mercoledì 2 settembre 2015

LECTIO: XXII Domenica del Tempo Ordinario (B)

Lectio divina su Mc 7,1-8.14-15.21-23


Invocare
O Dio, nostro Padre, unica fonte di ogni dono perfetto, suscita in noi l’amore per te e ravviva la nostra fede, perché si sviluppi in noi il germe del bene e con il tuo aiuto maturi fino alla sua pienezza. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1 Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. 2 Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate 3- i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi 4 e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, 5 quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
6 Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. 7 Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini. 8 Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
14 Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! 15 Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro». 21 Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22 adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23 Tutte queste cose cattive vengono fuori dall'interno e rendono impuro l'uomo».

Silenzio meditativo: Gustate e vedete come è buono il Signore.

Capire
Rientriamo nel vangelo di Marco che privilegia spesso tematiche più pratiche del messaggio di Gesù.
Il brano odierno parla del “cuore”, cioè dell’uomo nella sua sincerità e interiorità profonda: è da lì che nasce il vero culto a Dio, è lì il fondamento d’ogni scelta e valore morale.
Viene messa in discussione la nostra religiosità e, più globalmente, l’autenticità della nostra vita, sempre tentata di formalismi, ipocrisie e pretesti che la rendono falsa davanti a Dio e meschina davanti agli uomini.
La figura del fariseo descritto nel vangelo di Marco è una figura semplificata, che ha il difetto di semplificare la complessità della storia ma che ha il merito di metterne in risalto alcune linee essenziali, tipiche e provocanti. Il fariseo è l’espressione di una logica religiosa che può nascondersi ovunque. In effetti, la polemica contro il legalismo ebraico, iniziata da Gesù, fu continuata poi dalla comunità, in particolare da Paolo: la polemica si approfondì sempre più giungendo al cuore dell’originalità cristiana, cioè al tema della gratuità della salvezza: è la fede che salva, non la fiducia farisaica nella propria osservanza della legge. La polemica continuò perché ci si accorse, non senza sorpresa, che le resistenze farisaiche si riproducevano all’interno dello stesso cristianesimo: sempre c’è la tendenza a fidarsi delle proprie opere, a confondere comandamento di Dio e tradizione degli uomini, a moltiplicare le osservanze secondarie a scapito dell’essenziale.

Meditare
v. 1:Si riunirono attorno a lui i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Gli Scribi erano i teologi e gli interpreti della legge: la loro ambizione era la fedeltà alla volontà di Dio. Ma credevano di essere fedeli alla legge "ripetendola" e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata. In tal modo finivano col chiudere la legge e con l'allontanarla sempre più dall'autentica volontà di Dio. Non è allargando o modificando la casistica che si attualizza la legge. "I farisei e alcuni scribi venuti da Gerusalemme": come in 3,22 la menzione di Gerusalemme mostra che gli scribi rappresentavano l'atteggiamento ufficiale di influenti capi giudaici nei confronti di Gesù.
La sua fama era evidentemente giunta sino alla capitale e costoro venivano forse non per accusarlo ma semplicemente per discutere con lui. In effetti, Gesù era ancora all'inizio della sua predicazione e ancora troppo lontano da Gerusalemme per richiedere un urgente intervento di opposizione.
vv. 2-5: . Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti -, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
È noto che molti dei farisei erano osservanti non solo della legge (la Torah) ma anche delle aggiunte che lungo gli anni e i secoli i saggi d'Israele avevano raccolto: queste ultime sono quelle che l'evangelista chiama "le tradizioni degli antichi". Marco enumera alcuni casi in cui le prescrizioni farisaiche sembrano pignolerie e superstizioni: lo scrupoloso lavarsi le mani prima dei pasti, le abluzioni dopo il ritorno dal mercato. Ma non si tratta semplicemente di una critica alla morale; si vuole piuttosto sottolineare come comandamento di Dio e tradizione degli uomini devono essere tenuti distinti. Non sono infatti sullo stesso piano: perenne il primo e provvisorie le seconde.
Con tali prescrizioni rituali si voleva circondare di rispetto, concreto e minuzioso, il mistero di Dio. E va detto che non si deve affatto disprezzare tale attitudine. Se pensiamo alle nostre liturgie eucaristiche domenicali è da rimproverare semmai una certa superficialità nel trattare le cose di Dio.
Le tradizioni, anche se sono buone e nascono da uno sforzo di interpretazione del comandamento, non devono essere tali da nascondere il comandamento stesso, tali da sottrarci all’essenziale. Ciò che è essenziale, secondo Gesù, è la conformazione interiore alla parola e alla volontà di Dio.
vv. 6-7: Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me. Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini.
Gesù risponde citando Isaia (Is 29,13) stigmatizzando la grettezza di un atteggiamento puramente esteriore: "Questo popolo – risponde – mi onora con le labbra, ma il loro cuore è lontano da me. Invano essi mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini". È il lamento di Dio per un culto puramente esteriore. Di tale culto Egli non sa che farsene. Al modo di intendere degli scribi e dei farisei, Gesù oppone il fatto che c’è un cuore lontano. La vicinanza o lontananza del cuore dell’uomo da Dio è la chiave di lettura di questo testo. Dicendo “cuore” si intende la presenza dell’uomo a se stesso, la sede delle decisioni ultime, la sede dell’intelligenza e della volontà. Questo cuore, dunque, ha la sua ragione di essere nella vicinanza con Dio. Quando Dio, in un libro all'Antico Testamento, ci dice: «Figlio mio, dammi il tuo cuore» (Prv 23,26), non vuol dire: «Dammi i tuoi sentimenti», ma «Dammi la tua vita». Il cuore santo di Gesù (di cui molti sono devoti) non presenta i suoi sentimenti più o meno teneri per noi, ma la sua vita data con amore per noi. C’è un rapporto strettissimo tra ciò che le labbra proferiscono e ciò che viene dal cuore. Il rimando da parte di Gesù ai farisei non è semplicemente e solo al cuore dell’uomo, quanto piuttosto a dove il cuore è posto, a dove il cuore è collocato, cioè alla sua vicinanza o lontananza da Dio. La maggiore o minore lontananza dal Signore dice la bontà del tuo cuore. Il problema che già Isaia segnalava e di cui accusava il suo popolo, è la lontananza del cuore da Dio. Questo discorso di Marco va direttamente alla radice, al cuore dell’uomo, luogo delle decisioni fondamentali e dell’atteggiamento globale della vita. Per afferrare il “pane” non servono le mani pure, ma il cuore “secondo il Signore”. Così vengono poste, con questo discorso, le premesse per il dono del pane ai ‘cagnolini’, ai pagani: se i discepoli mangiano il pane con mani impure come i pagani, allora anche i pagani possono mangiare il pane, anche se ritualmente impuri.
v. 8: Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini». "Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini". Non si tratta di condannare le pratiche rituali, né di favorire una religione intimista e individualista. E neppure si vuole attenuare l'osservanza della legge. Gesù conosce bene quanto Mosè ordinò al popolo d'Israele: "Ora dunque, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, perché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso del paese che il Signore, Dio dei vostri padri, sta per darvi. Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla" (Dt 4, 1-2).
Al comandamento di Dio hanno contrapposto i comandi (i 613 precetti), derivanti dalla tradizione umana; i precetti contraddicono il precetto divino. Queste diverse forme di legalismo sono sempre un modo per rifiutare Dio. Il legalismo farisaico nasce da una incomprensione di Dio e offre una ragione per rifiutarlo: rappresentò un motivo per rifiutare Gesù. Gesù non esorta affatto a disobbedire alla legge. Quel che condanna è la lontananza del cuore degli uomini da Dio. È il rapporto personale tra l'uomo e Dio che è posto in questione da Gesù.
Ecco il comandamento di Dio a cui Gesù stesso allude e che esige l’impegno totale, la coerenza tra cuore, anima e persona intera. È l’opposto di quella ipocrisia di cui Gesù accusa coloro che lo interrogano: l’apparenza di un atteggiamento religioso che nasconde un cuore orientato all’empietà.
vv. 14-15: Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c'è nulla fuori dell'uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall'uomo a renderlo impuro».
L’elemento essenziale è costituito dalla piccola parabola di Gesù, che ancora una volta i discepoli non comprendono: non è ciò che entra nell’uomo che lo contamina, ma ciò che esce dal suo cuore, questo contamina l’uomo. Gesù afferma la morale del cuore, non solo delle azioni. È l’uomo che deve essere in ordine: solo da un uomo ordinato procedono azioni ordinate. È un richiamo alla retta intenzione. Il primo dovere di coscienza, per Gesù, è di tenere pulita la coscienza, prima ancora di seguirla. Si tratta di fare cose che provengono da un cuore retto. Per Gesù il cuore deve essere pulito, perché deve essere in grado di cogliere la volontà di Dio. Solo un cuore puro può cogliere la volontà di Dio. Il cuore retto di cui parla Gesù è fatto di disponibilità, intendendo con ciò libertà e intuizione. Si tratta di creare una situazione interiore capace di leggere di nuovo la volontà di Dio. Il cuore è il luogo dove Dio si rivela.
vv. 21-23: Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall'interno e rendono impuro l'uomo».
Gesù dice: “Tutto dipende dal tuo cuore” e “Ciò che hai dentro è la tua vita o la tua morte”. Il Signore conosce il cuore dell'uomo. Quello che vuole indicare in questi versetti non è altro che una educazione ad una coscienza critica. Alla luce del cuore dell’uomo, Gesù legge tutto il resto; ad esempio: non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa contaminarlo. Purità e impurità riguardano innanzitutto la persona e non le cose; le persone possono essere contaminate non dalle cose ma soltanto da se stesse, agendo in modo contrario al comandamento di Dio. Da questo punto di vista allora si può dire che tutto è puro per chi è puro. Non è una condizione che inquina il cuore dell’uomo, piuttosto è il cuore dell’uomo, nel momento in cui si allontana dalla logica di Dio ad essere motivo per rendere ogni cosa impura. “Se prendete un albero buono anche il suo frutto sarà buono; se prendete un albero cattivo, anche il suo frutto sarà cattivo. Razza di vipere, come potete dire cose buone, voi che siete cattivi? Poiché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Mt 12,33-34).
Se ciò che fai non nasce dal cuore è una prestazione. Non è tanto quello che fai che conta ma se in ciò che fai c’è un cuore, cioè, se tu sei coinvolto in ciò che accade. Questa è anche la grande responsabilità a cui il Signore chiama gli uomini. Da questo punto di vista si potrebbe dire che l’unica cosa che l’uomo deve temere è se stesso, ma se stesso in quanto prescinde da quella che è la logica di Dio. Il Dio a cui rendi culto è il Dio che ti conosce nel cuore e ti chiama al culto perché ti conosce nel cuore; ti chiama al servizio a Lui, alla comunione con Lui.
Per Gesù l’essenziale nella vita non è la legge e la sua esecuzione o non esecuzione, ma il cuore, cioè l’amore con cui si osserva la legge, la volontà di seguire lui come maestro e fonte di vera vita, come modello e forza di autentico amore al prossimo. “L’uomo buono trae fuori il bene dal buon tesoro del suo cuore; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male, perché la bocca parla dalla pienezza del cuore” (Lc 6,45). Senza questo cuore, l’esecuzione della legge diventa pesante e senza gioia, o una copertura momentanea al nostro vuoto d’amore. Per Gesù è l’interiorità, ciò che hai dentro, ciò che vive nel tuo cuore, che determina l’esteriorità. L’interiorità opera verso l’esteriorità come un vaso che trabocca: la maggior parte del suo contenuto rimane nascosta (tesoro); ciò che esce è soltanto e non può essere altro che ciò che c’è dentro. Tutto dunque è fondamentalmente questione di amore, di espressione d’amore, di alimento d’amore: di un amore da uomo, da uomo alleato di Dio e dei suoi fratelli.

La Parola illumina la vita
Quanto è importante per me l'ascolto della Parola di Dio?
La mia vita è mossa dall'amore o dall'egoismo? È pulita dentro o fuori?
Il mio cuore è arrabbiato o sente amore, compassione?
Il mio cuore può espandersi fino ai confini del mondo, a tutte le persone e sentirli fratelli e sorelle? Oppure non sente più nulla, è morto, arido, rinsecchito?

Pregare
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.

Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre. (Sal 14)

Contemplare-agire

Oggi, nella mia pausa contemplativa, ripenserò il mio vivere da cristiano alla luce di questa parola di Gesù. E vedrò com'è dal di dentro, cioè dal cuore, che le intenzioni cattive muovono l'agire degli uomini, spesso anche me. E tutti i generi di mali elencati da Gesù vedrò che non a caso confluiscono nell'ultimo: "la stoltezza".

LECTIO: XXI Domenica del Tempo Ordinario (B)

Lectio divina su Gv 6,60-69


Invocare
O Dio nostra salvezza, che in Cristo tua parola eterna ci dai la rivelazione piena del tuo amore, guida con la luce dello Spirito questa santa assemblea del tuo popolo, perché nessuna parola umana ci allontani da te unica fonte di verità e di vita.  Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
60 Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». 61 Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? 62 E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima? 63 È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. 64 Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. 65 E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
66 Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. 67 Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». 68 Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna 69 e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Silenzio meditativo: Gustate e vedete come è buono il Signore.

Capire
La parola di Dio pone l'attenzione all’iniziativa di Dio per ciascuno di noi chiamati a prendere una posizione, a compiere una scelta che è per la vita o la morte.
Siamo alla conclusione del discorso sul pane di vita. Fino ad ora Gesù ha mantenuto l’iniziativa, rispondendo alle perplessità e alle mormorazioni dei Giudei. Ora sono gli stessi uditori che devono prendere una decisione. Avviene un importante cambiamento di soggetto: se prima erano i Giudei a manifestare incomprensione e ostilità, ora sono i discepoli ad avvertire la durezza di queste parole. E' possibile tuttavia vedere in questa difficoltà di comprensione del "linguaggio duro" usato da Gesù un elemento che sicuramente è stato presente nella sua esistenza e anche nelle prime comunità: le parole i Gesù chiamavano ad una scelta e scegliere non è sempre facile. Vivere al cospetto dell'Eterno come aveva fatto Gesù poteva implicare rotture, lacerazioni, al tempo di Giovanni anche persecuzione. Assumere come categoria di riferimento la vita stessa di Gesù, come metafora del regno dei cieli, come sentiero verso la sua realizzazione richiedeva delle scelte. Non tanto in senso pratico come ad esempio la comunanza dei beni ma scelte di cambiamento di stile di vita che in seguito avrebbe portato anche alle scelte concrete.
Accettare che il cambiamento del cuore potesse realizzarsi implicava una scelta. Può sembrare banale ma credo che questa constatazione sia quanto mai attuale.
Il vangelo chiede si di fare delle scelte concrete, ma tali scelte devono necessariamente essere accompagnate dal cambiamento di rotta del cuore altrimenti non tengono, diventano pesi insopportabili.
Credere, infatti, significa vedere la realtà al di là del visibile; significa toccare la verità eterna.
In questa fede e grazie ad essa, possiamo dire con Pietro; “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.

Meditare
v. 60: Molti dei suoi discepoli, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?».
Il termine tradotto con “duro” è il greco “skleros”, che significa quello che è insolente, offensivo. Cos’è questa parola dura?
Anzitutto il distacco che Gesù ha preso dalla tradizione dei padri, mentre i discepoli seguono i padri di Israele, Gesù invita a seguire Dio Padre, ma poi soprattutto hanno capito, loro che seguono Gesù per ambizione, perché vogliono che Gesù diventi il re del popolo. Inoltre, hanno capito che, se vogliono seguire Gesù, come lui devono farsi dono, devono farsi pane per gli altri. Questo tipo di sequela è “dura” cioé inaccettabile. E quindi mormorano contro di lui. Hanno mormorato i giudei, mormora la folla e anche i discepoli, coloro che hanno aderito alla proposta del Signore, mormorano contro Gesù.
Nelle parole di Gesù non c’è solo la risposta a una obiezione, ma c’è qualche cosa che ci dice ulteriormente cosa è l’Eucaristia (si ricorda che siamo a termine del discorso del pane di vita). Notiamo che c’è sempre la connessione con la croce. Salire dov’era prima vuol dire salire al cielo, però si sale al cielo attraverso la croce, cioè l’innalzamento, come dice Giovanni. Il discorso del pane di vita, allora, è preludio, anticipazione e segno della croce che Gesù legge in questo modo. Gesù afferma che mediante l’Eucaristia noi veniamo resi partecipi, nel segno del pane e del vino, del mistero della croce che, per come si manifesta, dice la sussistenza di Gesù al Padre prima del mistero dell’incarnazione.
vv. 61-62: Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell'uomo salire là dov'era prima?
Gesù affronta lo scandalo e come usa fare lui ne amplifica l'intensità: “E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?”. Con questa affermazione Gesù vuole condurre i suoi ascoltatori a riflettere ancora una volta sulla sua persona. L’ascesa corrisponde alla discesa di cui si è parlato nel discorso sul pane di vita. Ciò che scandalizza anche i suoi discepoli è in fondo la stessa pretesa dei Giudei, quella di conoscerne l’identità. Se si riconosce Gesù come unico mediatore per la salvezza, allora le sue parole non sono più dure, ma sono “Spirito e vita”.
v. 63: È lo Spirito che dà la vita
Tutta la vita di Gesù si snoda sotto l'azione dello Spirito Santo: dalla sua incarnazione nel grembo di Maria, al battesimo, alle tentazioni del deserto, alla sua predicazione con autorità, ai miracoli compiuti con il dito di Dio, fino a quando con uno Spirito eterno offrì se stesso Immacolato a Dio (Eb 9,14). Ma con la sua morte e resurrezione, Gesù effonde il suo Spirito promesso sugli uomini che credono in Lui.
Solo lo Spirito dà la vita. Non c'è dubbio, è il proprio dello Spirito di Dio, il marchio della sua presenza: vivificare, rendere vivo ciò che è morto o moribondo. Egli vivifica mediante la fede nel Signore, in questo andare a lui fiduciosi e aperti. A chi crede alla rivelazione e mangia questo pane viene comunicato quello Spirito che può donare la vita. Lo Spirito dà vita quando facciamo di Gesù il pane della nostra esistenza, sia pure con tutti i nostri problemi, inevitabili di fronte alla sua Parola che è dura e ci mette in difficoltà.
Spesso si pensa che porsi problemi di fede, fare delle domande a Dio, "chiedere spiegazioni", sia di per sé sintomo di poca fede. No, niente affatto, può essere proprio il contrario: richiesta di luce, di aiuto, bisogno di verità e di comunione. A volte non questionare, non porre problemi, è semplicemente il segno dell'indifferenza e della piattezza interiore.
la carne non giova a nulla
Gesù riconduce il contrasto che si è creato intorno a lui all'opposizione tra spirito e carne, tra sapienza divina e mondana, tra Parola di Dio, che è vita, e razionalità umana chiusa in se stessa, che è morte.
Se Gesù si è fatto carne, si è fatto ciò che non giova a nulla. Questa è la gratuità di Dio. È fondamentale per riassumere tutto ciò che non serve, perché in lui tutto è dono.
Opponendo la carne allo Spirito, Giovanni non distingue due parti dell’uomo, ma descrive due modi di essere. La carne è l’uomo lasciato a se stesso e ai limiti delle sue possibilità: non può da sé percepire il senso profondo delle parole e dei segni di Gesù, né credere.
Lo Spirito è la potenza di vita che rischiara l’uomo, gli apre gli occhi, gli permette di discernere la parola che si esprime in Gesù.
le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita.
Spirito è parola che indica soffio, respiro. C'è dentro Dio come vento, un vento creatore, che ti rigenera, che suscita energie nuove, che porta pollini di primavera, che apre cammini. Che crea attorno e dentro l'uomo spazi di più alta e più nobile umanità; brucia ciò che separa l'uomo da Dio. E con le cose e gli esseri nasce un rapporto che è di venerazione e di amore, di attenzione appassionata e rispettosa, di dedizione pronta e gioiosa. E attorno a noi, tutti gli esseri, cose e animali e persone, sentendosi compresi e amati, esultano e fioriscono di vita vera.
vv. 64-65: Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito.
In queste parole troviamo il fallimento di Gesù. Molti replicano che il suo discorso è duro, molti non credono. Ma Gesù non intende cambiare programma. Non deve sfuggire che Gesù dinanzi alla reazione negativa di chi ascolta non modifica nulla di quanto detto o richiesto. Non è Dio che si adegua all’uomo, ma è l’uomo che deve conformarsi alla volontà e alle esigenze di Dio. Cristo non ha cercato di suscitare la sequela con la persuasione, poiché la fede ha una profondità che supera l’intelligenza e le emozioni. Essa si radica in quelle profondità dove «l’abisso chiama l’abisso» (Sal 42,7), là dove l’abisso della nostra condizione umana tocca l’abisso di Dio.
E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre».
La fede nasce dall’agire di Dio inseparabile dal volere umano. Nessuno crede suo malgrado e neppure nessuno crede senza che Dio gli doni di credere. È Dio che dona la forza di credere e di decidere.
Davanti alla difficoltà Gesù ricorda quanto ha già affermato: per andare a lui bisogna essere attratti dal Padre.
Se la fede è dono di Dio e non tutti credono, significa forse che Dio lascia qualcuno da parte? L'evangelista Giovanni nel vangelo trasmette anche una parola di speranza di Gesù: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (12,31). Innalzato sulla croce ed elevato nella gloria di Dio, il Cristo «attira» come il Padre «attira». Questa affermazione apre lo spazio della preghiera, che coltiva in noi il senso della fiducia. La fede non è un’impresa umana. Essa sorge all’improvviso, nessuno sa come. È una fiducia che si stupisce di se stessa.
La fede, la comprensione profonda di Gesù e del significato della sua vita va richiesta, ma la fede è anche una scelta; rispetto ai discepoli l’interrogativo si pone come un bivio davanti al quale occorre prendere una decisione.
vv. 66-68: Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui.
“Da quel momento molti dei suoi discepoli si tirarono indietro”. Tirarsi indietro, così Giovanni descrive il rifiuto: è il movimento opposto a quello del discepolo che va avanti con il suo Signore, che cammina con Lui e si lascia guidare. È proprio il contrario della sequela, che è un movimento in avanti, proteso verso la condivisione sempre più profonda. Di fronte all'incredulità che ha ormai raggiunto il cuore della sua comunità, Gesù non muta le sue parole né le rispiega. Spinge, invece, la riflessione alla radice della fede, in quella misteriosa profondità in cui la grazia del Padre e la responsabilità dell'uomo sono chiamate a incontrarsi.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?».
Non c'è soltanto l'incredulità della folla, dei giudei e di molti discepoli. C'è anche la fede. Questa sequenza evangelica viene identificata dagli storici come l’“equivalente giovanneo” della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo. Come qui, anche lì Gesù provoca i suoi a schierarsi, dopo aver registrato le opinioni della gente sul suo conto: “Ma voi, chi dite che io sia?”. E Pietro rispose: “Tu sei il Cristo” (Mc 8,30).
Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna
La professione di fede di Pietro è strettamente legata alla domanda che pone: Non bisogna avere nessun altro per potere avere fede. Qui è presente il mistero della nostra stessa vita. È la fine di ogni idolatria. Non a caso, per diverse volte, Gesù in questo brano ha fatto riferimento alle vicende del deserto, perché fosse posta fine a ogni idolatria. In fondo, davanti a Dio, va affermata e dichiarata la nostra fede perché è vero, non sappiamo dove andare.
v. 69: e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».
"Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio". Il Santo di Dio è un’espressione che indica il Messia della tradizione che è apparso altre volte nei vangeli sempre in un contesto negativo, in Marco e in Luca, in bocca agli spiriti impuri o ai demòni e al Messia dell’aspettativa popolare, cioè quello che avrebbe dovuto restaurare la monarchia, quello che avrebbe dovuto dominare i pagani e soprattutto quello che avrebbe dovuto rispettare e imporre la legge.
Questo è il Messia che Pietro desidera e questo sarà il motivo che lo porterà al suo tradimento. Se i discepoli si affidano a Lui, è perché lo hanno riconosciuto nella fede (fede che diventa conoscenza luminosa) come il "Santo di Dio": cioè colui che appartiene a Dio in modo totale, in una relazione esclusiva con Lui, la relazione di Figlio unico. Ecco perché il loro Maestro ha "parole di vita eterna". Sarebbe perciò da insensati "mollare" Gesù.

La Parola illumina la vita
Anche per noi, la Parola di Gesù “è dura” o è duro il nostro cuore?
"Forse anche voi volete andarvene?". La domanda di Cristo scavalca i secoli e giunge fino a noi, ci interpella personalmente e sollecita una decisione. Quale è la nostra risposta?
Apro il mio cuore, la mia mente, tutta la mia persona alla Presenza dello Spirito santo, al suo soffio, al suo fuoco, alla sua acqua che zampilla in eterno?
Anche noi abbiamo creduto e crediamo che Gesù è il Santo di Dio?

Pregare
La legge del Signore è perfetta, rinfranca l'anima;
la testimonianza del Signore è verace, rende saggio il semplice.
Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore;
i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi.

Il timore del Signore è puro, dura sempre;
i giudizi del Signore sono tutti fedeli e giusti,
più preziosi dell'oro, di molto oro fino,
più dolci del miele e di un favo stillante.
Anche il tuo servo in essi è istruito,
per chi li osserva è grande il profitto.

Le inavvertenze chi le discerne?
Assolvimi dalle colpe che non vedo.
Anche dall'orgoglio salva il tuo servo
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile, sarò puro dal grande peccato.

Ti siano gradite le parole della mia bocca,
davanti a te i pensieri del mio cuore.
Signore, mia rupe e mio redentore. (Sal 18)

Contemplare-agire

Professando la nostra fede, restiamo ancora raccolti per un’altra brevissima sosta, per dire dal più profondo del cuore, con le parole di quell’uomo del vangelo: “Signore, io credo, ma tu aiutami nella mia incredulità” (Mc 9,24).

LECTIO: XX Domenica del Tempo Ordinario (B)

Lectio divina su Gv 6,51-58


Invocare
O Dio della vita, che in questo giorno santo ci fai tuoi amici e commensali, guarda la tua Chiesa che canta nel tempo la beata speranza della risurrezione finale, e donaci la certezza di partecipare al festoso banchetto del tuo regno. Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
51 Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
52 Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53 Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. 55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58 Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».

Silenzio meditativo: Gustate e vedete come è buono il Signore.

Capire
Come già abbiamo visto, in queste domeniche la nostra attenzione è portata all’Eucaristia. Il vangelo di Giovanni non ha l’istituzione dell’Eucaristia nel contesto dell’ultima cena; al posto dell’istituzione dell’Eucaristia Giovanni ha la lavanda dei piedi, mentre fa il discorso sull’Eucaristia qui, al cap. 6, immediatamente dopo la condivisione dei pani. L’intento dell’autore è chiaro: Giovanni, essendo l’ultimo degli evangelisti, in ordine cronologico, aveva già intuito che nelle liturgie vi poteva essere una sorta di ritualismo o la tentazione di considerare le liturgie come un’azione magica. Giovanni vuole chiaramente opporsi alla ‘spiritualizzazione’ dell’Eucaristia.
Il Libro dei Proverbi (Pr 9,1-6 ), dice che “la Sapienza ha imbandito un banchetto” a cui sono invitati tutti gli inesperti. È la Sapienza qui personificata a chiamare gli uomini a nutrirsi e ad abbeverarsi alle sorgenti della saggezza. È una evidente prefigurazione del banchetto eucaristico. La Sapienza ha costruito una casa e ha preparato un banchetto. La Sapienza, cioè la manifestazione vitale di Dio, non consiste prima di tutto in un insegnamento, in una parola che si indirizza all’intelligenza. La Sapienza è un incontro: Dio si manifesta a noi perchè ci incontra, perchè cammina con noi, perché non è mai al di fuori della nostra vita. La Sapienza è dunque avvicinata all’immagine della casa e del banchetto.

Meditare
v. 51: Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno
Il versetto è l’ultimo di domenica scorsa, dove nel segno del pane, Gesù rivela se stesso e la sua missione. Alimento vitale per il credente sarà la “carne” di Gesù da “masticare”.
“Mangiare e bere” sono due azioni in movimento che esprimono e realizzano l’accoglienza, realizzano l’assimilazione. Infatti, “l’uomo è ciò che mangia” (Ludwig Andreas Feuerbach). “Mangio e bevo”, vuole dire: accolgo dentro di me un nutrimento e una bevanda, e li assimilo, e diventano parte di me. Allo stesso modo, “la carne e il sangue di Gesù” contengono la vita, perché sono “sangue e carne per”, perché sono state trasformate da un amore oblativo.
Facendo questo, accolgo dentro di me quella vita trasformata in amore, che è la vita del Signore; accolgo la forma del Signore dentro di me; assimilo la vita del Signore trasformata in amore; accolgo, mi lascio formare dentro secondo la forma della vita di Gesù. Per cui se la vita di Gesù è “una vita per”, e io l’accolgo e l’assimilo, il senso è che la mia vita diventi “una vita per”. «Da questo abbiamo conosciuto l’amore: Lui ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3, 16). Ed è l’unico senso che si può dare alla parola “assimilare”, non posso assimilare una vita come quella di Cristo senza che la mia vita prenda quella forma, senza che la mia vita assuma la logica della vita del Signore.
e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.
In queste parole abbiamo un richiamo all’offerta sacrificale di Gesù sulla croce e quindi, poi, l’Eucaristia. Gesù si è fatto pane che dà la vita al mondo, immolandosi sulla croce. Il pane è Gesù, ma il pane, qui, è Gesù sacrificato, glorificato e risorto. Gesù sottolinea una comunione con la sua morte salvifica per poter avere la vita eterna.
L'evangelista Giovanni insiste sul termine “carne” in contrapposizione al termine “corpo”, perché vuole dare rilievo nell’aggancio fra eucaristia e incarnazione. Infatti questa sua insistenza ci conduce ad una esperienza che va al di la di un pensiero dottrinale. Attraverso l’esperienza ecclesiale eucaristica l’incarnazione continua nel tempo; la carne sacrificata del Verbo si fa pane nutriente e comunica la vita del Cristo glorificato.
v. 52: Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?».
Siamo davanti a un dramma di un pensiero che si blocca alla soglia del tangibile e non osa varcare il velo del mistero, non va oltre l'orizzonte.
I Giudei obiettano, e la loro obiezione pone Gesù nella possibilità di rivelarsi. Qui l’obiezione riguarda il come; per Gesù la prospettiva non è quella del come, ma è quella della assimilazione della condizione di Lui in quanto figlio dell’uomo. Ora, noi sappiamo che per gli ebrei la celebrazione della Pasqua non era soltanto il ricordo di un evento passato, ma anche una sua riattualizzazione, nel senso cioè che Dio era disposto ad offrire di nuovo al suo popolo la salvezza di cui, nelle mutate circostanze storiche, aveva bisogno. In questa maniera il passato faceva irruzione nel presente, lievitando della sua forza salvifica. Allo stesso modo il sacrificio eucaristico "potrà" dare nei secoli "carne da mangiare".
L’Eucaristia dice la verità dell’incarnazione e dice il mistero stesso di Dio. Dio si comunica tutto nel mistero dell’Eucaristia. La sua definitiva comunione con noi avviene lì.
v. 53: Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita.
In questo versetto non si nominano le specie del pane e del vino, ma direttamente ciò che in esse è significato: carne da mangiare perché Cristo è presenza che nutre la vita e sangue da bere – azione sacrilega per i giudei - perché Cristo è agnello immolato. È evidente qui il carattere liturgico sacramentale: Gesù insiste sulla realtà della carne e del sangue riferendosi alla sua morte, perché nell'immolazione delle vittime sacrificali la carne veniva separata dal sangue.
vv. 54-55: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
In questi versetti vengono utilizzate “parole nuove”. Gesù rivela una nuova Pasqua da vivere: la sua risurrezione (Gv 19,31-37), che trova nell'eucaristia il nuovo memoriale, simbolo di un Pane di vita che sostiene nel cammino del deserto della vita, sacrificio e presenza che sostiene il nuovo popolo di Dio, la Chiesa, che non si stancherà di fare memoria come Lui ha detto (Lc 22,19; 1Cor 11,24), offrendo l'eucaristia della propria corporeità: sacrificio vivente, santo e gradito in un culto spirituale (Rm 12,1) che si addice al popolo di sua conquista, stirpe eletta, sacerdozio regale (cfr. 1Pt 2,9).
Con la comunione al corpo e al sangue di Cristo è seminato in noi il germe della risurrezione che porterà il suo frutto più maturo nell'ultimo giorno. L'alimento della carne e del sangue di Cristo nutre veramente e in modo perfetto e definitivo, perché è fonte di risurrezione e di vita eterna.
v. 56: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
Gesù spiega cosa succede quando uno mangia e beve il suo corpo e il suo sangue: c’è una “inabitazione” reciproca, c’è una vita comune, un’esistenza comune. C’è un’unica vita tra tutte e due. È la dimensione dell’amore. “Il mio amato è per me e io per lui” (Ct 2,16). Se uno è innamorato, qualsiasi cosa gli ricorda la persona amata perché se la porta dentro, perché vivono in reciproca comunione e la sottolineatura di Gesù è: “vivrà la mia stessa vita”. Infatti, chi si nutre di Gesù, gioca la sua vita per farne un dono d’amore.
Queste sono realtà. Non sono però realtà che possono cadere sotto i nostri sensi, quindi non possiamo spiegarle come spieghiamo le cose del mondo. È una dimora reciproca: implica una stessa vita che scorre nell’esistenza di noi e di Lui, Se beviamo e mangiamo, abbiamo la stessa vita.
Mediante il sacramento noi comunichiamo alla morte e alla risurrezione di Gesù. Quindi il masticare e il bere hanno, per volontà esplicita del Signore e per l’autorità che Gesù ha conferito a loro, la forza per darci la sua vita, per comunicarci la sua vita.
Quello che l’AT esprime con la formula dell’alleanza, Giovanni lo esprime nelle parole del mangiare e bere per dimorare con una formula di immanenza: “io in voi, voi in me”; “chi mangia la mia carne rimane in me e io in lui”. È una formula che ha qualche cosa di profondamente legato all’alleanza, ma che va più in profondità: non solo uno per l’altro, ma uno nell’altro.
E se vogliamo allargare la meditazione dobbiamo andare all’inizio del cap. 15°, dove si parla della “vite e dei tralci”, e dove viene ripetuto con insistenza quel verbo tipico giovanneo, “rimanere”. Quindi il riferimento va nella direzione della comunione.
v. 57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
Gesù spende la vita in obbedienza al Padre, la sua vita è missione, è obbedienza. Per Gesù vivere significa vivere per il Padre. Così deve essere per il cristiano. Vivere per il Padre va inteso “vivo in grazia del Padre, in virtù del Padre”; così “colui che mangia di me, vivrà per me”, cioè vivrà in virtù di me. Il discepolo è colui che vive del dono che Cristo ha fatto della sua vita, ha ricevuto la vita da questo. Quindi il discepolo non può vivere se non orientando la sua vita a Cristo, nell’obbedienza a Cristo; attraverso l’amore per gli altri non fa altro che dilatare all’infinito la medesima logica. E tutto va nella direzione dell'amore: amare è vivere nell'altro e attraverso l'altro. Amare è non avere una vita propria (si capisca bene), avere solo la vita che fluisce a me attraverso l'altro. E' fortissimo questo, non per nulla il modello è la Trinità: il Figlio non ha niente di proprio, riceve la sua vita tutta dal Padre. Dunque: chi mangia questo pane avrà in sé la mia stessa vita, che non è altro che la stessa vita del Padre. Dal Padre la vita passa in Gesù, e da lui fluisce in chi mangia di lui nel pane eucaristico. È un'unica vita che tutti lega e circola in tutti.
Il Signore sembra non chiederci altro se non di rispondere al suo invito e gustare la dolcezza e la forza di questo pane che egli gratuitamente e abbondantemente continua a donarci. Per questo il pane che dà contiene la sua propria donazione, è il segno che l’esprime. Questo è pure quello che chiede al discepolo: deve considerare se stesso come pane che va distribuito e deve distribuire il pane come se distribuisse se stesso.
v. 58: Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono.
Lo scopo di questo nuovo dono di Dio è che l’uomo non muoia. Dio fa questo dono perché l’uomo ne mangi per non morire. Dovremmo chiederci se noi mangiamo l’Eucaristia per non morire, o, anche, se nel nostro spirito è chiaro, con l’atto della fede, che io mangio per non morire, per avere la vita eterna. Perché è decisivo, per la vita eterna, che io mangi con fede.
Chi mangia questo pane vivrà in eterno.
Viene ripreso nuovamente il verbo “mangiare”. Ma se prima l'avevamo in senso figurativo-spirituale, adesso lo vediamo nel suo senso letterale che significa: "stritolare", "lacerare"... "masticare". Allora è chiaro: Gesù vuole che lo si "mastichi", che lo si consumi nel senso più "crudo" della parola! È evidente che il "luogo" in cui possiamo trarre un tale nutrimento è il Sacramento dell'Eucarestia, istituito da Gesù stesso durante l'Ultima Cena e perpetuato nel tempo dai successori degli apostoli (i vescovi) e dai presbiteri tutte le volte che celebrano sull'altare tale Sacramento.
Gesù garantisce che chi si avvale del nutrimento eucaristico avrà in sé la vita e la salvezza per tutta la vita terrena e un pegno glorioso di eternità. Nell' Eucaristia Cristo, il Verbo fatto carne che aveva creato il mondo assieme al Padre e allo Spirito (Gv 1, 1-20; Gen 1) realizza la propria comunione con noi, e con essa ci sostiene nelle vicende della vita. L'Eucarestia è quindi comunione con Dio e con il prossimo ed è per noi il Sacramento per eccellenza che sprona e motiva tutte le nostre attività e il nostro agire offrendo rinnovato vigore e slancio vitale incondizionato.

La Parola illumina la vita
Quante volte ho cercato di costruire sulla mia sapienza, come sono finite queste prove, questi tentativi? Che cosa ho costruito?
Obietto come i Giudei o cerco di assimilare Cristo Gesù nella mia vita?
Vivo la dimensione sponsale con Cristo Gesù?
Quanto è importante l'Eucarestia per me? Fino al punto di divenire “pane” per l'altro?

Pregare
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.

Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.   

Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.

L’angelo del Signore si accampa
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia. (Sal 33)

Contemplare-agire

Testimoniamo con la nostra vita la gioia e l'entusiasmo che Cristo ha comunicato di se stesso a noi; giacché il "pane eucaristico" non va' solo consumato ma "comunicato" agli altri attraverso una vita esemplare e gioiosa per la quale anche chi non crede possa restare affascinato.