giovedì 14 aprile 2016

LECTIO: IV DOMENICA DI PASQUA (C)

Lectio divina su Gv 10,27-30

Invocare
O Dio, fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo Spirito, e fa’ che nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita.
Egli è Dio, e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Leggere
27 Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28 Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29 Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30 Io e il Padre siamo una cosa sola».

Silenzio meditativo: Noi siamo suo popolo, gregge che egli guida.

Capire
La quarta domenica di Pasqua è denominata come la domenica del Buon Pastore. Per meglio comprendere e penetrare il senso di questa immagine, è bene tener presente il brano del profeta Ezechiele (Ez 34,3-4) in cui Dio si lamenta dei cattivi pastori che sono alla guida del suo popolo Israele, i cui rapporti col gregge sono delineati dai seguenti verbi: nutrire, vestire, ammazzare, pascolare. Questi verbi sono usati tutti in senso negativo nei confronti dei pastori d'Israele e suscitano l'indignazione di Dio che, sempre tramite il profeta Ezechiele, promette al suo popolo di occuparsi personalmente del suo gregge. Il tempo tanto atteso è giunto.
Nella Liturgia della Parola del ciclo liturgico A B e C, il vangelo è tratto dal cap. 10 di Giovanni ove domina la solenne immagine pastorale.
La prima lettura, tratta dagli At 13,14.43-52, ci fa riflettere sull'annuncio della Parola e le prime difficoltà nell'accoglierla, illudendo di poter far parte del gregge di Dio.
La seconda lettura, tratta da Ap 7,9.14b-17, descrive il gregge di Dio come la comunità dei salvati con "il sangue dell'agnello".
Il Vangelo di questa domenica, raccogliendo il messaggio proclamato nelle prime due letture, sviluppa il tema dell'ascolto e della conoscenza tra il pastore e il gregge. Dall'ascolto della Parola, nasce il discepolo di Cristo, di colui che segue il Pastore supremo, guida e compagno di viaggio durante l'itinerario terrestre "e non lascia perdere e rapire le sue pecore". Il discepolato è caratterizzato dai verbi: ascoltare, conoscere, seguire, segnato dalla formula di reciproca appartenenza nuziale: «Voi mie – Tu nostro» (vedi anche Sal 22,1), che rivela reciproco possesso e fedeltà ed è anche la formula dell’alleanza (vedi Es 6,7; Lv 26,11-13; Is 40,1; Ger 7,23; 11,4; 30,22; 31,1; Ez 36,28).
Attraverso questi verbi è possibile ricostruire la storia integrale della vocazione cristiana.
Celebrare la Domenica del Buon Pastore significa celebrare l'amore salvante del Cristo, un amore che conquista i cuori per condurli al cuore di Dio: la vita eterna.

Meditare
v. 27: Le mie pecore ascoltano la mia voce
Gesù ha appena detto ai Giudei che loro non sono sue pecore. Quali sono dunque le caratteristiche di queste pecore? In questo versetto, Gesù dice non chi sono le pecore ma cosa fanno: ascoltano. Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia "ascoltare" che "obbedire". Quindi shema’ Israel non è soltanto “ascolta, Israele!”, ma anche “aderisci!”. Dire “il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo” non è soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cfr. Dt 6,4ss). Per questo dopo il verbo ascoltare, viene il verbo amare: «lo amerai con tutto il cuore».
Nel Salmo 40,7 si dice nella forma letterale: «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo. Io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te. Il profeta Isaia dice: “Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro” (Is 50,5). Questo dice una adesione totale, incondizionata, fondata anche solo sul timbro di voce del Cristo.
Per il discepolo di Cristo Gesù avere l'orecchio forato significa vivere le promesse fatte dal grande, unico ed insostituibile Maestro, Gesù Cristo.
io le conosco ed esse mi seguono.
Nel vangelo di Giovanni conoscere indica un rapporto personale, come fra il Padre e il Figlio, fra Gesù e i suoi discepoli, fra i discepoli e Gesù o Dio.
Conoscere abbraccia mente, cuore, azione, tutto l’uomo, da diventare sulle labbra del Gesù di Giovanni la definizione della vita eterna: “La vita eterna è conoscere te, unico vero Dio e colui che hai inviato, Gesù Cristo” (17,3). L’uomo che ha ascoltato e si è fatto conoscere ed ha conosciuto Dio “segue” il Cristo come suo unico Pastore.
Gesù conosce le sue pecore, cioè nutre per esse un amore vivo che giunge al segno supremo, quello del dono della vita.
La conoscenza nel buon Pastore indica la carità profonda, l’affetto vitale che coinvolge tutta la persona. L’amore concreto tra sposo e sposa può fornire un’idea di questa conoscenza esistenziale. Secondo il linguaggio dei profeti, Jahvè conosce così il suo popolo che è la sua sposa; per il suo gregge egli nutre una carità tanto viva e concreta; egli ha conosciuto soltanto Israele facendo sua questa comunità con un patto nuziale eterno; Dio ha eletto il suo popolo amandolo con un amore di predilezione.
Le pecore sono conosciute perché non è il loro amore per il Pastore o l’ascolto che loro hanno di lui che fonderà la loro sequela, ma è la conoscenza che il Pastore ha di loro che fonda la sequela. Questo è il vivere da cristiani: l’intuire, il recepire la voce del Signore, il lasciarsi conoscere da lui, il lasciarsi amare da lui, il non sentirsi all’altezza neanche della Parola: questo dà origine alla sequela.
v. 28: Io do loro la vita eterna
Nel quarto vangelo la vita eterna non è la vita fisica in quanto tale né però, è da concepire come una immortalità, cioè una vita futura spirituale senza fine. Essa è sinonimo di vita divina, è partecipazione alla stessa vita del Figlio di Dio, è comunione con lui, è ingresso nel mistero stesso di Dio.
Gesù ci dà la sua vita accettando per sé la croce come segno supremo dell'amore che non si risparmia, ma si dà fino alla fine, fin quando tutto è compiuto. Dare la vita si innesta nella struttura umana perché, nella partecipazione alla sua Pasqua, anche noi diventiamo partecipi della vita che è dono di Dio, è eterna come eterno è Dio. Diventiamo partecipi della vita del Figlio perché anche noi siamo adottati come figli.
Gesù che ci dona la sua vita, è per noi una sorta di assicurazione: la nostra vita è stata salvata dalla perdizione. Ora non abbiamo più da temere di finire male, ora sappiamo che la cifra per leggere ed interpretare le nostre vicende personali e quelle collettive della famiglia umana è la Pasqua.
Avere vita è il desiderio più grande di ogni creatura e Gesù la offre abbondante nell’Eucaristia. Una vita che ha nell’amore la sua sorgente e nell’offerta di sé la piena realizzazione.
e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il versetto fa riferimento a una richiesta al Padre nell’ultima cena (cfr. Gv 17,12) e successivamente nel Getsemani (18,9). Nella mano di Gesù le pecore sono al sicuro da ogni pericolo. Per la bibbia la mano è simbolo di potenza (cfr. Dt 32,39; Is 43,13; Is 49,2; Is 51,16; Dt 33,3; Sap 3,1; Gv 3,35). Inoltre, abbiamo un un riferimento al “ladro” che viene per “perdere”, cioè per distruggere (v.10) e al lupo che “rapisce” (vv. 12-13).
Il buon Pastore è il proprietario delle pecore; il gregge è suo, gli appartiene. Gesù è il Signore della chiesa; la comunità dei fedeli gli appartiene, il popolo di Dio è sua proprietà. In caso di pericolo il buon Pastore non solo non abbandona le sue pecore per fuggire, ma si dona completamente al suo popolo fino al sacrificio supremo, fino all’offerta della propria vita per la salvezza dei suoi discepoli.
v. 29: Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti
L’espressione del dono del Padre, mette in risalto la grandezza di ciò che il Padre ha dato a Gesù e quindi ciò che fa grandi le pecore è il fatto che il Padre ne abbia fatto dono al Figlio. Inoltre, ci dice che la grandezza del Padre deriva dal donare, dal dono che lui fa di noi al Figlio.
Secondo vari manoscritti, questa frase si può anche tradurre: “Per ciò che riguarda il Padre mio, ciò che mi ha dato è più grande di ogni altra cosa” oppure “Il Padre mio è più grande di tutti, in ciò che mi ha dato”.
e nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Come del resto si può dire che la mano del Padre è anche la mano del Figlio che può dire «nessuno le rapirà dalla mia mano», come può dire «nessuno le rapirà dalla mano del Padre mio»; la potenza di Dio non teme confronti. Sono le parole di speranza, di scudo che dice Gesù dei suoi fedeli, quelle pecore del gregge che riconoscono la sua voce.
Le mani di Dio sono le mani del Padre, ricco di misericordia, che, nella pienezza dell’Amore, ha inviato il suo Figlio, fattosi uomo, e a Lui ci ha consegnati, per essere salvati. Ogni uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato, come canta il Salmista (cfr. Sal 118), quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle mani pronte ad accogliere, anche, i figli che si allontanano e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima, quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.
Il verbo greco harpázō traduce proprio “rapinare con violenza”, strappare con la violenza di chi vuole distruggere e rovinare il patrimonio di un altro. L’umiltà, la mitezza di Cristo sconfigge qualsiasi tipo di violenza. Ogni tentativo violento cade inefficace di fronte al più robusto amore del pastore che custodisce quanto ha ricevuto dal Padre.
L’attività pastorale di Gesù è efficace perché in essa si compie l’amore del Padre stesso per gli uomini, la sua ferma volontà che tutti gli uomini siano salvi.
v. 30: Io e il Padre siamo una cosa sola.
Con questa frase possiamo comprendere l’identità di Gesù Cristo, quale Figlio unigenito di Dio, e della sua missione come descritta nel quarto vangelo.
Gesù sente la necessità di ribadire la sua unità con il Padre. “Io e il Padre” dice un’identità diversa del Cristo rispetto al Padre e quindi l’essere Uno.
La traduzione più indicata di questo versetto sarebbe: «Io e il Padre siamo Uno; il termine "hen" indica un’Unica Realtà o sostanza. Si tratta in termini accessibili, di Due Persone che sono l'unica e medesima sostanza divina, Dio. Qui abbiamo una allusione al mistero della Trinità.
Possiamo far riferimento alla creazione dell’uomo e della donna: a immagine e somiglianza li creò, maschio e femmina (cfr. Gen 1,26-28). Immagine e somiglianza di Dio, per il Cristo, è immagine e somiglianza del mistero della Trinità. Lo Spirito è l’unità del Figlio con il Padre. È l’essere Uno del Padre e del Figlio e garantisce l’identità del Padre ed del Figlio.

La Parola illumina la vita
Sono immerso nell'ascolto di Dio? La Parola di Dio è veramente al centro della mia vita di credente? Ci sono spazi e momenti nella mia vita quotidiana che dedico in modo particolare all'ascolto della Parola di Dio?
Dove arriva la mia conoscenza di Gesù Cristo: è ferma ad un livello teorico-astratto o è un continuo abbandono fiducioso perché trasformi e guidi la mia vita?
La testimonianza cristiana comporta coraggio, fede forte e perseveranza; mi sento animato da questa certezza quando incontro difficoltà e ostacoli nel testimoniare la mia fede? Ispiro al Vangelo le mie scelte di vita?
Mi sento parte del gregge e non fuori o al di sopra del gregge? Vivo la gioia pasquale sospinto dallo Spirito Santo?

Pregare
Acclamate il Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.

Riconoscete che solo il Signore è Dio:
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.

Perché buono è il Signore,
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione. (Sal 99).

Contemplare-agire
Lasciamo che lo Spirito ci aiuti a discernere la Voce del pastore della vita e del’amore vero. Scopriamoci disponibili a seguire Gesù per essere testimoni di speranza nel recinto del nostro mondo.