mercoledì 18 ottobre 2017

LECTIO: XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)



 Lectio divina su Mt 22,15-21


Invocare
O Padre, a te obbedisce ogni creatura nel misterioso intrecciarsi delle libere volontà degli uomini; fa’ che nessuno di noi abusi del suo potere, ma ogni autorità serva al bene di tutti, secondo lo Spirito e la parola del tuo Figlio, e l’umanità intera riconosca te solo come unico Dio.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
15i farisei, avendo udito che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo  verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad  alcuno. 17Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a  Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire  
Il brano del tributo a Cesare è collocato nel contesto degli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme. Il contesto è il dibattito tra Gesù e le autorità e il tema di discussione è sull'autorità di Gesù (Mt 21,23-27). Dopo viene la parabola dei due figli, in cui Gesù denuncia l’ipocrisia di alcuni gruppi (Mt 21,28-32). Seguono due parabole, dei vignaioli assassini (Mt 21,33-46) e degli invitati che non vogliono partecipare al banchetto nuziale (Mt 22,1-14). Ora qui nel nostro testo (Mt 22,15-22) appaiono i farisei e gli erodiani per preparare una trappola. A Gesù viene richiesto di prendere posizione circa la liceità o meno del tributo imperiale che era stato imposto alla provincia della Giudea, da quando, nel 6 d.C., a capo di essa era stato nominato un procuratore romano. Tale tributo ricordava ai Giudei la loro dipendenza politica e costituiva un problema sia politico che teologico. Gli zeloti si rifiutavano radicalmente di pagare il tributo a Roma, sostenendo che, oltre a Dio, non si poteva tollerare nessun sovrano terreno. I farisei lo consideravano un onere grave, ma si erano decisi per il pagamento. La domanda: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”  è formulata in modo che la risposta può essere solo un sì o un no. In entrambi i casi Gesù si sarebbe trovato in una posizione problematica. Rispondendo con un sì, egli avrebbe potuto essere accusato di ignorare l’importante problematica teologica; rispondendo con un no, avrebbe potuto essere accusato di sovversione.
Come Gesù, anche i cristiani delle comunità cristiane della Siria e della Palestina, per le quali Matteo scriveva il suo vangelo, erano accusati ed interrogati dalle autorità, dai gruppi o dai vicini che si sentivano a disagio per la loro testimonianza. Leggendo questi episodi di conflitti con le autorità si sentivano confortati e prendevano coraggio per continuare il cammino.

Meditare
vv. 15-17: i farisei, avendo udito che Gesù aveva ridotto al silenzio i sadducei, ritiratisi, tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nei suoi discorsi. Mandarono dunque a lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo  verità e non hai soggezione di nessuno perché non guardi in faccia ad  alcuno.
Gesù è stato molto duro con i capi dei sacerdoti e gli anziani. Ha raccontato loro tre parabole il cui senso era quello del rifiuto e dell'indegnità del popolo di Israele. Qui si parla di farisei che se ne vanno. Si tratta certo dei sacerdoti che facevano parte di questo gruppo. Se ne vanno a complotto per cercare il modo di “cogliere in fallo” Gesù. Quest'espressione letteralmente si traduce con “prendere al laccio con una parola”: è un semitismo molto espressivo che ci fa comprendere come possa bastare una parola sola per mettere nei guai una persona, per condannarlo.
L’evangelista mette in evidenza l'atteggiamento ostile dei farisei nei confronti di Gesù. Inoltre mette in evidenza la convocazione del sinedrio – “tennero consiglio” – (che ritroveremo nella passione; cfr. Mt 27,1.7; 28,12) che in qualche maniera anticipa qui la condanna di Gesù fu architettata dall’inizio (cfr. Mt 12,14; Mc 3,6).
Dicci dunque il tuo parere: È lecito o no pagare il tributo a Cesare?
La prima disputa ha un carattere politico ed è la più insidiosa dal punto di vista della sicurezza personale di Gesù. Le altre due dispute (la risurrezione dei morti e il più grande comandamento) hanno invece un contenuto religioso e riguardano l’interpretazione della Torah.
Il tributo di cui i farisei parlano era la tassa pro-capite imposta dai romani dopo l'occupazione della Palestina avvenuta nel 6 a.C. (il cui nome tecnico era census). Questo veniva richiesto a tutti gli abitanti della Giudea, Samaria e Idumea (uomini, donne, schiavi) dai dodici fino ai sessantacinque anni. Il Cesare di cui si parla è Tiberio Cesare, imperatore di Roma dal 14 al 37 d.C. Il tributo era di un denaro d'argento a testa, ossia la paga quotidiana di un lavoratore. Il pagamento di questo tributo era una condizione essenziale per poter vivere in pace come sudditi dell'impero romano ed esercitare i diritti derivanti da questo stato.
Ora, per ordine dei sacerdoti e degli anziani, vogliono sapere da Gesù se è a favore o contro il pagamento del tributo ai romani. Domanda fatta apposta, piena di malizia! Anche di fronte al Cristo gli uomini sono incapaci di pensare qualcosa di diverso dall’essere superiori agli altri. Sotto l’apparenza di fedeltà alla legge di Dio, cercano motivi per accusarlo. Se Gesù dicesse: “Devi pagare!” potrebbero accusarlo, insieme alla popolazione, di essere amico dei romani. Se lui dicesse: “Non devi pagare!” potrebbero accusarlo, con le autorità romane, di essere un sovversivo. Una strada senza uscita!
L'evangelista mette in bocca degli accusatori un atteggiamento di Gesù: “e non hai soggezione di nessuno”, ma non è vero. Forse è quello che vivono loro. Gesù, in realtà, è soggetto a tutti. La sottomissione che Gesù vive nei confronti di tutti sta alla base della risposta che verrà dopo. Gesù è sottomesso, vive questo stare all’ultimo posto (cfr. Fil 2,6). Questo è ciò che indica anche ai cristiani. La libertà con cui Gesù risponderà a questa domanda è proprio frutto di questa sua sottomissione. In fondo, ciò che rende libera la chiesa è la sua sottomissione. Ciò che rende liberi i cristiani di agire è la loro docilità, il loro servizio, la loro sottomissione.
vv. 18-21: Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché mi tentate?
Gesù smaschera la loro malizia e ipocrisia, quindi è legittima la sua protesta: perché mi tentate, perché mi mettete alla prova? Essi sono davvero dei falsi (ipocriti).
Dietro le parole di Gesù c’è un richiamo alla legge mosaica: “non tentare il Signore Dio tuo” (Dt 6,16). Gli uomini sono dei falsi e senza Dio in quanto hanno dio loro stessi e il potere, e non si rendono conto di quanto stanno per fare o per dire e rimangono nella loro ipocrisia.
Umanamente non è facile capire che Gesù è tutto e solo affidato al Padre: vive pienamente la sua umanità, senza scorciatoie, senza cercare gratificazioni, anche nell'oscurità della più totale spogliazione: per questo il Padre lo ama ed è motivo di credere in lui.
Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. Egli domandò loro:
«Di chi è questa immagine e l’iscrizione?». Gli risposero: «Di Cesare».
Gesù cerca di agire da maestro nella semplicità e prudenza, come lui stesso insegna (cfr. 10,16) e risponde alla domanda in modo indiretto, spostando l'attenzione sul fatto oggettivo.
Gesù, quindi, trae la sua conclusione, li sorprende e li spiazza facendo uso della stessa moneta. Secondo un'interpretazione stretta del secondo comandamento (Es 20,4) una moneta recante un'immagine e l'iscrizione che divinizzava l'imperatore dovevano considerarsi idolatriche. Eppure anche i farisei ne facevano uso in modo piuttosto disinvolto.
Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio».
Il popolo riconosceva già l’autorità di Cesare. Stavano già dando a Cesare quello che era di Cesare, poiché usavano le sue monete per comprare e vendere e perfino per pagare il tributo al Tempio! Di conseguenza, la domanda era inutile. Perché chiedere una cosa, la cui risposta è già evidente nella pratica? Loro che per la domanda fingevano di essere servi di Dio, stavano dimenticando la cosa più importante: dimenticavano di dare a Dio ciò che era di Dio! Pagare il tributo all’imperatore non è mancare di fedeltà a Dio. Non solo è lecito, ma doveroso. Lo stato ha la sua ragion d’essere. I veri credenti sono leali verso di esso, buoni e onesti cittadini. Così facendo, onorano Dio. Nella stessa linea si muoveranno San Paolo (cfr. Rm 13,1ss) e San Pietro (cfr. 1Pt 2,13-14).
Ma nella risposta di Gesù l’accento con tutta la sua forza cade sulla seconda parte: “e a Dio quello che è di Dio”, cioè, che restituiscano il popolo che si era allontanato per loro colpa da Dio, perché con i loro insegnamenti bloccavano al popolo l’entrata del Regno (Mt 23,13). Gesù rivendica la posizione unica ed esclusiva che Dio occupa nella vita dell’uomo. Era già l’appello che risuonava nel testo di Isaia : “Io sono il Signore e non c’è alcun altro; fuori di me non c’è Dio…Non c’è nulla fuori di me. Io sono il Signore, non ce n’è altri” (Is 45,1-6). Ma le parole ci riportano all'origine, alle parole della Genesi quando si dice che Dio ha pensato l’uomo come sua immagine: “A immagine di Dio lo creò, maschio e femmina lo creò” (Gen 1,27). Di sicuro l’immagine di Dio non è sul denaro perché il rapporto che Dio intende instaurare con gli uomini non è un rapporto di compravendita, ma è un rapporto di amore. “Immagine” vuol dire impronta, vuol dire icona, vuol dire:  “vedendo la quale si vede lui”. Forse è anche il rischio di chi si pone in una linea di servizio ai poveri: quante volte noi riduciamo il servizio ai poveri a una questione di soldi e in realtà nel volto della povera gente vediamo una possibilità di investimento; le opere caritative si impegnano in convenzioni sempre più costose, in convenzioni che le legano sempre più alle istituzioni, al potere. Così leghiamo sempre più il volto dei poveri a ciò che dobbiamo spendere in termini di soldi, di forze, di capacità per andare incontro alle loro necessità, senza riconoscere l’immagine che c’è in loro.

La Parola illumina la vita
Mi capita mai di cercare di mettere Dio con le spalle al muro davanti alle mie richieste?
Quale è il mio atteggiamento verso il potere politico?
In quale modo sono chiamato/a a realizzare il "dare a Dio quello che è di Dio"?
Mi faccio immagini che non sono Dio?
Incontro Dio nell’altro oppure ne faccio cernita in base al ceto, al carattere, etc.?

Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
Cantate al Signore un canto nuovo,
cantate al Signore, uomini di tutta la terra.
In mezzo alle genti narrate la sua gloria,
a tutti i popoli dite le sue meraviglie.

Grande è il Signore e degno di ogni lode,
terribile sopra tutti gli dèi.
Tutti gli dèi dei popoli sono un nulla,
il Signore invece ha fatto i cieli.

Date al Signore, o famiglie dei popoli,
date al Signore gloria e potenza,
date al Signore la gloria del suo nome.
Portate offerte ed entrate nei suoi atri.

Prostratevi al Signore nel suo atrio santo.
Tremi davanti a lui tutta la terra.
Dite tra le genti: «Il Signore regna!».
Egli giudica i popoli con rettitudine. (Sal 95).

Contemplare-agire
Sono a tua immagine e somiglianza, Signore, sono tuo possesso e tuo riscatto nel sangue di Gesù. Che io non appartenga a nessun altro. Nemmeno a me stesso. Perché solo restituendomi a te che hai "coniato" in me la tua immagine, io divento quello che sono: splendore del tuo riflesso.

lunedì 16 ottobre 2017

LECTIO: XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (A)

Lectio divina su Mt 22,1-14


Invocare
O Padre, che inviti il mondo intero alle nozze del tuo Figlio, donaci la sapienza del tuo Spirito, perché possiamo testimoniare qual è la speranza della nostra chiamata, e nessun uomo abbia mai a rifiutare il banchetto della vita eterna o a entrarvi senza l'abito nuziale.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
1rispondendo Gesù riprese a parlare in parabole ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo e disse: 2«Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi  non vollero venire. 4Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i  miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai  propri affari; 6altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero. 7Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città. 8Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli  invitati non ne erano degni; 9andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni  e cattivi, e la sala si riempì di commensali. 11Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori  nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Capire  
Il significato della parabola risulta molto chiaro se la leggiamo nel suo contesto. Essa segue immediatamente un’altra parabola sul Regno (21,33-43) e fa parte di una disputa di Gesù con i sommi sacerdoti e i farisei sulla sua missione e autorità (vedi 21,23-46). Il v. 1 del presente capitolo ne è la cerniera ricordando gli stessi interlocutori: i capi dei sacerdoti e i farisei.
Nella parabola precedente, la parabola della vigna, Gesù fa un riassunto della storia della salvezza. Dio circondava Israele con attenzione particolare e aspettava che tanta cura avrebbe prodotto frutto in una vita di fedeltà e giustizia. Di tempo in tempo inviava i profeti per ricordare al popolo il frutto che Dio attendeva, ma la loro missione incontrava sempre il rifiuto da parte di Israele. Finalmente Dio inviò il proprio Figlio, ma questi fu ucciso. A questo punto Gesù dichiara che siccome Israele continuava a rifiutare il Regno, questo passerà ad un altro popolo, cioè ai pagani (Mt 21,43). Questa frase ci offre la chiave di lettura per la nostra parabola che in realtà ripete il messaggio della precedente con un’altra immagine e altre sfumature.

Meditare
v. 2: Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio.
In questo versetto abbiamo una delle metafore bibliche per descrivere l’alleanza tra Dio e il suo popolo. Il carattere fortemente nuziale di tutta la scena (il termine greco gàmos, nozze, viene riportato per  cinque volte: vv. 2.9.10.11.12) e richiama al libro dell’Apocalisse: “Ecco, sono giunte le nozze dell’Agnello” (Ap 19,7). Le nozze dell’Agnello rappresentano la volontaria immolazione di Gesù, con la quale Egli ha inaugurato il suo Regno. Con quest'invito, il Padre chiede di essere partecipi alla condizione del Figlio, ci chiede di essere partecipi della nuzialità del Figlio, che si manifesta attraverso il dono della sua vita sulla croce per tutta l’umanità.
vv. 3-5: Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi  non vollero venire. Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i  miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze.
In questi versetti vi troviamo per due volte l’invio dei servi. Può essere una allusione all’invio dei profeti prima di Cristo, e l’invio degli apostoli dopo la risurrezione di Cristo Gesù.
Il termine greco utilizzato (kalèo) significa chiamare, dare il nome. Il termine indica l’atto di interpellare un altro allo scopo di farlo venire più vicino a sé sia fisicamente che nel senso di un rapporto personale. Il tempo utilizzato, inoltre, indica un’azione completa nel passato, ma che dura nei suoi effetti fino al presente e tende al futuro. Cioè, l’Alleanza che Dio ha stipulato con Israele è irrevocabile, rimane inviolata nonostante il rifiuto.
C’è un rifiuto da parte degli invitati. Coloro che Dio aveva chiamato, con i quali aveva stretto Alleanza, coloro ai quali aveva dato un nome, cioè a cui aveva riconosciuto una identità e dato una dignità, quella di popolo (e figli) di Dio, non accolgono l’invito. Questi invitati non si accorgono dell’irruzione nella storia del Regno di Dio: le nozze dell’Agnello. Hanno altre cose a cui pensare, sono dilaniati da altri interessi. Non sono disponibili a mutare il centro dei loro interessi. Per capire, san Paolo ci dice che grazie a questo rifiuto si apre una porta di speranza per gli altri: “Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione, se non una risurrezione dai morti?” (Rm 11,15) e continua: “Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch’essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella misericordia, per usare a tutti misericordia” (Rm 11,30-32).
vv. 5-6: Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai  propri affari;
altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
In questi versetti troviamo un riferimento al figlio di Dio. Basta ricordare ogni volta che cercava di evangelizzare la reazione degli astanti non era così felice. Oppure alla sua passione che la condotto fino al golgota dove morì sulla croce.
v. 7: Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
Qui c'è un allusione alla distruzione del tempio di Gerusalemme avvenuta a opera dei Romani nel 70 d.C.. Matteo legge questa disgrazia come un preciso castigo di Dio nei confronti del suo popolo che non ha voluto accogliere i missionari cristiani.
v. 8: Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli  invitati non ne erano degni;
Ciò che il re dice ai servi non è una condanna per ciò che hanno fatto. Dice semplicemente che gli invitati non erano degni del banchetto di nozze per suo figlio: non erano adeguati. Non si tratta di essere degni rispetto a un merito che si possa acquisire, perché il Regno di Dio è donato gratuitamente agli uomini. L’amore gratuito della Trinità entra nel mondo, un amore infinitamente libero nella sua iniziativa. Ed è questo che ci è chiesto di meditare e di fare nostro: l’essere degni del banchetto di nozze del figlio del re significa dirci e lasciarci dire cosa sia questo per noi. Vuol dire fare nostra la logica di Dio che è una logica di alleanza, che è una logica di comunione, per la quale Dio si compromette; è la logica per la quale Dio è Dio solo se è amore, se è carità, se è servizio. L’essere degni vuol dire entrare in una logica di nozze, in quella logica per la quale tutto è rivolto, da parte di Dio, alla persona che ha deciso di amare nel Cristo suo figlio.
v. 9: andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze.
Cambia la tipologia degli invitati. Adesso gli invitati sono quelli degli incroci, sono coloro che stanno nei luoghi dell’esodo, nei luoghi del passaggio, nei luoghi della Pasqua, nei luoghi della croce. Sono mescolati: buoni e i cattivi, per sottolineare la gratuità dell’invito. Seguire Cristo non fa parte di un ceto sociale di alto rango, tutti possono seguirlo, tutti possono sedersi a mensa con Lui. A questi viene rivolto l'invito. Il termine greco utilizzato è sempre kalèo: chiamare, ma l'imperativo aoristo usato, ordina di dare inizio a un’azione nuova. Alla vecchia economia se ne sostituisce una nuova, e alla vecchia comunità dell’Israele secondo la carne si sostituisce la nuova comunità di chi crede e confessa Gesù come il Cristo morto e risorto: il nuovo popolo di Dio, costituito sia dal resto di Israele che dai ‘convocati dalle genti’, i pagani, che Gesù stesso chiama ‘la mia chiesa’. 
vv. 10-12: Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni  e cattivi, e la sala si riempì di commensali. Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì.
La sala si riempie di buoni e cattivi: sono i nuovi invitati. Sono invitati tutti e tutti possono entrare. Attenzione, nel momento in cui entri bisogna che tu ti lasci trasformare dalla logica del banchetto di nozze. Quando però il Signore ci chiama vuole anche che noi gli rispondiamo cambiando vita.
Il Signore chiama tutti, ma chi è chiamato deve rispondere al Signore con la propria vita. Non basta aver accettato l’invito; bisogna anche trasformare la propria esistenza in funzione di questo invito. Non basta essere cristiani avendo accolto l’annuncio della fede; bisogna anche lasciare che questo annuncio cambi la vita dell’uomo e la conformi alla volontà di Dio. La conversione è il presentarsi a Dio con un cuore adatto a ricevere i suoi doni. San Paolo ce lo fa capire con queste parole: “Perciò sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste: a condizione però di essere trovati già vestiti, non nudi” (2Cor 5,2). Quell'abito, che non sappiamo dove procurarcelo, è l'abito del Battesimo. Un abito che dovevamo custodire per tutta la vita. È quell’abito che riveste l’uomo nuovo, anzi, che è l’uomo nuovo; infatti non lo riveste come una sopravveste, ma, sconfitto l’uomo vecchio, carnale, lo sostituisce. Continua S. Paolo: “Sospiriamo come sotto un peso, non volendo venire spogliati, ma sopravvestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita”. Non una sopravveste, dunque, ma un abito nuovo che è Cristo stesso. Questa, dice un grande maestro spirituale bizantino: “aderisce a coloro che la indossano molto più della pelle e delle ossa. Le nostre membra non solo sono membra di Cristo, ma sono ricoperte del salvatore tutto intero” (Nicholas Cabasilas).
v. 13: Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori  nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti.
 È un offesa a chi ti ha invitato di andare alla festa con l’abito ordinario da lavoro. È un segno che non tieni nella dovuta considerazione l’occasione a cui sei invitato. Questa immagine, utilizzata nella parabola del banchetto del Regno, vuol significare che non si entra nel Regno senza essersi preparati; l’unico modo per prepararsi ad esso è la conversione. Infatti, cambiare vestito nel linguaggio biblico indica cambiare stile di vita ovvero convertirsi (cfr. Rm 13,14; Gal 3,27; Ef 4,20-24).
L'espressione “pianto e stridore di denti” è molto usata in Matteo. Indica la condizione di coloro che sono stati esclusi dal banchetto delle nozze, dalla festa di Dio. Il pianto è di chi troppo tardi si pente e ammette il proprio errore. Lo stridore di denti è di chi si rode dalla rabbia per avere fatto la scelta sbagliata e dall'invidia per coloro che invece sono stati trovati degni di partecipare alla festa.
v. 14: Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti».
L’espressione è un semitismo. Nell’assenza del comparativo, l’ebraico biblico usa espressioni fondate su drastiche opposizioni. La chiamata non garantisce l'elezione: tra la vocazione gratuita e il giudizio escatologico permane la questione aperta della dignità cristiana. Tutti sono chiamati alla salvezza: l'esservi ammessi o meno dipende dalla nostra cooperazione alla grazia di Dio.
La generosità del re è immensa, ma bisogna prendere sul serio le esigenze del Regno. L’espressione è un pressante appello a non accontentarsi di una appartenenza formale al popolo di Dio. Non si può dare per scontato la salvezza. In questo Gesù segue da vicino l’insegnamento dei profeti. Basti ricordare Ger 7, 1-15 e Os 6,1-6.

La Parola illumina la vita
Mi è mai capitato di rifiutare l'invito di Dio per dedicarmi ai miei campi o ai miei commerci?
La mia vita dove è collocata?
Come vivo il mio Battesimo? Mi rivesto dell’abito nuziale? Di Cristo?


Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla.
Su pascoli erbosi mi fa riposare,
ad acque tranquille mi conduce.
Rinfranca l’anima mia.

Mi guida per il giusto cammino
a motivo del suo nome.
Anche se vado per una valle oscura,
non temo alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici.
Ungi di olio il mio capo;
il mio calice trabocca.

Sì, bontà e fedeltà mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
abiterò ancora nella casa del Signore
per lunghi giorni. (Sal 22).

Contemplare-agire 
La parola di Dio non la si può comprendere se Dio stesso non apre il cuore (At 16,14). Sforziamoci di piacere in tutto al Signore (cfr. 2Cor 5,9), e indossiamo l’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo e tenergli fronte nel giorno della lotta (cfr. Ef 6,11-13).