quel tempo, lo schiavo non poteva meritare nulla. Il padrone, duro ed esigente, gli chiedeva solo il servizio. Non era solito ringraziare. Dinanzi a Dio siamo come lo schiavo davanti al suo padrone.
Aver fede significa diventare disponibili a Dio, ascoltare la sua parola così profondamente da venirne trasformati, essere “trasparenti” alla sua volontà. Chi crede, dunque, non crea ostacolo alcuno all’azione di Dio, non l’offusca, la lascia passare.
La fede lascia passare sempre e solo l’azione di Dio attraverso di noi; non costringe Dio a fare quello che vogliamo noi ma permette a noi di fare quello che vuole lui. Lo si vede bene dalla piccola similitudine del servo che, dopo aver faticato e arato tutto il giorno, rientra a casa.
Dopo aver servito tutto il giorno diventerà forse padrone la sera? No; egli rimane pur sempre servo. Può sembrare umiliante questo modo di immaginare il rapporto con Dio; e si tratta invece di un rapporto liberante. Vediamo perché. Supponiamo che il nostro servizio fosse “necessario” per la salvezza del mondo; non ne rimarremmo bloccati?
Ogni impegno diventerebbe un esame pauroso, ogni errore si muterebbe in tragedia; siano rese grazie a Dio per il fatto che la salvezza del mondo non dipende da una cosa così fragile e variabile come la nostra volontà. D’altra parte, se non avessimo da servire, se dovessimo solo stare a braccia conserte in attesa della salvezza di Dio, la nostra vita diverrebbe meschina, senza sapore.
Invece possiamo e dobbiamo lavorare, ma con la libertà di chi sa che il suo lavoro è assunto e valorizzato da un Dio che è più grande di lui. Che il nostro lavoro venga qualificato “inutile” vuol dire solo che su di esso non possiamo fondare pretesa alcuna; che non possiamo contrattare con Dio la sua risposta al nostro impegno.
La fede è la tecnica per imparare a servire Dio nel modo giusto. Chi la usa, permette a Dio di operare attraverso di lui e diventa perciò strumento della salvezza di Dio. E siccome Dio vuole la salvezza, chi ha fede introduce con il suo comportamento una forza di salvezza nel mondo.
v. 10: Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Il servizio di Dio richiede la sottomissione di un servitore. Il servizio che il servo (Gesù) ci rende è un servizio che non ci fa sentire obbligati, è un servizio che ci libera. E questo dovrebbe essere il servizio che ognuno di noi è chiamato a svolgere. Siamo schiavi non necessari, cioè non arrechiamo profitto. Siamo coloro che, non arrecando profitto, servono unicamente per dono.
Siamo servi inutili... Attenzione a questa espressione che può portarci fuori strada. Siamo dei poveri servi, dei servi senza utile. L’espressione evangelica vuole esprimere che il “servire” non è qualcosa che si viene ad aggiungere alla condizione umana, come un possibile merito, come una realtà superflua ed accidentale. L’essere creatura dell’uomo, opera del Creatore, implica la disponibilità e la normalità dell’essere messi a disposizione, dell’essere chiamati a servire. Un uomo che non “servisse” avrebbe fallito la sua stessa identità, avrebbe perso la sua vita, avrebbe perso se stesso. Colui, invece, che vive la sua esistenza proprio come servitore, non fa altro che rispondere a quel disegno iscritto nella sua stessa vita, nello stesso disegno divino che lo ha generato. Ecco perché non è necessaria una ricompensa, ecco perché il servire non diviene motivo di rivendicazioni. Tutto ciò che abbiamo ricevuto non lo meritiamo. Viviamo grazie all'amore gratuito di Dio. L’evangelista Matteo, descrive Pietro che rivolge a Gesù questa domanda: “Ecco noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito, che avverrà di noi?” (Mt 19,27). Gesù risponde a questo modo di pensare con la parabola degli operai della vigna (cfr. Mt 20,1-16).
Luca descrive il servo di Dio come colui che compie il suo dovere e non ha il diritto di avanzare pretese nei confronti di Dio, può solo dire con San Paolo: “non ho di che vantarmi se annuncio il vangelo; è un dovere questo che mi è imposto, e guai a me se non predicassi” (1Cor 9,16).

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
Qualora tu fossi infedele o povero di fede, il misericordioso Dio ti seguirà sulla via del pentimento. Dì solamente, con semplicità: Credo, Signore; aiutami nella mia incredulità (Mc 9.23). Che se invece ti credi fedele, non hai ancora la perfezione della fede, ma ti è necessario dire, come gli apostoli: Signore, aumenta in noi la fede (Lc 17.5), poiché essa in piccola parte proviene da te stesso, ma la parte più grande la ricevi da lui.
Il termine ‘fede’ è unico come vocabolo, ma la realtà che esso significa è duplice. V’è una specie di fede, quella dei dogmi, che consiste nell’assenso dell’anima a una verità; essa è utile all’anima, secondo la parola del Signore: Chi ascolta le mie parole e crede in colui che mi ha mandato ha la vita eterna e non viene alla condanna (Gv 5.24) e ancora: Chi crede in lui non è condannato (Gv 3.18): ma è passato da morte a vita (Gv 5.24).(...) V’è una seconda specie di fede, quella che ci è donata da Cristo come puro dono gratuito. Dallo Spirito a uno è dato il linguaggio della sapienza, a un altro il linguaggio della scienza secondo il medesimo Spirito; a uno la fede, nel medesimo Spirito; a un altro il dono delle guarigioni (1Cor 12.8-9).
Questa fede che è dono gratuito dello Spirito, non riguarda solamente i dogmi, ma anche l’efficacia di operare cose che superano le umane possibilità. Chi possiede questa fede dirà a questo monte: “Trasferisciti di qui a lì” ed esso si trasferirà. Quando uno dice questo mosso dalla fede, e crede che ciò avvenga e non ne dubita in cuor suo (Mc 11.23), riceve la grazia. È a questa fede che si riferisce la frase: Se avete fede come un grano di senape (Mt 17.20). Un grano di senape è piccolo di mole, ma ha la forza di bruciare: seminato in un piccolo recinto, emette grandi rami e una volta cresciuto è capace di fornire ombra agli uccelli (Mt 13.32). Così anche la fede ha la forza di operare grandissime cose buone in pochissimo tempo. (Cirillo di Gerusalemme, Catechesi 5.9-11)
Quanto è bene adatta questa similitudine per colui che diceva: "Dio, ti ringrazio, perché non sono come tutti gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri o come questo pubblicano. Digiuno due volte la settimana, pago le decime di tutti i miei beni" (Lc 18,11). Quanto sarebbe stato meglio se avesse detto umilmente: Signore, sono un servo inutile, ho fatto solo ciò che dovevo fare. Infatti, poiché il servo fa il suo ufficio per dovere e per necessità, il padrone non gli deve nessuna gratitudine, se egli fa ciò che gli vien comandato. Così noi quando osserviamo i comandamenti; via, dunque, la superbia, la vanagloria, il fumo della mente, e inginocchiamoci tra gli umili servi inutili, come quello che diceva: "La mia anima è innanzi a te come terra senz’acqua" (Ps 142,6). È terra senza acqua, secca, infeconda, sterile, inutile. Ma è uno che aveva fatto tutto ciò che gli era stato comandato, com’è detto: "Non mi sono allontanato dai tuoi precetti" (Ps 118,51) e: "Non ho dimenticato la tua giustizia" (Ps 118,141). (Bruno di Segni, In Luc., 2, 39).

Un monaco disse: ‘Ogni volta che provi un senso di superiorità o un moto di vanità, esamina la tua coscienza. Domandati se osservi tutti i comandamenti, se ami i tuoi nemici e piangi per le loro colpe, se ti consideri un servo inutile e il peggior peccatore del mondo.
Ma anche dopo questo esame, non ti fare un’idea troppo grande di te, come se tu fossi un perfetto: questo pensiero guasterebbe tutto!’. Un altro monaco disse: “Chi è onorato e lodato più di quanto meriti subisce un gran danno, mentre chi dagli uomini non riceve onori, sarà glorificato in cielo”. (Detti dei Padri del deserto n.165-6)

Alcune domande per la riflessione personale e il confronto
Ripetiamo spesso nella preghiera: Signore, accresci la mia, la nostra fede!"?
Moltiplichiamo gli atti di fede davanti a ogni situazione personale o no dove ci ritroviamo deboli e impotenti?
Ci consideriamo servi in ogni gesto che compiamo vedendolo come un servizio d’amore a Lui presente negli altri?
Siamo capaci di fare della propria vita un servizio senza aspettare la ricompensa?

Pregare
Nel suo atteggiamento di servizio Gesù ci rivela il volto di Dio che ci attira, ed il cammino di ritorno verso Dio. Preghiamo perché la speranza dell’incontro con il Maestro sia sempre viva e si rinnovi nella vita di tutti i giorni. Dal Sal 72 (71):
Dio, dà al re il tuo giudizio,
al figlio del re la tua giustizia;
regga con giustizia il tuo popolo
e i tuoi poveri con rettitudine.
Le montagne portino pace al popolo
e le colline giustizia.
Ai miseri del suo popolo renderà giustizia,
salverà i figli dei poveri
e abbatterà l'oppressore.
Il suo regno durerà quanto il sole,
quanto la luna, per tutti i secoli.
Scenderà come pioggia sull'erba,
come acqua che irrora la terra.
Nei suoi giorni fiorirà la giustizia
e abbonderà la pace,
finché non si spenga la luna.
E dominerà da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.
A lui si piegheranno gli abitanti del deserto,
lambiranno la polvere i suoi nemici.
Il re di Tarsis e delle isole porteranno offerte,
i re degli Arabi e di Saba offriranno tributi.
A lui tutti i re si prostreranno,
lo serviranno tutte le nazioni.
Egli libererà il povero che grida
e il misero che non trova aiuto,
avrà pietà del debole e del povero
e salverà la vita dei suoi miseri.
Li riscatterà dalla violenza e dal sopruso,
sarà prezioso ai suoi occhi il loro sangue.
Vivrà e gli sarà dato oro di Arabia;
si pregherà per lui ogni giorno,
sarà benedetto per sempre.
Abbonderà il frumento nel paese,
ondeggerà sulle cime dei monti;
il suo frutto fiorirà come il Libano,
la sua messe come l'erba della terra.
Il suo nome duri in eterno,
davanti al sole persista il suo nome.
In lui saranno benedette
tutte le stirpi della terra
e tutti i popoli lo diranno beato.
Benedetto il Signore, Dio di Israele,
egli solo compie prodigi.
E benedetto il suo nome glorioso per sempre,
della sua gloria sia piena tutta la terra.
Amen, amen.

Contemplare-agire
Lasciamo che la Parola illumini la nostra vita. Apriamo le porte del nostro cuore per scoprire quella piccolezza, “inutilità” che sta in noi per essere capaci di piantare gelsi nel mare.

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

Lectio divina su Lc 16,19-31

Loda il Signore anima mia


Invocare
Signore Gesù, ti ringraziamo per il dono della Parola per capire meglio la volontà del Padre. Fa' che il tuo Spirito illumini questo cammino interiore e ci comunichi la forza per eseguire quello che la Tua Parola suggerirà ai nostri cuori. Fa' che noi, come Maria, tua Madre, possiamo non solo ascoltare ma anche praticare la Parola. Tu che vivi e regni con il Padre nell'unità dello Spirito Santo, nei secoli dei secoli. Amen.

Leggere
19C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni gior­no si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, al­zò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". 25Ma Abramo rispo­se: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". 27E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, per­ché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". 29Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". 30E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qual­cuno andrà da loro, si convertiranno". 31Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Pro­feti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
Gc 2,5-12; 5,1-5; Is 58,6-7; Lc 12,16-21; 14,13.21; 16,1-9.23-24; 18,24-25; At 2,42-48; 4,32-5,11; Gb 21,11-15; 22,18; Sal 17,14; 34, 19; 37,35-36; 49,11; 73,3-7.12-19; Ez 16,13.49; 27,7; Am 6-4-6; Ap 17,4; 18,7-16; Lam 1,7; Dan 5,22-23; Mc 9,46.

Capire
Con questa domenica terminiamo la lettura del capitolo 16, dedicato al problema dell’uso della ricchezza. Gesù sta parlando agli amanti del denaro. Si tratta di un racconto per esempi, che diventa poi un racconto di insegnamento.
Il racconto ha dei paralleli significativi in un racconto egiziano e nella tradizione rabbinica. Al v. 14 Lc segnala che “i farisei, che erano attaccati al denaro (philárgyroi: amanti del denaro), ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui”. “Essi, rappresentati dal ricco, protagonista di questa parabola, si ritengono giusti perché osservano per filo e per segno tutto le regole della legge” (Santi Grasso), tuttavia non si prendono cura dei poveri e questo motiva la loro condanna. Gesù aveva sollecitato ad invitare a tavola i poveri e i derelitti (Lc 14,13.21).
La parabola si presenta come l’antitesi di quella dell’amministratore astuto (Lc 16,1-9). Per Luca la ricchezza porta all’indifferenza verso le esigenze di Dio e di conseguenza verso chi sta nel bisogno. La parabola non intende descrivere l’aldilà né lo stato intermedio tra la morte e l’ultimo giudizio e neppure affermare l’esistenza o meno del purgatorio. Vuole piuttosto dire che il destino di ognuno si gioca interamente in questa vita terrena.
L’insegnamento globale corrisponde bene al pensiero dell’evangelista sulla ricchezza e chi la possiede: l’indifferenza alle esigenze di Dio, e la conseguente indifferenza per chi sta nel bisogno. Le sofferenze del ricco nell’Ade lo puniscono non per la sua ricchezza come tale, ma perché, sordo all’insegnamento di Mosè e dei Profeti, non ha capito l’urgenza della conversione. Interamente occupato dai piaceri dell’esistenza, ha dimenticato la vita futura, ha trascurato il povero che era alla sua porta, ha misconosciuto Dio.

Meditare
v. 19: C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni gior­no si dava a lauti banchetti. La parabola comincia come quella dell’amministratore infedele: C’era un uomo ricco. Il vestito, di colore regale (1 Mac 8,14), è segno di ricchezza. In Gen 20,31 è il regalo che il re d’Egitto fa a Sara. Il banchetto quotidiano (euphrainómenos significa facente festa) è diventato il suo ideale di vita. Infatti, questo ricco può dire di sé ciò che Gesù pone sulla bocca del proprietario di campi di frumento, quando questi andava sognando il suo avvenire: “riposati, mangia, bevi e goditela” (12,19). La moralità del comportamento non viene presa in considerazione: non si parla né di disonestà, né di dissolutezza.
Anche quest’uomo ricco Luca lo presenta senza nome, quasi a mettere il nostro di nome in particolare, quasi a ricordare i nome degli operatori di iniquità (cfr. Mt 7,27; 10,32). Non è detto che il ricco fosse ateo dichiarato, ma l’unica sua preoccupazione era se stesso.
v. 20: Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe… È la figura opposta al ricco in modo contrastante. Questo povero mendicante ha qui un nome: Lazzaro, forma greca del nome ebraico/aramaico Eleazar, che significa colui che Dio soccorre, oppure Dio aiuta.
Difficilmente il lettore greco poteva cogliere questo significato. Il fatto di avere un nome suggeriva piuttosto che il povero aveva un’identità presso Dio.
Lazzaro giaceva (il verbo ballein, gettare, dà proprio l’idea di un corpo gettato a terra e che a terra giace) presso il portone della casa del ricco: è il posto del mendicante impotente, come la tavola è il posto del ricco. Non serve indagare se egli fosse paralizzato e quale malattia della pelle avesse. Lazzaro ricorda Giobbe (Gb 2,7).
Lazzaro non è solo un povero, ma di uno di quei poveri che attendono la loro consolazione da Dio, il difensore dei poveri, appartiene alla categoria di persone che Gesù proclama beate.
v. 21: bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe Lazzaro è affamato e non ha di che sfamarsi. Luca riprende l’espressione usata per il figliol prodigo (Lc 15,16). Ciò-che-cadeva: “non si tratta probabilmente dei resti del pasto, me delle molliche per pulirsi le mani tra un piatto e un altro (non si usavano posate)” . Lazzaro non poteva neanche servirsi di questi pezzi di pane che venivano gettati sotto la tavola e mangiati dai cani. La parabola non dice che questi pezzi erano rifiutati a Lazzaro.
Anche nella descrizione del povero manca ogni accenno alla sua moralità: la pazienza nelle prove, la fiducia in Dio... egli rappresenta la povertà in tutto il suo orrore e niente più.
Per una certa mentalità l’indifferenza del ricco è giudicata normale: la situazione di contrasto tra i due personaggi corrisponde a un certo ordine della giustizia divina che dà abbondanza al pio e miseria al peccatore. Ma già Giobbe gridava contro questa visione.
v. 22: Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Qui abbiamo il peso della parabola. Al momento della morte la situazione è rovesciata; si verifica per il povero e per il ricco quanto proclamato in Lc 6,20.24; 18,14. Sia per il ricco che per il povero viene usato il medesimo verbo: morì. La morte li rende tutti e due uguali. L’unica cosa che si nota è che il ricco viene sepolto, mentre il povero fu condotto accanto ad Abramo.
La rappresentazione del defunto scortato dagli angeli non esiste nel giudaismo prima del 150 d.C. Luca sembra anticipare la funzione escatologica degli angeli di radunare gli eletti al momento della morte individuale.
Anche l’espressione “nel seno di Abramo” è sconosciuta nel giudaismo precristiano e il suo significato preciso non è sicuro. Essa può provenire dalla formula biblica “andare presso i padri” (Gen 15,15; 47,30; Dt 31,16: ecc.), con un’allusione adesso al banchetto celeste, nel senso di: ricevere il posto d’onore vicino ad Abramo in tale banchetto (cfr. Lc 13,28; Mt 8,11; Gv 13,23).
Del ricco è detto che è semplicemente sepolto, ethapê. Ethapê è ancora un privilegio del ricco, ma suona sinistro dopo una vita di piaceri.
Adesso la condizione del ricco nell’Ade è descritta con più dettagli rispetto a quella del povero.
Le immagini dell’oltretomba presenti in questi versetti sono nel contempo familiari e singolari nel giudaismo. Il concetto di Ade si evolve: da soggiorno di morte per tutti gli uomini diventa l’inferno come luogo di tormenti. La credenza in una diversa sorte dei buoni e dei cattivi conduce alla loro separazione in spazi distinti. Questa situazione è presupposta nella parabola, come pure il destino definitivo per ognuno dopo la morte; non si parla né di risurrezione né di ultimo giudizio.
v. 23: Stando negli inferi fra i tormenti, al­zò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Il ricco si trova nei tormenti, nel soggiorno dei morti: come luogo di tormento l’Ade sembra identificarsi con la Geenna (luogo di Gerusalemme in cui si bruciavano i rifiuti). Abramo si trova anche lui nell’Ade, ma in un compartimento separato, oppure forse in un altro luogo che non è più lo sheol. Non si può sapere con certezza: le rappresentazioni giudaiche dell’aldilà non sono uniformi. Il ricco si trova comunque in un luogo di tormenti, ma può vedere Abramo a distanza e con lui Lazzaro. La rappresentazione è semplicistica, serve a dimostrare la condizione rovesciata tra il ricco e il povero, a rendere possibile e a preparare la scena successiva del dialogo.
v. 24: Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". Inizia il dialogo. Le parole del ricco sono una pura supplica: egli grida, chiede pietà, fa appello alla sua discendenza carnale con Abramo (lo chiama padre), ma l’essere della sua stirpe non giova a nulla (cfr. Lc 3,8; Gv 8,39). Desidera una sola goccia d’acqua, afferma di essere tormentato nel fuoco. Tutto serve a sottolineare i tormenti del ricco, e quindi ad accentuare il contrasto tra la vita di festa condotta sulla terra e il rovesciamento di situazione nell’Ade. Anche per questo il ricco non chiede l’intervento diretto di Abramo in suo favore (né contesta la sua sorte), ma chiede l’aiuto di Lazzaro: i due personaggi della parabola devono incontrarsi anche dopo la morte, ora però in una posizione rovesciata rispetto a quella avuta sulla terra. Ora è Lazzaro a essere a capotavola.
v. 25: Ma Abramo rispo­se: Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Si legge chiaramente qui l’intervento di Luca. È la conclusione della prima parte del racconto. Questo versetto può essere considerato l’applicazione del “guai” di Lc 6,24).
Abramo chiama il ricco “figlio”, lo riconosce come membro della sua discendenza: ma questo privilegio non serve a cambiarne la sorte eterna. Questa sorte è formulata secondo la dottrina della retribuzione in senso stretto, come nelle beatitudini e nei “guai” di Lc 6,20ss: chi è ricco in questa vita viene tormentato nell’altra, e viceversa.
Presa in sé l’affermazione di un tale rovesciamento automatico è piuttosto grossolana. Sembra poco evangelico! Il versetto costata l’accaduto, afferma il rovesciamento di situazione, ma non spiega.
Abramo non solo lo chiama figlio, ma lo invita al ricordo quasi a riprendere la Scrittura: “Ricordati del Signore tuo Dio” (Dt 8,18). “Ricordati di quello che il Signore tuo Dio fece…” (Dt 7,18). Nella Bibbia il ricordo di Dio e il ricordo dell’uomo s’intrecciano e costituiscono una componente fondamentale della vita del popolo di Dio. Non si tratta, però, della pura commemorazione di un passato ormai estinto, bensì di uno zikkarôn, cioè un “memoriale”. Questo non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini.
Al lettore deve servire da avvertimento, ricordargli le beatitudini. comunque, il versetto indica quale secondo Dio è la fine che faranno necessariamente i ricchi senza occhi né cuore per i propri simili, i quali conducono una vita di stenti.
v. 26: Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". Tra i morti giusti e quelli empi la comunicazione non è più possibile e quindi la sorte del ricco è irreversibile: Lazzaro non può più aiutarlo. Questa verità è resa con l’immagine del “grande abisso” fissato da Dio come limite invalicabile in un senso e nell’altro. Questo apre al resto del dialogo.
vv. 27-28: E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, per­ché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Con questa seconda parte il racconto cambia direzione. Di nuovo il ricco si rivolge ad Abramo chiamandolo padre, ma per sollecitare l’invio di Lazzaro presso i fratelli ancora vivi a casa del padre. Non è il caso di commuoversi per il disinteresse di un dannato per la propria persona e la preoccupazione per gli altri: fa parte della tecnica narrativa per riportare il discorso sulla terra e introdurre l’argomento dei fratelli. Lo scopo della nuova missione di Lazzaro sarebbe quello di testimoniare per evitare ai fratelli una sorte simile a quella del ricco.
v. 29: Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". Questo versetto costituisce il fulcro della parabola. Il ricco subisce un secondo rifiuto. Positivamente viene affermata la permanente validità della Legge, come già nei vv. 16-18 che precedono e che influiscono ora sulla comprensione della parabola dandole i tratti cristiani che le mancano se considerata in sé: Mosè e i profeti devono essere ascoltati alla luce delle esigenze del Regno rivelate da Gesù.
In Mosè e nei profeti, che è quanto dire nelle Sacre Scritture, Dio ci ha dato la sua parola, la quale mira ad ammonirci, illuminarci e farci da guida (2Pt 1,19), affinché non abbiamo a finire nel luogo di tormento. La Scrittura contiene l’insegnamento necessario e sufficiente per conoscere la volontà di Dio e quindi per entrare nel “seno di Abramo”. Gesù è il compimento dell’Antico testamento (Cfr. Lc 24,27.44).
vv. 30-31: E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qual­cuno andrà da loro, si convertiranno". Quante volte anche noi come il ricco usiamo quel “ma se…”: è la tentazione di pensare che un miracolo sia più conveniente dell’ascolto della Parola di Dio. Qui abbiamo ancora un netto rifiuto della Parola, ma l’evangelista ama ricordare ai suoi lettori il verbo “convertire” e l’allusione alla resurrezione di Gesù (o anche alla risurrezione di Lazzaro, che non ha avuto effetto di conversione presso molti Giudei testimoni del miracolo?). Anche in Mt 12,39s. i dottori della legge e i farisei chiedono un segno, un miracolo, ma nessun segno è stato dato loro se non quello di Giona.
Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Pro­feti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti". Abramo riprende i termini dei vv. 29-30 per formulare l’ultimo rifiuto. Il ricco deve imparare a dirottare la propria vita costruendola sul cuore di Dio facendo la sua volontà. Frutto genuino di questa conversione è la pratica dell’amore del prossimo (3,10s; Is 58,6s.).
L’allusione alla risurrezione (di Gesù) si fa ancora più esplicita nell’espressione “alzarsi, risorgere dai morti”.
Il messaggio è chiaro: i miracoli possono impressionare ma non necessariamente convertire. La conversione implica l’apertura del cuore a Dio, l’attenzione a scoprire la Sua presenza nella Sua parola: il bisogno di segni straordinari è superfluo. Per Luca, quest’ultima parte della parabola costituisce anche una risposta alla domanda su come evitare il destino del ricco: convertirsi! Aprirsi a Dio che parla nella Scrittura e obbedire al suo insegnamento.

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
"Un tale era ricco e si vestiva di porpora e bisso e banchettava ogni giorno splendidamente. E c’era un mendicante, di nome Lazzaro, pieno di piaghe, che se ne stava per terra alla porta del ricco" (Lc 16,19). Alcuni credono che il Vecchio Testamento sia più severo del Nuovo ma si sbagliano. Nel Vecchio, infatti, non è condannato il non dare, ma la rapina. Qui, invece, questo ricco non è condannato per aver preso l’altrui, ma per non aver dato il suo. Non si dice ch’egli abbia fatto violenza a qualcuno, ma che faceva pompa dei beni ricevuti. Si può capire, quindi, quale pena dovrebbe meritare colui che ruba l’altrui, se è già condannato all’inferno colui che non dona il proprio. Nessuno perciò si assicuri dicendo: Non ho rubato nulla, mi godo ciò che m’è stato legittimamente assegnato, poiché questo ricco non è stato punito per aver rubato, ma perché si abbandonò malamente alle cose che aveva ricevuto. Lo ha condannato all’inferno quel suo non essere guardingo nella prosperità, il piegare i doni ricevuti al servizio della sua arroganza, il non aver voluto redimere i suoi peccati, pur avendone tutti i mezzi...
Ma bisogna far bene attenzione anche al modo di narrare usato dalla Verità, quando indica il ricco superbo e l’umile povero. Si dice infatti: "Un tale era ricco", e poi si aggiunge subito: "E c’era un povero di nome Lazzaro". Certo, tra il popolo son più noti i nomi dei ricchi, che quelli dei poveri. Perché allora il Signore, parlando di un ricco e di un povero, tace il nome del ricco e ci dà quello del povero? Certo, perché il Signore riconosce e approva gli umili e ignora i superbi. Perciò dice anche ad alcuni che s’insuperbivano dei miracoli da loro operati: "Non vi conosco; andate via da me, gente malvagia" (Mt 7,23). Invece di Mosè è detto: "Ti conosco per nome" (Ex 33,12). Del ricco, dunque, dice: "Un tale ricco"; del povero, invece: "Un mendicante di nome Lazzaro", come se volesse dire: Conosco il povero, umile, non conosco il ricco, superbo; quello lo approvo riconoscendolo, questo lo condanno rifiutando di conoscerlo.
Bisogna anche osservare con quanta attenzione il nostro Creatore disponga tutte le cose. Il fatto è uno solo, ma non dice una cosa sola. Lazzaro, coperto di piaghe, sta innanzi alla porta del ricco. Da questo unico fatto il Signore ricava due giudizi. Forse il ricco avrebbe avuto una scusa, se Lazzaro povero e piagato non fosse stato proprio alla sua porta, se fosse stato lontano, se la sua indigenza non avesse dato perfino fastidio ai suoi occhi. E se il ricco fosse stato lontano dagli occhi del povero malato, questi avrebbe dovuto sopportare una tentazione meno grave. Ma ponendo il povero e malato alla porta del ricco e gaudente, il Signore, allo stesso tempo, aggrava il titolo di condanna del ricco, che non si commuove alla vista del povero, e fa vedere quanto grande sia la tentazione del povero, che vede ogni giorno lo scialacquio del ricco. Non vedete, infatti, che dura tentazione dovesse essere per il povero non aver neanche il pane, esser malato, e vedere il ricco far feste tra porpora e bisso; sentirsi mordere dalle piaghe e veder quello scialarsela tra tanti beni, aver bisogno di tutto e veder quello che non voleva dar nulla? Che tumulto di tentazioni dev’essere stato nel cuore del povero, per il quale poteva essere già abbastanza la sola pena della povertà, anche se fosse stato sano; e poteva essere abbastanza la malattia, anche se avesse avuto dei mezzi. Ma perché il povero fosse maggiormente provato, fu afflitto contemporaneamente dalla malattia e dalla povertà. Vedeva il ricco muoversi sempre in mezzo a uno stuolo di gente, e lui nessuno lo visitava. E che nessuno lo avvicinasse lo attestano i cani che ne leccavano le piaghe.
"Morì poi il mendicante e fu portato dagli angeli tra le braccia di Abramo. Morì anche il ricco e fu gettato nell’inferno" (Lc 16,22). Così proprio quel ricco, che in questa vita non volle aver compassione del povero, ora, condannato, ne cerca l’aiuto. Viene aggiunto, infatti: "Alzando gli occhi dai suoi tormenti, vide lontano Abramo e Lazzaro tra le sue braccia e gridò: Padre Abramo, abbi pietà di me. Di’ a Lazzaro che metta il suo dito nell’acqua e ne faccia cadere una goccia sulla mia bocca, perché io brucio in questa fiamma" (Lc 16,23-24). Oh, quant’è sottile il giudizio di Dio! E quant’è misurata la distribuzione dei premi e delle pene! Lazzaro avrebbe voluto le briciole che cadevano dalla mensa del ricco, e nessuno gliele dava; ora il ricco, nel supplizio, vorrebbe che Lazzaro facesse cadere dal dito una goccia d’acqua sulla sua bocca. Vedete, vedete, allora, fratelli, quanto sia stretta la giustizia di Dio. Il ricco non volle dare al povero piagato la più piccola porzione della sua mensa, e nell’inferno è ridotto a chiedere la più piccola delle cose. Negò le briciole e chiede una goccia d’acqua...
Ma voi, fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro. (Gregorio Magno, Hom., 40, 3 s.10).

A chi faccio torto, dici, se mi tengo il mio? Ma, dimmi, che cosa è tua? Che cosa hai portato tu alla vita? Come se uno, avendo preso prima un posto in un teatro, poi cacci via quelli che entrano, pretendendo che sia suo ciò che è fatto a beneficio di tutti; così sono i ricchi. Occupano i beni comuni e ne pretendono la proprietà perché li hanno occupati prima. Se invece ognuno prendesse solo ciò che è necessario al proprio bisogno e lasciasse agli altri ciò che non gli serve, nessuno sarebbe ricco e nessuno sarebbe povero. Non sei uscito nudo da tua madre? Non tornerai nudo nella terra? Da che parte ti son venuti i beni che hai? Se dici che ti vengono dal fato, sei un empio, perché non riconosci il Creatore e non sei grato a chi te li ha dati; se dici che ti vengono da Dio, spiegaci perché te li ha dati. Può essere ingiusto Dio, che darebbe inegualmente le cose necessarie alla vita? Perché, mentre tu sei ricco, l’altro è povero? Non forse perché tu possa avere la mercede del giusto e fedele dispensatore e l’altro acquisti il grande premio della pazienza? Tu invece abbracci tutto nelle insaziabili pieghe dell’avarizia e mentre privi tanta gente, credi di non far torto a nessuno. Chi è l’avaro? Colui che non è contento di quanto basta. Chi è il saccheggiatore? Chi prende la roba degli altri. Non sei avaro? non sei un saccheggiatore? Tu ti appropri di ciò che hai ricevuto per dispensarlo. Sarà chiamato ladro chi spoglia uno che è vestito e non meriterà lo stesso titolo colui che, potendo vestire un nudo, non lo veste? È dell’affamato il pane che tu possiedi; è del nudo il panno che hai negli armadi; è dello scalzo la scarpa che s’ammuffisce in casa tua; è dell’indigente l’argento che tu tieni seppellito. Quanti sono gli uomini ai quali puoi dare, tanti son coloro cui fai torto. (Basilio di Cesarea, Hom., 12, 7).

Alcune domande per la riflessione personale e il confronto
Come considero le mie ricchezze? Per cosa spendo i miei soldi?
Qual è il mio atteggiamento verso i poveri che bussano alla mia porta? Mi sono mai impegnato per alleviare le loro sofferenze?
Cosa significa per me “ascoltare Mosè e i Profeti”? Ci sono persone che come il ricco della parabola, attende miracoli per poter credere in Dio. Ma Dio chiede di credere in Mosè e nei profeti. Ed io, verso che lato tende il mio cuore: verso il miracolo o verso la Parola di Dio?
Quale è la mia idea di aldilà?

Pregare
Nella preghiera del Sal 15 (14) risuona la predicazione dei profeti e il loro richiamo a una religiosità del cuore:
Signore, chi abiterà nella tua tenda?
Chi dimorerà sul tuo santo monte?
Colui che cammina senza colpa,
agisce con giustizia e parla lealmente,
non dice calunnia con la lingua,
non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulto al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
Anche se giura a suo danno, non cambia;
presta denaro senza fare usura,
e non accetta doni contro l'innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre.

Contemplare-agire
Lasciamo che la Parola illumini la nostra vita. Accogliamo anche noi quest’ammonimento da vivere nella vita: Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero! … Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà usato misericordia; la misericordia invece ha sempre la meglio nel giudizio. (Gc 2,5-6.12).

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C
Lectio divina su Lc 16,1-13

Benedetto il Signore che rialza il povero



Invocare
Signore, Padre mio, oggi porto davanti a te la mia debolezza, la mia vergogna, la mia lontananza; non nascondo più la mia disonestà e infedeltà, perché tutto tu conosci e vedi, fino in fondo, con gli occhi del tuo amore e della tua compassione. Ti prego, buon medico, versa sulla mia piaga l'unguento della tua Parola, della tua voce che mi parla, mi chiama e mi ammaestra. Non togliermi il tuo dono, che è lo Spirito Santo: lascia che soffi su di me, come alito di vita, dai quattro venti; che mi avvolga come lingua di fuoco e che mi inondi come acqua di salvezza; invialo per me dai tuoi cieli santi, come colomba di verità, che mi annunci, anche per oggi, che tu ci sei e mi aspetti, mi riprendi con te, dopo tutto, come al primo giorno, quando tu mi plasmasti e creasti e chiamasti.

Leggere
1Diceva anche ai discepoli: «Un uomo ricco aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. 2Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più ammini­strare". 3L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. 4So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua". 5Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse al primo: "Tu quanto devi al mio padrone?". 6Quello rispose: "Cento barili d'olio". Gli disse: "Pren­di la tua ricevuta, siediti subito e scrivi cinquanta". 7Poi disse a un altro: "Tu quanto de­vi?". Rispose: "Cento misure di grano". Gli disse: "Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta". 8Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. 9Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a man­care, essi vi accolgano nelle dimore eterne.
10Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. 11Se dunque non siete stati fe­deli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? 12E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
13Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, op­pure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire Dio e la ricchezza».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
1 Cr 27,31; 28,1; Est 3, 9; Dan 2,49; 6,4; Tob 1,22; 1Cor 4,1s; 1Pt 4,10; Mt 6,24; At 20, 19; 1 Tes 1, 9; Gal 1, 10; Rm 12, 11; 1Tim 6,17-19.

Capire
In tutto il cap. 16 del vangelo di Luca — a eccezione di un cenno sulla legge (16,16-17) e sul divorzio (16,18) — Luca sviluppa il tema dell’uso cristiano della ricchezza. Si tratta evidentemente di un argomento di grande importanza per la sua comunità. Prima Gesù si rivolge ai discepoli con la parabola dell’amministratore disonesto (vv. 1-8) e alcune affermazioni riguardo la ricchezza (vv. 9-13). Poi vi è un’altra serie di parole di Gesù dedicate questa volta ai farisei troppo amanti del denaro (vv. 16-18) e la parabola del ricco epulone (vv. 19-31).
Questa pericope evangelica appartiene alla grande sezione del racconto di Luca che comprende tutto il lungo viaggio di Gesù verso Gerusalemme; si apre con Lc 9, 51 per terminare in Lc 19, 27.
Questa sezione, a sua volta, è suddivisa in tre parti, quasi tre tappe del viaggio di Gesù, ognuna delle quali viene introdotta da un'annotazione, a mò di ripetizione: "Gesù si diresse decisamente verso Gerusalemme" (9, 51); "Passava per città e villaggi insegnando, mentre camminava verso Gerusalemme" (13, 22); "Durante il viaggio verso Gerusalemme, Gesù attraversò la Samaria e la Galilea" (17, 11); per giungere alla conclusione di 19, 28: "Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme", quando Gesù entra nella Città.
Noi ci troviamo nella seconda parte, che va da 13, 22 a 17,10 e che si compone di diversi insegnamenti, che Gesù offre ai suoi interlocutori: la folla, i farisei, gli scribi, i discepoli. In questa unità, Gesù sta dialogando con i suoi discepoli e offre loro una parabola, per indicare quale sia l'uso corretto dei beni del mondo e come debba essere l'amministrazione concreta della propria vita, inserita in un rapporto filiale con Dio. Seguono tre "detti" o applicazioni secondarie della stessa parabola in situazioni diverse, che aiutano il discepolo a fare spazio alla vita nuova nello Spirito, che il Padre gli offre.

Meditare
v. 1: Diceva anche ai discepoli… Gesù nel capitolo precedente stava mangiando con i peccatori e si era messo a parlare con gli scribi e i farisei che lo criticavano per i suoi commensali. Ora il discorso di Gesù si rivolge a un uditorio più vasto: «diceva anche ai discepoli». I farisei rimangono da sfondo e torneranno in primo piano con il v. 14.
Un uomo ricco aveva un amministratore… La parabola parla di un uomo ricco che aveva un amministratore: due protagonisti per un racconto particolare. Era una situazione normale nella civiltà palestinese. Il sistema del latifondo era esteso in Galilea e spesso era in mano a degli stranieri. L’amministratore sembra un uomo libero, che svolge la funzione di tesoriere presso un privato: ha in mano gli affari del proprietario. L’occasione che dà l’avvio all’azione è l’accusa fatta all’amministratore di sperperare i beni del padrone.
v. 2: Lo chiamò e gli disse: "Che cosa sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non potrai più ammini­strare". È il momento del licenziamento, del rendiconto in seguito ad una precisa accusa. Non si dice niente sulla fondatezza e le motivazioni dell’accusa, non si dice se è stato disonesto o negligente. La richiesta dimostra nel proprietario una sfiducia tale, da far capire chiaramente quanto egli sia irritato e deciso a sbarazzarsi del suo amministratore. Di colpo l’amministratore si trova nei guai. È destituito e deve rendere conto della sua gestione. Questa espressione ha sapore di giudizio (Mt 12,36).
vv. 3-4: L'amministratore disse tra sé: "Che cosa farò, ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ne ho la forza; mendicare, mi vergogno. Inizia un soliloquio che contiene uno stretto parallelismo con il v. 9. Qui il fattore lascia vedere in quale imbarazzo si trovi. Parlando con se stesso, l’amministratore comincia a pensare al proprio futuro: le ipotesi di impietosire il padrone per fargli cambiare idea o di cercare lo stesso lavoro presso un altro padrone sono escluse a priori, nemmeno vi pensa.
Egli piuttosto dichiara esplicitamente di non sentirsela di zappare, lavoro pesante in ogni epoca. Si vergogna di mendicare, ricordandosi forse del consiglio del saggio: «E’ meglio morire che mendicare» (Sir 40,28). Ci sarebbero senza dubbio altri mestieri a cui egli poteva dedicarsi. Certo il binomio zappare-mendicare è un espressione popolare.
So io che cosa farò perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. L’amministratore comincia a riflettere, come già avevano fatto il contadino per la torre e il re di fronte alla minaccia di una guerra. La domanda di fondo, che in ultima analisi è anche la nostra, è la seguente: che cosa fare per avere un avvenire sicuro? Egli pensa a qualcuno che lo accoglierà a casa sua: i debitori del suo signore! Egli è ancora l’amministratore e può disporre di quanto gli era stato affidato.
vv. 5-7: Chiamò uno per uno i debitori del suo padrone e disse… L’amministratore passa all’azione: fa venire i vari debitori uno a uno. Di nuovo Luca propone due esempi in rappresentanza dell’intera azione. Anche le domande poste in forma diretta, la menzione ad alta voce del debito fanno parte dell’arte narrativa e servono a introdurre l’ascoltatore nella questione.
I debitori potrebbero essere mezzadri in ritardo con la consegna del raccolto o piuttosto mercanti ai quali è stata anticipata la merce; comunque grossi trafficanti, come si conviene nei racconti orientali.
…Cento barili d'olio… Il primo deve 100 barili, cioè circa 365 litri (la produzione di 140-160 ulivi): riceve uno sconto del 50%.
…Cento misure di grano… Il secondo deve 100 misure di grano, cioè circa 550 quintali (la produzione di 42 ettari di terreno) e riceve uno sconto del 20%; la differenza dello sconto è solo per variare un po’ il racconto.
…scrivi cinquanta… scrivi ottanta… Era il debitore stesso a scrivere la somma dovuta; quindi l’amministratore per prudenza, fa scrivere la nuova cifra dalla mano stessa del debitore su un altro foglio.
v. 8: Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza… La parabola originariamente si concludeva con un elogio a sorpresa da parte di Gesù; ma nel testo attuale la tradizione glielo attribuisce indirettamente, mettendolo in bocca al padrone. Certo l’amministratore ha agito in modo disonesto, come dice chiaramente l’espressione “amministratore d’ingiustizia”. Ma ad essere lodata non è la sua ingiustizia, bensì la sua accortezza: egli ha saputo garantirsi un futuro nel poco tempo rimasto a sua disposizione. Come in Lc 12,42, l’accortezza qualifica un comportamento cristiano richiesto al credente in attesa della venuta finale del Signore.
Accorto o scaltro è quel discepolo che tiene presente che il suo Signore lo chiamerà alla resa dei conti (12,42-46); così pure è accorto quel discepolo che non vivacchia alla giornata, ma comprende l’esigenza dell’ora e opera con determinazione e coraggio per poter resistere fino alla fine.
La parabola reca l’impronta dell’annuncio escatologico che potrebbe tradursi così: sii prudente e preoccupati, nell’ultima ora, di quello che sarà il tuo avvenire alla fine dei tempi.
La parabola trova il suo punto centrale nelle parole: I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Gesù contrappone due categorie di persone: i figli di questo mondo e i figli della luce. I primi sono coloro che appartengono alla categoria del fattore astuto; sono quindi gente impegnata in affari terreni con raggiri e inganni. I secondi sono quelli che operano con rettitudine, con onestà di vita. Ma essi ricevono un biasimo, che va inteso come un imperativo: nelle cose che riguardano il regno di Dio, le esigenze del Vangelo, nel compito di gran lunga più importante e decisivo di tendere alla salvezza eterna devono prendere ad esempio il comportamento energico, accorto, tempestivo del fattore.
Certamente tra il discepolo di Gesù e il fattore disonesto non c’è nulla in comune. Tuttavia il discepolo è chiamato ad imparare dal fattore disonesto la furbizia.
v. 9: Ebbene, io vi dico: fatevi degli amici con la ricchezza disonesta, perché, quando questa verrà a man­care, essi vi accolgano nelle dimore eterne. Il giudizio sulla ricchezza è non soltanto polemico, ma anche forte. Essa è chiamata disonesta. Perché ? Molteplici sono le ragioni. Lo è perché alle volte è frutto di ingiustizie; perché frequentemente diventa mezzo di oppressione, di ingiustizie. Lo è perché inganna l’uomo, invitandolo a porre in essa soltanto la propria fiducia; è ciò è confermato dall’espressione semitica originaria “mammonà di iniquità”.
Il termine mammonà (qui tradotto con ricchezza) significa ciò in cui si pone la propria fiducia. Il senso generale appare chiaro, la formulazione nondimeno rimane curiosa e ha dato luogo a varie interpretazioni dell’espressione Mammonà di ingiustizia. Questo termine ritorna tre volte di seguito acquista particolare rilievo: il Mammonà appare come una forza personificata, un anti-Dio. Il termine ebraico mamon proviene dalla radice mwn: nutrimento, provvista o da ’mn: stabile, solido, e significa: denaro, fortuna. Il termine non è biblico, ma si trova nella letteratura giudaica.
Cosa può dunque significare il termine Mammonà d’ingiustizia? Esso può essere rettamente inteso come “ricchezza che non ci appartiene”, sullo sfondo dell’insegnamento biblico: il creato e tutti i suoi beni appartengono a Dio, all’uomo sono soltanto affidati. Di conseguenza il Mammona appartenendo a Dio non è ingiusto in se stesso, ma lo diventa non appena l’uomo se ne appropria e lo accumula per sé, comportandosi come se Dio non ne fosse il padrone. La nota di ingiustizia non riguarderebbe quindi il bene terreno come tale. Essa pare legata alla tendenza dell’uomo a riportare questi beni a se stesso, ad accumularli per suo profitto, a considerarsene il padrone assoluto.
Le “dimore eterne” è un’ espressione tipica, la quale sta a designare il luogo della salvezza, cioè il Paradiso. A tale riguardo si pensi al detto di Gesù : “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore” (Gv 14,2).
v. 10: Chi è fedele in cose di poco conto, è fedele anche in cose importanti; e chi è disonesto in cose di poco conto, è disonesto anche in cose importanti. L’argomento cambia: non è più questione di dare la ricchezza ai poveri, ma di amministrarla bene, in riferimento al comportamento dell’amministratore della parabola ora giudicato negativamente. Il versetto prende dunque in considerazione l’agire rimproverabile dell’amministratore e vede nella disonestà il motivo del suo licenziamento. Però il contesto richiede di allargare la visuale: si richiede che sia fedele (12,42; 1Cor 4,2). È la scelta fondamentale di Dio senza compromessi che detta il comportamento da seguire nell’uso dei beni terreni. Allora, proprio la fedeltà o meno nell’uso della ricchezza che Dio ha affidato all’uomo risulta un test efficace della fedeltà a Dio.
vv. 11-12: Se dunque non siete stati fe­deli nella ricchezza disonesta, chi vi affiderà quella vera? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Questi versetti sono l’applicazione della massima precedente, fatta in forma di doppia domanda e secondo un ragionamento “da minore a maggiore” caratteristico dell’insegnamento rabbinico. Si tratta di un incoraggiamento a non dimenticare il vero bene che aspetta il discepolo nel cielo; per ottenerlo però il discepolo deve dimostrarsi fedele nell’uso dei beni materiali e questa fedeltà nei confronti del Mammonà ingiusto (cioè che non appartiene all’uomo) non sta in una buona gestione economica, ma nel donare i propri beni ai poveri.
Il Mammonà è la ricchezza altrui o ciò che ci è estraneo; il regno di Dio, la nuova vita, è quanto possiamo dire veramente nostro. Noi ad una persona che non è capace di amministrare e che non ha con noi un rapporto profondo, non affideremo mai quanto abbiamo di caro. Eppure Dio ci offre il suo regno e ci rende partecipi della sua vita, ci dona qualcosa di suo, qualcosa a cui è personalmente interessato.
Attraverso la fedeltà nell’amministrazione dei beni terreni, il discepolo viene messo alla prova, per vedere se egli sia adatto a ricevere i beni del mondo futuro.
v. 13: Nessun servitore può servire due padroni, perché o odierà l'uno e amerà l'altro, op­pure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Chiude il nostro brano una sentenza parenetica sapienziale. Essa inizia come un proverbio: l’esperienza mostra che quando uno schiavo è a servizio di due padroni, egli immancabilmente finirà per servire l’uno meglio dell’altro.
La parte centrale del versetto, in forma di parallelismo sinonimico, spiega il motivo: egli nutrirà più simpatia nei confronti dell’uno, a svantaggio dell’altro. Gesù non ritiene nessun compromesso tra il servizio di Dio e il servizio di Mammonà. È necessario scegliere!
Non potete servire Dio e la ricchezza. La finale volge l’applicazione agli ascoltatori, chiamandoli a fare la scelta migliore, anche se desta una inquietudine interioreperchè toglie quella “beatitudine delle ricchezze”. Essi sanno che devono amare Dio, un tale servizio è incompatibile con quello di Mammonà.
L’incompatibilità non è tanto tra Dio e Mammonà, ma nel cuore dell’uomo. È il cuore, cioè le sue scelte fondamentali che non deve essere diviso. Il pericolo della ricchezza è che l’uomo finisca con l’innamorarsi di essa. Allora essa diventa un padrone esigente.
Con queste parole Gesù vuole che l’uomo invece scelga Dio e che mantenga un uso corretto della ricchezza, cioè la sua distribuzione ai poveri. Egli, in un certo senso, dice: se vi trovate ad essere ricchi (anche in modo disonesto), non attaccatevi al denaro, ma usatelo per farvi degli amici (non debitori che debbano restituire, magari con gli interessi), perché nel momento escatologico, quando i quattrini non avranno più potere, saranno necessarie delle “raccomandazioni” per essere accolti nelle “dimore eterne”, vale a dire quei poveri che parleranno bene di voi.

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
È una parabola molto chiara e non c’è bisogno di spiegarne i dettagli. Ci dica lo stesso Signore perché inventò questa parabola. "Perché", egli dice, "i figli di questo mondo son più avveduti dei figli della luce" (Lc 16,8). Il Signore non loda, certo, la malizia dell’amministratore, ma la sua avvedutezza. Non lo loda per la frode che fa, ma per l’ingegno col quale provvede al suo futuro. Non sapendo, infatti, come vivere, poiché non era capace di zappare e si vergognava di chieder l’elemosina, trovò un aiuto singolare, aggiungendo una frode alla malversazione dei beni del suo padrone. Non viene lodato per la moralità della sua azione, ma per l’astuta trovata. E a questa avvedutezza applaude il Signore, quando dice: "I figli di questo mondo sono più avveduti dei figli della luce". Quelli sono più avveduti nel male che questi nel bene. A stento, infatti, si trovano alcuni santi che mettano tanta accortezza nell’acquisto dei beni eterni, quanta furbizia hanno questi nell’accaparrarsi i beni temporali. Per questi essi vegliano giorno e notte, lavorano, s’angustiano, e con frodi, furti, rapine, tradimenti, spergiuri, omicidi non cessano mai d’accumular tali ricchezze. E chi può dire quanta furbizia mettano nell’ingannarsi l’un l’altro? Sentano i figli della luce e si vergognino di farsi vincere dai figli di questo mondo. Queste cose sono state scritte proprio perché diventiamo più accorti senza tuttavia imitarli nell’ingiustizia. Perciò viene aggiunto: E io vi dico: "Fatevi degli amici col mammona d’iniquità" (Lc 16,9), ma non come fece l’amministratore infedele. Non frodando l’altrui, ma dando il vostro. Tutte le ricchezze che sono avaramente conservate, sono inique. E non sono equamente distribuite, se, dopo aver messo da parte ciò che serve a te, non dai il resto agli indigenti. Perciò l’Apostolo: Ci vuole - dice - una certa uguaglianza; la vostra abbondanza colmi la loro indigenza e la loro abbondanza supplisca alla vostra necessità (2Co 8,13). Dalle quali parole si vede bene che non ci viene ordinato di dare il necessario, ma il di più. L’Apostolo non vuole che diamo al punto da ridurci in penuria. Le ricchezze, allora, che per sé sono inique se son divise a questo modo, generano amici e il premio eterno. Le ricchezze non divise sono ingiuste, ma se son divise, diventano giuste. Né c’è più affatto ricchezza, se i beni son ridotti alla necessità. Tolto il superfluo, finisce il problema dell’iniquità della ricchezza. Il Maestro continua: "Chi è fedele nel poco è fedele anche nel molto, chi è ingiusto nel poco, è ingiusto anche nel molto ()". Questo vale particolarmente per gli apostoli e per i dispensatori dei beni della Chiesa. Non sono dunque da affidare cose importanti a quelli che nella vita privata non sono stati fedeli, e di quel poco che avevano non fecero opere di misericordia e di pietà. Ma non dobbiamo dubitare della fedeltà amministrativa di coloro che generosamente sovvengono gli altri col poco che hanno. Perciò l’Apostolo ammonisce che i vescovi non devono essere cupidi di danaro né procacciatori di lucro ingiusto. Bisogna tener presente nella elezione dei capi come si siano diportati nel poco e quanto abbiano di misericordia e di pietà. Perciò è detto ancora: "Se non siete stati fedeli nell’amministrare le ricchezze di questo mondo, chi vi affiderà le vere?" Se non avete usato in misericordia dei beni transitori, chi potrà affidarvi l’amministrazione dei beni della Chiesa, che sono veri e santi?
"E se non siete stati fedeli nel bene altrui, ciò che è vostro chi ve lo darà?" Non son beni nostri le cose che possono essere perdute a ogni momento della vita, come tutti i beni temporali. Son nostri invece i beni che non possiamo perdere. Son ricchezze altrui le ricchezze temporali; essere buoni e non mettere la nostra speranza nei beni temporali, questa è, invece, la nostra vera ricchezza. Ma questa ricchezza veramente nostra non ci sarà data, se non saremo fedeli nell’amministrare i beni temporali; a questa condizione i veri beni ci sono stati predestinati. (Bruno di Segni, In Luc., 2, 7).

"Se non siete stati fedeli nei beni che vi sono estranei, chi vi darà ciò che è vostro?" (Lc 16,12). Le ricchezze ci sono estranee, perché esse sono fuori della nostra natura: non nascono con noi, né trapassano con noi. Cristo, invece, è nostro, perché è la vita. "Così egli venne nella sua casa, e i suoi non lo ricevettero" (Jn 1,11). Ebbene, nessuno vi darà ciò che è vostro, perché voi non avete creduto a ciò che è vostro, non l’avete ricevuto.
Cerchiamo dunque di non essere schiavi dei beni che ci sono estranei, dato che non dobbiamo conoscere altro Signore che Cristo; "infatti uno è Dio Padre, da cui tutto deriva e in cui noi siamo, e uno è il Signore Gesù, per cui mezzo tutte le cose sono" (1Co 8,6).
Ma allora? Il Padre non è Signore e il Figlio non è Dio? Certo, il Padre è anche il Signore, perché "per mezzo della Parola del Signore i cieli sono stati creati" (Ps 32,6). E il Figlio è anche Dio, "che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli" (Rm 9,5).
In qual modo allora, nessuno «può servire a due padroni»? È perché non c’è che un solo Signore, dato che non c’è che un solo Dio. (Ambrogio, In Luc., 7, 246-248).

Alcune domande per la riflessione personale e il confronto
Quali reazioni suscita in me la parabola dell’amministratore infedele?
Ti è mai capitato di agire con “scaltrezza” pur di realizzare qualcosa che sentivi come volontà di Dio per te in quel momento?
Qual è il mio atteggiamento verso le ricchezze terrene? Sono diventate il mio padrone?
In ogni cosa metto Dio al primo posto?

Pregare
Signore,
aiutaci ad essere veri servitori del Regno dei cieli,
donaci la saggezza e la sapienza del cuore
nell’amministrare le ricchezze terrene,
perchè siano di sollievo ai poveri,
e perchè il nostro tesoro è nel cielo e non sulla terra.
Fà che il nostro sguardo sia sempre rivolto ai beni celesti
perchè sono i beni che durano in eterno
e danno valore e consistenza alle realtà della terra. Amen.

Contemplare-agire
Lasciamo che la Parola illumini la nostra vita. Ci aiutino le parole dell’Apostolo Paolo a farci riflettere e agire: A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non por­re la speranza nell'instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci da con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di opere buone, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vita vera (1Tim 6,17-19).

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO / C
Lectio divina su Lc 15,1-32

Donaci, o Padre, la gioia del perdono



Invocare
Signore Gesù, invia il tuo Spirito, perché ci aiuti a leggere la Scrittura con lo stesso sguardo, con il quale l'hai letta Tu per i discepoli sulla strada di Emmaus. Con la luce della Parola, scritta nella Bibbia, Tu li aiutasti a scoprire la presenza di Dio negli avvenimenti sconvolgenti della tua condanna e della tua morte. Così, la croce che sembrava essere la fine di ogni speranza, è apparsa loro come sorgente di vita e di risurrezione.
Crea in noi il silenzio per ascoltare la tua voce nella creazione e nella Scrittura, negli avvenimenti e nelle persone, soprattutto nei poveri e sofferenti. La tua Parola ci orienti, affinché anche noi, come i due discepoli di Emmaus, possiamo sperimentare la forza della tua risurrezione e testimoniare agli altri che Tu sei vivo in mezzo a noi come fonte di fraternità, di giustizia e di pace. Amen.

Leggere
1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 13Ed egli disse loro questa parabola: 4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta". 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i qua­li non hanno bisogno di conversione. 8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto". 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: "Pa­dre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lonta­no e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutriva­no i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". 22Ma il padre disse ai servi: "Pre­sto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i san­dali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24per­ché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai di­sobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso". 31Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».

Un momento di silenzio meditativo perché la Parola possa entrare in noi ed illuminare la nostra vita.

Passi utili alla meditazione
Mt 5,45; 6,25-34; 6,7-11; 18,12-14; Am 4,6-12; Ger 29,11; Es 34,6-7; Ger 5,23; 7,24; 17,9; Ez 2,3.7; 16,43; Gal 3,27; Col 3,12; Lc 15,6.9.32.

Capire
Il 15 capitolo del vangelo di Luca occupa un posto centrale nel lungo percorso di Gesù verso Gerusalemme. Questo percorso inizia in Luca 9,51 e termina in Luca 19,29. Il Capitolo 15 è come la cima della collina da cui si contempla il cammino percorso e da dove è possibile osservare il cammino che manca ancora. È il capitolo della tenerezza e della misericordia accogliente di Dio, temi che si trovano al centro delle preoccupazioni di Luca. Le comunità devono essere una rivelazione del volto di questo Dio per l'umanità.
Si tratta di tre parabole. L’annotazione introduttiva alle tre parabole del capitolo 15 ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si tratta di un comportamento che spesso irrita i giusti: non soltanto quelli del tempo di Gesù (“scribi e farisei mormoravano”), ma anche i cristiani successivi, come Luca spesso ricorda negli Atti degli Apostoli (11,13).
Le parabole di Gesù hanno un obiettivo ben preciso: il discernimento. Per mezzo di queste brevi storie tratte dalla vita reale cercano di condurre chi ascolta a riflettere sulla propria vita ed a scoprire in essa un determinato aspetto della presenza di Dio.

Meditare
vv.1-2: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro. Questo brano evangelico proprio all’inizio del capitolo inizia con questa sottolineatura. C’è fin dall’inizio una sete della Parola, tutti nessuno escluso, vogliono ascoltare Gesù. Quello di cui i pubblicani fanno esperienza è di trovarsi alla mensa della parola di Dio perché piacque a Dio, nel Suo immenso amore, parlare agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,45s) e intrattenersi con essi (cfr. Bar 3,38). Questa parola testimonia che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna. La Parola porta la salvezza, rende gli uomini partecipi dei beni divini.
Ma tutto questo diviene motivo di mormorazione. Quelli che si avvicinano a Gesù è gente che, con le proprie scelte di vita, si è auto-emarginata. Spesso sono odiati e disprezzati, e di conseguenza anche loro odiano e disprezzano tutti. Il fatto che si avvicinano a Gesù è singolare. Sono interessati dal suo discorso e non si sentono da lui rifiutati. Gesù gli apre una porta verso una riconciliazione e una comunione con Dio.
Gesù non approva il peccato, ma prende l'iniziativa di aprire una porta al peccatore perché possa cambiare vita e stare meglio.
vv. 3-7: Gesù si rivolge verso coloro che lo ascoltano: Se uno di voi ha cento pecore.... Lui dice "uno di voi". Ciò significa che tu/voi siete interpellati! Tutti siamo invitati a confrontarci con la strana e poco probabile storia della parabola.
e ne perde una… L’evangelista Luca a differenza dell’evangelista Matteo parla di pecorella smarrita e non sbandata e in qualche maniera introduce un “ritornello” che ritornerà durante il corso del capitolo (cfr. vv. 6.9.24.32).
In questi versetti traspare l’immagine di Dio buon pastore, immagine che già incontriamo nell’AT. L'immagine dei pastore era familiare nella vita palestinese ed era pure un tema classico delle Scritture. Ogni israelita più volte sentiva leggere e commentare nella sinagoga Ez 34: Dio, il vero pastore si preoccupa delle pecore più deboli, fascia quelle ferite e riunisce le disperse. L’abilità di Gesù sta nel mostrare che la sua accoglienza dei peccatori è conforme alla Scrittura, Allora lo scandalo di scribi e farisei contraddice proprio quelle Scritture che essi dicono di venerare e in nome delle quali pretendono di giudicarlo.
Va dietro a quella perduta... La pecora dunque più che smarrita è perduta, perciò praticamente "irrecuperabile". Scribi e farisei di tutti i tempi sono portati a considerarla "spacciata" e quindi abbandonarla alla propria sorte. D'altra parte se l'è voluta essa stessa, con la propria sconsideratezza. Per Dio, invece, non ci sono individui "spacciati", Per Zaccheo, come per tutti i peccatori "spacciati", c'è la sorpresa di essere ancora amati e ricercati.
Finché non la ritrova ... Le ricerche non hanno un limite prefissato, si prolungano anche se sopravviene la notte e il pastore è stremato. L'amore di Dio è ostinato, tenace, perseverante, non cessa mai di inseguire la propria "preda".
Ritrovatola… La parabola non si sofferma a documentare le ricerche, l'angoscia, la fatica, i dubbi. La gioia del ritrovamento assorbe e cancella tutto ciò che è avvenuto prima. (La donna quando partorisce .... Gv. 10,21 ). Per il pastore ciò che conta è aver recuperato la pecora, non importa il prezzo pagato in termini di sofferenze e disagi, Molti altri, al suo posto, non si sarebbero nemmeno mossi e avrebbero addotto diversi motivi " ragionevoli". Ma l'amore non ragiona e la speranza non ha il calcolo delle probabilità. Non è la pecora che ritrova il pastore, essa viene ritrovata. Essa è capace di allontanarsi, fuggire, ma il ritrovamento non è opera sua.
Se la mette in spalle tutto contento... Un pastore normale l'avrebbe fatta camminare davanti a sé, magari sollecitandola con qualche leggero tocco di bastone. Questo strano pastore, invece, risparmia alla pecora la fatica del viaggio di ritorno. "Tutto contento" non esprime un sentimento momentaneo di euforia. È lecito immaginare il pastore che percorre la strada del ritorno canticchiando e fischiettando e così comunica la propria gioia alla pecora ancora stordita dopo la brutta avventura.
Va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: rallegratevi con me… Il pastore sente l'esigenza di partecipare e comunicare la gioia al vicini. Abbiamo così una convocazione per la festa: si celebra un amore che ha avuto ragione di tutte le previsioni pessimistiche, un amore che non si è arreso. Ma la gioia si trasferisce anche in cielo: "Così vi sarà più gioia in cielo ....... "
La vicenda dei pastore non ha altro scopo che quello di illustrare il comportamento di Dio nei confronti dei peccatori. Il cuore, della parabola è la gioia dei pastore che ritrova la sua pecora. Nella realtà è la gioia che Gesù prova vedendo che i peccatori lo ascoltano, dunque un sentimento che egli vorrebbe condividere cori tutti e che invece suscita mormorazioni: in Gesù si fa visibile la gioia di Dio Padre per i peccatori che si convertono. Da sottolineare "un peccatore". L'accento viene posto sul singolo: un peccatore solo. Ogni persona agli occhi di Dio equivale a un tutto, ossia acquista un valore unico, assoluto.
vv.8-10: Questa parabola è diversa anche se il significato è lo stesso. La breve storia della moneta perduta allude al comportamento normale e delle donne povere, che non hanno molto denaro. Siamo in una casa buia.
La ricerca inizia con l’accensione della lampada. Le tenebre del peccato si vincono solo con la Luce che è Cristo (Gv 1,4-5.9). Il secondo gesto è quello di "spazzare la casa".
La donna troverà il suo tesoro sotto la spazzatura raccolta nella casa. Così anche il Padre troverà il Suo Figlio, che non conobbe peccato (2Cor 5,21), tra i malfattori sulla croce (23,39ss.), fatto Lui stesso peccato e maledizione per noi. In questo modo Dio rivela la sapienza della sua tenerezza: perde il Figlio per ritrovarlo sotto tutti i fratelli perduti.
Tutto il mondo è casa di Dio, perché vi abita chi lui ama e cerca. Lo mette a soqquadro e lo ripulisce tutto, in modo che, raccogliendo il Figlio unico che si è fatto ultimo di tutti, raccolga prima di Lui anche tutti gli altri. Lui il tesoro, gli altri la spazzatura!
E questi gesti esprimono il cuore di questa donna.
Ella cerca attentamente (con cura). È lo stesso atteggiamento del Dio di Mosè che "si prende cura del suo popolo". È l’amore concreto del Samaritano… un amore completo e fedele.
v. 11: Un uomo aveva due figli. Qui abbiamo i protagonisti della parabola: un uomo, che è padre; due figli, che sono fratelli. Il mondo è come una casa. La realtà umana come ce la presenta il Vangelo è una realtà d’amore.
Padre è colui che ha la Vita e la trasmette gratuitamente. Padre è un nome che dice Alleanza, comunione d’amore con un partner, il figlio. Dio è Padre perché crea, redime, santifica; Lui opera per la "pienezza della Vita" (cfr. Gv 3,16.17).
Due figli… è l’inizio della comunità e della diversità. Ciò che li rende diversi è il modo con cui arrivano a conoscere il Padre. La conoscenza di sé arriva attraverso il rapporto con un tu. Se non ci si riconosce come figli non ci si può riconoscere fratelli.
Questi due fratelli sono il richiamo di tanti fratelli in lotta fra di loro: Caino - Abele; Giacobbe - Esaù; Giuseppe - i suoi fratelli.
v. 12: Il più giovane disse al padre: Padre dammi la parte del patrimonio che mi spetta. Nel figlio giovane c’è un’aria di tenerezza e affetto. Lui stesso si sente figlio tanto è vero che solo lui dirà “padre”… il maggiore non lo dirà mai. In questo giovane l’uomo di tutti i tempi. Egli chiede il patrimonio, la "sostanza" del padre. Non è arrivato a sapere che la "sostanza" del padre è identica alla sostanza del figlio. Non sa che tutto ciò che è del padre è del figlio. Gesù ci ricorderà che il Figlio è "consustanziale" al Padre.
In questo figlio c’è Adamo (Gen 3) col suo peccato! L’uomo si sottrae alla Paternità. Il Padre diventa una presenza ingombrante. "Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali ma più importante di questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna" (Giovanni Paolo II). Con questa richiesta il figlio introduce la giustizia nella vita di famiglia. Lì dove l’amore dovrebbe essere regola unica e suprema ora c’è la giustizia. L’umanità non è più famiglia ma un insieme di concorrenti che si contendono la felicità. La comunione è finita, l’unità spezzata. C’è il "mio" e il "tuo".
Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Il Padre non parla, non si mette a discutere col figlio. Avrebbe potuto dirgli: "Che cosa devo fare ancora per te, che io non abbia già fatto? Perché, mentre attendevo che producessi hai dato comportamenti selvatici? (cfr. Is 5,4).
Il Padre non reagisce nervosamente ma con-divide. Lui, in silenzio, porta il peso di un gesto insensato. Di fronte alla scelta del figlio minore non oppone resistenza. Fa spazio all’esistenza dell’altro. Si ritira perché il figlio viva. Dio fa spazio alla dignità delle sue creature. Lui, l’Onnipotente, non va contro la nostra volontà. Non ha paura del giudizio degli altri. La forza che il padre usa è quella dell’amore.
Il comportamento del padre è suggerito dal desiderio di lasciare al figlio una possibilità di ritorno. Di ritrovare la casa. Il padre non vuole rompere con questo figlio ribelle.
v. 13: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Il peccato entra nel tempo quotidiano, nella vita. C’è nel figlio la fretta di partire. Il principio dell’avere, del possedere non è un principio di comunione e di armonia. Creare un’unione economica significa creare una comunione fragile. L’unione economica finisce nella discriminazione. Come Adamo, questo figlio si orienta non più sulle persone ma sulle cose. C’è nell’uomo il desiderio di essere padrone, di non fare riferimento ad altri.
Questo figlio non saluta, non si congeda. Raccoglie e parte.
C’è in lui la preoccupazione di chi accumula tesori che la ruggine e la tignola consumano. Non vive per il Regno e la sua giustizia. Per questo figlio sono importanti le "cose", non l’unità e l’armonia familiare. La sua vita esce dalla relazione d’amore. Esce dalla casa come Adamo (Gen 3,8-10). Ma il salmista si interroga: esiste un posto lontano dal Signore? (Sal 139,7-12).
Questo paese lontano è il luogo dove si sciupa tutto. Il figlio perde tutto perché vive da dissoluto(=à - sotòs= senza salvezza), da misero, da peccatore. E il suo peccato è vivere per "poco". Non vive in pienezza. Dio ci ha fatto per il "tutto".
Quando ci si allontana dalla "pienezza" si è "come i tralci che si seccano e vengono gettati via. Solo chi rimane nella vite porta molto frutto" (Gv 15,5-6).
vv. 14-16: Quando ebbe speso tutto ... avevamo già capito che il "luogo lontano" da Dio porta alla dissipazione, ma qui veniamo a conoscere anche altre due caratteristiche di questo luogo: da un lato ti fa spendere tutto, cioè ti svuota interiormente, non è, quindi, motivo di arricchimento; dall'altro è un luogo segnato da una carestia, cioè è un luogo che non può alimentarti in alcun modo. L'uomo posto, quindi, in questo luogo lontano da Dio è abbandonato a se stesso e privo di ogni speranza. Non c'è futuro per lui.
Allora andò e si mise a servizio di uno ... quell'uomo che andava alla ricerca della propria autonomia da Dio, si ritrova ora nuovamente a servizio, ma non di Dio, ma di un altro uomo suo simile. Il servizio che deve rendere a quest'uomo è tra i più immondi e infamanti per un ebreo: "pascolare i porci". Tutto ciò ci dà l'idea del livello di degrado in cui quest'uomo è caduto: è posto lì a servizio dei porci, non più di Dio.
Anche in Marco (5,1-20) c’è la regione dei porci dove l’uomo vive in modo esagitato, convulso. Fa un mestiere impuro che gli impedisce ogni relazione con Dio e col prossimo.
Avrebbe voluto saziarsi ... è un uomo che ha ormai perso tutto e si trova in un paese straniero, lontano da casa, in un luogo colpito da carestia e che, quindi, non gli può dare alcun sostentamento e il cibo di quei porci, a cui è posto a servizio, ora vorrebbe che diventasse anche suo cibo. Qui abbiamo toccato il fondo: è un uomo sostanzialmente equiparato ai porci.
v. 17: Allora ritornò in sé… Inizia il cammino di ritorno. Finora ha frugato nel fango e ha sperimentato il passare di tutte le cose. Ha capito il valore e il limite delle cose, ora deve conoscere se stesso. Prima di trovare il padre bisogna trovare se stessi.
Ritornare al proprio cuore. La presa di coscienza della propria situazione. Quel cuore dove "erano nati i propositi malvagi, gli adulteri e le prostituzioni" (Mt 15,5) ora deve essere rivisitato. Lì l’immagine di Dio è oscurata, ma non cancellata. Il cuore è dove si prepara l’incontro amoroso con Dio.
Il prodigo ha un cuore passionale, esagerato, facilmente deviabile ma, nello stesso tempo, insaziabile di felicità.
Nella profondità del cuore il figlio trova la strada di casa. Ha perso tutto, ma non la memoria dell’amore del padre. I beni gli ricordano qualcuno che li dona.
Dopo aver guardato fuori e lontano ora inizia il cammino del ritorno.
Inizia la conversione attraverso una molla egoistica: sto male e vorrei stare meglio.
Per convertirsi occorre chiarezza sulla propria situazione. La sincerità è un requisito necessario per arrivare alla salvezza.
"Egli misura se stesso con il metro dei beni che aveva perduto, che non possiede più, mentre i salariati in casa di suo padre li posseggono" (Giovanni Paolo II).
vv. 18-19: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te Testimone del mio peccato è il cielo, il Padre. Il figlio avrebbe potuto elencare una serie di peccati: una vita dissoluta, lo sperpero delle ricchezze paterne... ma ora riconosce che tutto questo ha rotto il rapporto col Padre. Il peccato rompe la dimensione religiosa dell’uomo. Non è solo una trasgressione morale, è rottura dell’alleanza d’amore tra un padre e un figlio.
Il peccato immiserisce i doni celesti.
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Essere figlio non è questione di dignità o di meriti. Si è figli per dono gratuito. Il vero male del peccatore non è il peccato, ma il guardare se stesso. Questo lo fa cadere nella tentazione di volere essere degno dell’amore di Dio. E questo è il peccato del giusto: rifiutare l’amore gratuito di Dio. Dio lo si compra con l’osservanza della Legge.
Chi guarda a sé vede il proprio fallimento, ma chi guarda a Dio scopre la sua identità: sono sempre figlio. Il figlio "rientrato in se stesso" si scopre "servo" del peccato; nel ritornare dal padre vedrà che è figlio.
Trattami come uno dei tuoi salariati. "Essere garzone nella casa del Padre è certamente una grande umiliazione e vergogna. Tuttavia il figlio è pronto ad affrontare tale umiliazione e vergogna. Egli si rende conto che non ha alcun diritto se non quello di essere mercenario in casa del Padre" (Giovanni Paolo II).
Anche nel figlio minore è presente il rischio del peccato del fratello maggiore. Davanti a lui più che l’immagine patema c’è quella del padrone.
In questa confessione c’è però un volersi mettere totalmente a disposizione del padre: fa’ di me ciò che tu vuoi. Non voglio gestire io la mia vita. Voglio che la gestisca tu. Sei Tu mio padre! Davanti al padre vuole presentarsi nella più completa povertà, di cuore e di vita. Servo, ma figlio. Quindi figlio obbediente.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre. In questi due verbi abbiamo l'attuazione del piano di conversione e un nuovo orientamento di vita che il giovane ha dato a se stesso. Esso è caratterizzato da un nuovo obiettivo che da un nuovo senso al suo vivere: il padre.
Quando era ancora lontano ... il processo di conversione, o meglio di maturazione interiore verso il padre, era ben lungi dall'essere compiuto, infatti, "era ancora lontano". Ma a Dio non interessa che l'uomo sia pienamente convertito, né gli importa sentire parole di conversione. Per Dio è importante cogliere nell'uomo almeno un accenno di pentimento, al resto pensa lui. Non è l'uomo, infatti, che si salva con il suo pentimento, ma Dio compie la sua salvezza. L'importante è che l'uomo si renda disponibile. Basta poco!
lo vide , ebbe compassione, gli corse incontro... quattro verbi e un aggettivo (commosso) definiscono tutta la dinamica del grande amore di questo padre: "lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò". È l'esplosione di un amore incontenibile che, finalmente, può esprimersi nella sua pienezza. Giovanni nel suo vangelo ci ricorda proprio questo amore: "Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio" (Gv 3,16). Dio ama sempre per "primo". L’amore non conosce la lontananza. Tutta la Bibbia ci narra di Dio che cerca l’uomo: "Adamo dove sei?" (Gen 3,9). È il padre che soffre perché il figlio è distante.
Gesù è, dunque, il volto storico di questo amore del Padre che, attraverso suo Figlio, incontra gli uomini, li interpella, li abbraccia e cerca di far loro capire le dimensioni del suo amore per loro, stimolandoli a dare una risposta.
vv. 21-22: Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Nella sua confessione riscopre la sua vocazione. Di fronte al padre, alle sue tenerezze, non dice che vuole essere servo. Ora, di nuovo, sa che il padre lo ama. L’amore del padre lo cambia. Si riconosce figlio.
Ma il padre disse ai servi ... al padre non interessano le giustificazioni del figlio, come dire che non serve prepararsi grandi discorsi. L'importante è accennare un ritorno. Basta poco e il gioco è fatto! Il figlio viene rivestito con il vestito più bello, con l'anello e con i calzari. Questo breve elenco di oggetti con cui viene rivestito il figlio stanno ad indicare la ricostituzione dell'uomo nella sua primordiale dignità. L'abito bello indica il nuovo stato di vita di cui l'uomo, con la redenzione, viene ricoperto. Paolo ci ricorda questo nella sua lettera ai Galati: "poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). Il senso di questo vestito appare ancor più chiaro se riflettiamo su quanto la lettera ai Colossesi ci propone: "Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora, invece, deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca ... Vi siete, infatti, spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova ... a immagine del suo Creatore" (Col. 3, 8-10). L'anello, di cui viene adornato, è probabilmente un sigillo, indice di un potere di cui è stato nuovamente insignito; mentre i sandali indicano il suo stato di uomo libero; gli schiavi, infatti, camminavano a piedi nudi.
Con questi brevi tocchi Luca ci dice come l'uomo, investito dall'amore del Padre, che si è attuato e concretamente manifestato in Cristo, è stato rigenerato alla stessa vita di Dio, che condivide pienamente.
v. 23: Prendete il vitello grasso ... Luca qui parla di un banchetto di grasse vivande per far festa. Nell'Antico Testamento il banchetto di festa celebra sempre il rapporto tra Dio e l'uomo ed è segno della sua Alleanza: "Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati" (Is 25,6). Posto al termine di questo tribolato cammino di conversione, il banchetto celebra la rinnovata alleanza tra Dio e gli uomini stabilita per sempre nel sangue di Cristo. L'uomo, dunque, è definitivamente ristabilito per Cristo in Dio, così che "non c'è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù" (Rm 8,1).
v. 24: perché questo mio figlio era morto ... ecco la motivazione di tanta festa: la conversione dell'uomo a Dio, il passaggio da morte a vita. Con la sua conversione, infatti, l'uomo viene associato in qualche modo alla dinamica pasquale e viene investito dalla morte e risurrezione di Gesù. La conversione, pertanto, dice questo passaggio pasquale da morte a vita in cui Cristo ci ha trascinati.
Il vivere del credente, pertanto, è un vivere continuamente in uno stato di conversione, cioè in un continuo passare da morte a vita così che la vita del cristiano è una vita squisitamente pasquale.
v. 25: Il figlio maggiore si trovava nei campi ... entra ora in scena il terzo personaggio, che rappresenta simbolicamente il mondo perbenistico dei farisei, che mal digerivano il comportamento di Gesù, che frequentava e prediligeva i pubblicani e i peccatori e si lasciava avvicinare e toccare dalle prostitute. Sembra, a prima vista un figlio esemplare che riscuote la nostra simpatia e la nostra comprensione. Insomma, parteggiamo tutti per lui. Ma proviamo a vedere un po' più a fondo questa figura.
Entrambi i fratelli tornano alla casa del padre, ma soltanto il fratello minore vi entra, mentre l'altro, di fatto, rifiuta di entrarvi e contesta le logiche del padre. Anche lui, come i farisei "mormora", cioè si ribella al padre e non accetta le sue logiche, non rispetta le sue esigenze.
vv. 29-30: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici… Vediamo come qui il figlio maggiore non si pone nei confronti del padre come un figlio, ma come un servo, ritenendo implicitamente il padre non un padre, ma un padrone a cui va data obbedienza e non amore; infatti afferma: "non ho mai trasgredito un comandamento". Il rapporto con il padre è regolato da una relazione giuridica e da una mera formalità esecutiva di comandi a fronte del quale il figlio si aspettava un compenso, mai venuto e per questo rinfacciato al padre: "tu non mi hai mai dato un capretto per far festa", quasi a dire: "mi hai sempre trattato da schiavo e sfruttato". Questi erano i rapporti del figlio maggiore con il padre.
Il figlio maggiore, inoltre, mostra tutto il suo disprezzo nei confronti del padre: "Ma ora che questo tuo figlio ...". Il fratello maggiore disprezza il fratello minore, respinge e insulta l'amore che il padre ha riversato su questo figlio ritrovato e prende le distanze sia da uno che dall'altro: "questo tuo figlio".
Il ritorno di questo fratello inquina la gioia della festa. È un figlio anche lui ammalato di invidia e di gelosia. Per lui amare sarebbe stato partecipare alla festa per il fratello perché "Dio lo si ama amando il prossimo"(cfr. 1Gv 4,20). Invece questa festa segna una nuova divisione nella famiglia. Anche lui vuol far festa ma non con il padre, con il fratello ma con gli amici. Non parla di suo fratello come tale, non lo chiama fratello, bensì "questo tuo figlio", come se non fosse più suo fratello. Ed è lui, il maggiore, che parla di prostitute. È la sua malizia che interpreta così la vita del fratello giovane.
In queste righe rimane l'atteggiamento diverso del Padre. Lui esce di casa per i due figli. Accoglie il figlio giovane, ma non vuole perdere il maggiore. I due fanno parte della famiglia. L'uno non può escludere l'altro!
vv. 31-32: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo… Anche questo figlio ha bisogno dell’amore del padre per iniziare a vivere. E il padre va verso di lui con attenzione grande per ricordargli la sua vocazione. Lui è il figlio (il generato). Non è servo. Ed è fratello. Lui uscì a pregarlo, lo chiama a sé, lo supplica, lo incoraggia a lasciare la sua cattiveria.
Il figlio poteva vivere in paradiso, come Adamo prima del peccato: "essere sempre col padre" e "avere tutto". Invece rifiuta questa ricchezza per il capretto. È segno di un credente "ateo" che non riconosce il prossimo e allora non può ascoltare Dio. Ha la mentalità dei perfetti, che devono vivere da soli. Non c’è nessuno degno di loro.
In lui c’è l’inferno.
L’amore del padre gli provoca tormento e agitazione. Nessuno riesce a spingerlo nel banchetto. Resta fuori, è l’invitato che non accoglie l’invito. La sua festa non è fatta dal vitello grasso, musiche e danze, ma da un capretto consumato insieme con gli amici. Chi sono i suoi amici? Come può avere degli amici, lui che non è capace di essere figlio e fratello? E questo capretto lo pretende, ne ha diritto, lo ha meritato.
Il Padre invita questo figlio a entrare nella logica della gratuità: non giudicare secondo i pesi della ragione e del torto, ma far pendere tutto dalla parte dell’amore più grande.

Il Vangelo nel pensiero dei Padri della Chiesa
Se uno che è fuori dello scoglio della troppa ricchezza o troppa povertà ed è sul facile sentiero dei beni eterni, tuttavia, dopo la liberazione dal peccato, ricade e si seppellisce in esso, questo deve essere ritenuto rigettato da Dio. Chiunque, infatti, si rivolge a Dio con tutto il cuore, gli si aprono le porte, e il Padre accoglie con tutto l’affetto il figlio veramente pentito. Ma la vera penitenza consiste nel non ricadere e nello sradicare i peccati riconosciuti come causa di morte. Se ne levi questi, Dio abiterà di nuovo in te. È una gioia immensa e incomparabile in cielo per il Padre e per gli angeli la conversione di un peccatore (Lc 15,2). Perciò è detto anche: "Voglio misericordia e non sacrificio. Non voglio la morte del peccatore, ma che si penta. Se i vostri peccati saranno come la porpora, li farò bianchi come la neve; e se saranno neri come il carbone li ridurrò come neve" (Os 6,6 Mt 9,13 Ez 18,23 Is 1,18 Lc 5,21). Solo il Signore può perdonare i peccati e non imputare i delitti e ci comanda di perdonare i fratelli pentiti (Mt 6,14). Che se noi, che siamo cattivi, sappiamo dare cose buone, quanto più il Padre della misericordia, quel Padre di ogni consolazione, pieno di misericordia, avrà lunga pazienza e aspetterà la nostra conversione? (Lc 11,13). Ma convertirsi dal peccato, significa finirla col peccato e non tornare indietro. Dio concede il perdono del passato; il non ricadere dipende da noi. E questo è pentirsi: aver dolore del passato e pregare il Padre che lo cancelli, poiché lui solo con la sua misericordia può ritenere non fatto il male che abbiamo fatto e lavare con la rugiada dello Spirito i peccati passati. È detto, infatti: "Vi giudicherò, come vi troverò (In Evang. apocr.)", in modo che se uno ha menato una vita ottima, ma poi si è rivolto al male, non avrà alcun vantaggio del bene precedente; invece, chi è vissuto male, se si pente, col buon proposito può redimere la vita passata. Ma ci vuole una gran diligenza, come una lunga malattia vuole una dieta più rigorosa e più accortezza. Vuoi, o ladro, che il peccato ti sia perdonato? Finisci di rubare. L’adultero spenga le fiamme della libidine. Il dissoluto sia casto. Se hai rubato, restituisci un po’ di più di quanto hai preso. Hai testimoniato il falso? Impara a dir la verità. Se hai spergiurato, astieniti dai giuramenti, taglia i vizi, l’ira, la cupidigia, la paura. Forse è difficile portar via a un tratto dei vizi inveterati; ma puoi conseguirlo per la potenza di Dio, con la preghiera dei fratelli, con una vera penitenza e assidua meditazione. (Clemente di Alessandria, Quis dives, 39 s.).

Si allietano i cieli, e gli angeli lassù presenti, per la penitenza dell’uomo. Orsù, peccatore: sta’ di buon animo! Vedi dove ci si allieta per il tuo ritorno. Che ci vogliono dimostrare gli argomenti delle parabole del Signore? La donna che, persa la moneta, la cerca, la ritrova e invita le amiche a rallegrarsi, non è esempio del peccatore ravveduto? Si è smarrita una sola pecorella del pastore, ma egli non ha premura maggiore per il gregge intero: ricerca quella sola, gli preme più di tutte le altre, e finalmente la trova, la porta sulle sue spalle, perché si era molto stancata vagolando. E non posso tralasciar di ricordare quel padre tenerissimo che richiama il figliol prodigo e con tanto cuore lo riaccoglie, ravveduto nella miseria: uccide il vitello ingrassato e manifesta la sua gioia con un banchetto. E perché no? Aveva trovato il figlio perduto; lo sentiva più caro, perché lo aveva riguadagnato. Chi dobbiamo intendere che sia quel padre? Dio, naturalmente: nessuno è tanto padre, nessuno è tanto affettuoso. Egli dunque riaccoglierà te, figlio suo, anche se ti sarai allontanato dopo esser già stato accolto, anche se tornerai nudo, solo per il fatto del tuo ritorno: e si allieterà più di questo ritorno che della regolatezza dell’altro figlio; ma solo se ti pentirai di cuore, se metterai a confronto la tua fame con la buona situazione degli operai di tuo padre, se abbandonerai il gregge di porci immondi, se ritornerai da lui, per quanto offeso, dicendo: "Ho peccato, padre, e non son più degno di esser chiamato tuo figlio" (Lc 15,14s). La confessione allevia il delitto, quanto la dissimulazione lo aumenta. La confessione infatti manifesta disposizione alla riparazione, la dissimulazione invece all’ostinazione. (Tertulliano, De paenitentia, 8).

Alcune domande per la riflessione personale e il confronto
La nostra comunità rivela agli altri qualcosa di questo amore pieno di tenerezza di Dio Padre?
quale idea di Dio abbiamo? Gesù non racconta le parabole anche per noi?
Sono aperto al perdono verso i miei fratelli? Riconosco solo il loro peccato o anche il fatto che Dio li ama incondizionatamente?
Vivo il perdono - soprattutto sacramentale - con il cuore pieno di gioia, "felice come una pasqua"?

Pregare
O Dio che ci hai amato per primo,
noi parliamo di te
come di un semplice fatto storico,
come se una volta soltanto
tu ci avessi amati per primo.
E tuttavia tu lo fai sempre.
Molte volte, ogni volta, durante tutta la vita,
tu ci ami per primo.
Quando ci svegliamo al mattino
e volgiamo a te il nostro pensiero,
tu sei il primo, tu ci hai amati per primo.
Se mi alzo all'alba e volgo a te,
in un medesimo istante, il mio animo,
tu mi hai già preceduto,
mi hai amato per primo.
Quando m'allontano dalle distrazioni,
e mi raccolgo per pensare a te,
tu sei stato il primo.
E così sempre.
E poi, noi ingrati,
parliamo come se una volta sola
tu ci avessi amato così per primo! (Soren Kierkegaard, filosofo e teologo, 1813-1855)

Contemplare-agire
La parabola non dice nulla come vanno a finire le cose: come continuerà la vita del figlio minore una volta tornato a casa, né che cosa accadrà nella vita del maggiore.
La parabola termina qui perché deve continuare nella vita di ognuno di noi. Lasciamo che lo Spirito Santo entri nella nostra vita e ci trasformi secondo l’amore del Padre.