Lectio divina su Lc 24,46-53
Esulti di santa gioia la tua Chiesa, o Padre, per il mistero che celebra in questa liturgia di lode, poiché nel tuo Figlio asceso al cielo la nostra umanità è innalzata accanto a te, e noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di raggiungere Cristo, nostro capo, nella gloria.
Egli è Dio, e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
Con il brano dell’ascensione si conclude il Vangelo di Luca, anche se a dire il vero l’opera lucana continua con la stesura degli Atti degli Apostoli tanto da formare un’unica opera. Il brano dell’ascensione possiamo definirlo come testo cerniera (cfr. Lc 24-46-53; At 16-11), in quanto negli Atti, dopo l’Ascensione, inizia il tempo della Chiesa.
Nei vangeli di Marco e Matteo la narrazione dell'Ascensione segue quasi immediatamente la scoperta del sepolcro vuoto da parte delle donne. Solo il vangelo di Luca, tra i sinottici, si dilunga un po’ di più, concentrando il tutto in un unico giorno, il primo dopo il sabato, gli eventi pasquali, per indicare che l’esaltazione è inseparabile dalla risurrezione. Al mattino pone l’incontro al sepolcro delle donne con i due uomini in vesti sfolgoranti, poi identificati come angeli e la visita di Pietro; durante il giorno avviene l’apparizione ai discepoli di Emmaus e alla sera l’apparizione agli Undici e agli altri riuniti.
Il racconto dell’Ascensione non ha indicazione di tempo ed inizia con il riferimento di Gesù alla passione e risurrezione, alla predicazione universale e alla testimonianza con la forza dello Spirito. Tutto è desunto dalla Scrittura; Gesù, infatti, sta aprendo la mente dei discepoli alla sua comprensione. C’è uno stretto legame tra Ascensione e Risurrezione.
Con l’Ascensione si vuole sottolineare il compimento del percorso che Gesù ha compiuto, di discesa (incarnazione, passione e morte) e di ascesa (risurrezione e ascensione al cielo), movimento che ha lo scopo di recuperare tutto il mondo alla comunione con Dio. Inoltre, nella Scrittura l’Ascensione viene anche interpretata in senso sacerdotale (vedi seconda lettura: Eb 9,24-28;10,19-23): Gesù sale al cielo come sommo sacerdote (cfr. Eb 8,2-13).
Nella pericope abbiamo tre sezioni che si possono distinguere nettamente per il contenuto e per il loro stretto legame: a) una formula di confessione a Cristo della comunità primitiva (vv. 46-47); b) la promessa dello Spirito Santo (v. 49); c) l’Ascensione del Signore (vv. 51-53).
v. 46: e disse loro: «Così sta scritto:
Il versetto è una formula di confessione della comunità primitiva che possiamo paragonare a quella di 1Cor 15,3-5: Gesù è morto secondo le Scritture ed è risorto secondo le Scritture. La sua risurrezione è la conferma che Dio ha dato alla sua opera e alla sua predicazione, compiuta secondo la volontà di Dio.
Il v. 46 inizia con un tono solenne ma che rimanda al versetto precedente da non sottovalutare: «Allora aprì loro la mente all’intelligenza delle Scritture e disse» (v. 45), come dice anche l'Apostolo in 1Gv 5,20: «e ci ha dato l’intelligenza per conoscere il vero Dio», come fece con i discepoli di Emmaus (cf. vv. 27-31).
Non basta, però, leggere le Scritture, bisogna che la mente sia aperta. Noi chissà quante volte leggiamo e rileggiamo le Scritture ma non basta per comprenderle, bisogna che venga aperta la mente, cioè, aprirsi verso il nuovo. E questo è dato dallo Spirito Santo.
Il Cristo è l'Agnello che svela, che toglie il sigillo dalla cecità (cf. Lc 9,45;18,34). Finalmente è levata la maledizione di Isaia: «Per voi ogni visione sarà come le parole di un libro sigillato: si dà a uno che sappia leggere, dicendogli: "Leggilo", ma quegli risponde: "Non posso perché è sigillato"» (Is 29,11-12).
Per questo «noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l'azione dello Spirito del Signore» (2 Cor 3,18).
Da come vengono presentati o appaiono i versetti, le Scritture convergono tutte verso la Pasqua, verso il Cristo glorioso. Se le Scritture non ci conducono alla Pasqua, facciamo di esse delle guide cieche.
il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno
Ora, “Intelligenza delle Scritture” significa fare riferimento al messaggio fondamentale, a tutto ciò che ‘sta scritto’ e il riferimento è: “il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il terzo giorno”.
Siamo nel momento del congedo di Gesù dai suoi discepoli ed Egli riprende una delle cose che nel suo ministero sono state più presenti, soprattutto nel vangelo di Luca, cioè l’annuncio della sua passione, l’annuncio della sua Pasqua. C’è questa unità del mistero pasquale: il Gesù che ha patito è il Gesù che è risuscitato. Questo dobbiamo sempre tenerlo presente. Non c’è una cosa senza l’altra: non c’è risurrezione senza passione e non c’è passione senza risurrezione.
Il terzo giorno nella cultura ebraica indica ciò che è definitivo, ciò che è donato. Se si vuole conservare la vita, bisogna donarla. Una tradizione rabbinica ben attestata riteneva che la corruzione della morte iniziasse a essere effettiva sui cadaveri dopo il terzo giorno. Ecco, il Signore non ha permesso, come dice il salmo, che Gesù vedesse la corruzione (Sal 16,9-11) per essere il principio di una vita nuova nella quale la morte (col suo potere corrosivo e distruttivo) non avesse più potere.
v. 47: e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli
Continuando dal v. 46 troviamo questa novità: dal mistero pasquale di Cristo nasce un mandato, nasce la predicazione, nel suo nome cioè di Colui che ha patito ed è risuscitato dai morti il terzo giorno, in virtù di quel nome saranno predicate a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Tutte le nazioni pagane sono comprese nell'invio in missione dei discepoli (cf. Mt 28,19), anzi in Mc 16,15 abbiamo una dichiarazione più ampia: «a tutta la creazione». Questo significa che il messaggio di Gesù non è riservato esclusivamente a un popolo, ma è rivolto a tutta l’umanità perché è la realizzazione del disegno d’amore di Dio per la sua creazione.
Questa predicazione scaturisce dalla Pasqua. Da essa non si attingono solamente i contenuti della predicazione, ma la Pasqua è ciò che si deve annunciare e predicare. La predicazione dipende dal mistero pasquale inteso come “uno”.
la conversione e il perdono dei peccati
Vengono messe insieme due realtà: a tutte le genti viene annunciata la conversione a cui fa seguito il perdono dei peccati. È importante non disgiungere mai la conversione e il perdono. Per Luca la conversione è un volgersi a Dio, toccati dalla sua grazia che ci raggiunge attraverso la predicazione. Quello che stupisce però è questo: innanzitutto l’essenzialità della predicazione che deve vertere su questo invito alla conversione e al perdono dei peccati. Ma accostando la conversione e il perdono dei peccati, vengono indicate queste due realtà come dono. Sia la conversione che il perdono non dipendono dalle capacità delle genti (e qui sta l’universalità, dal momento che per “genti” s’intende la non esclusione di nessuno da questo annuncio), ma sono frutto, ancora una volta, della Pasqua, del dono dello Spirito che ti aiuta a cambiare mentalità, a cambiare logica, a cambiare modo di ragionare.
cominciando da Gerusalemme.
Gerusalemme è la città santa, è il luogo dove c’era il tempio, e sembra che venga equiparata da Gesù a terra pagana bisognosa anch’essa di conversione. Sono le istituzioni religiose quelle che per prime hanno bisogno di convertirsi. L’annuncio non può che cominciare da questo luogo. Ogni tentativo di abbandonare Gerusalemme finisce miseramente. Pensiamo ad esempio alla parabola del Samaritano. Incappare nei briganti è la causa del cammino inverso di quello che ha fatto il Signore. Quindi si sta lì. Non possiamo andare in altri posti; la nostra permanenza a Gerusalemme, cioè nei luoghi della Pasqua, è garanzia per non fallire. È da lì che si comincia ed è lì che bisogna ritornare, perché a Gerusalemme scende la grazia dello Spirito (cf. At 1,8; cf. anche Gv 4,22).
v. 48: Di questo voi siete testimoni.
Gli Undici sono i testimoni autorevoli di Gesù. La funzione di testimone come caratteristica degli apostoli è propria del terzo vangelo e risponde alla promessa scritta nel prologo lucano circa la solidità degli insegnamenti ricevuti da Teofilo (1,2).
Il Signore Gesù investe i suoi apostoli di questa funzione importantissima: “proclamare il suo vangelo a tutti i popoli, per invitarli alla conversione e alla fede”. Essere testimoni anzitutto si identifica con apostolo e vuol dire portare scritta nella pelle, cucita sillaba per sillaba, la parola che è Cristo. Perciò i credenti debbono rendere testimonianza al Cristo risorto non solo con la parola ma anche con la vita. La missione evangelizzatrice del mondo intero forma uno dei compiti fondamentali della chiesa. Chi rende testimonianza alla verità, difendendola con le parole o con gli atti, può a giusto titolo essere chiamato «testimone». Ma secondo la consuetudine dei fratelli colpiti dai comportamenti di quelli che hanno combattuto fino alla morte per la verità, non si usa «martire», in tutta la forza di questo termine, se non per quanti nell’effusione del sangue hanno reso testimonianza al «mistero della pietà» (1Tm 3,16) (Origene, Commento a Giovanni, II,210).
Gli apostoli vengono definiti testimoni per diritto e per dovere non solo delle cose viste stando con Gesù (At 21-22), poiché hanno «mangiato e bevuto» con il Signore (cf. At 1,4; 10,41), ma dell'esperienza personale dell'incontro con Gesù, dell'adesione a lui nella fede, al di là delle loro attese e prospettive umane (cf. Lc 24,11. 25. 38. 41). La missione evangelizzatrice del mondo intero forma uno dei compiti fondamentali della chiesa.
v. 49: Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall'alto».
Le promesse di Gesù non vengono meno. Lui se ne va, ma non lascia orfani i suoi amici, consegna un testamento. Questo versetto viene tradotto anche così: “E io mando su di voi la Promessa del Padre mio; ma voi rimanete nella città, finché non siate rivestiti dalla Forza dall’alto”. La “Promessa del Padre” e la “Forza dall’alto” indicano la persona dello Spirito che verrà il giorno di Pentecoste.
I discepoli devono restare in città, cioè, attendere pazientemente (cf. Mt 5,1; 2Ts 2,4) per essere "rivestiti". Il vestito è nuovo, più bello. Precedentemente Gesù aveva detto di non preoccuparsi del vestito (cf. Mt 6,25), perché è importante rivestirsi delle armi della luce (Rm 13,12).
In questo versetto, Luca non nomina esplicitamente lo Spirito Santo se non nel momento in cui discende sugli apostoli (cf. At 1,4.5.8). Per ora lo chiama la promessa del Padre, la potenza dall'Alto. Lo Spirito proviene dal Padre, però colui che lo manda è il Figlio.
Ai discepoli non resta che attendere e accogliere docilmente la persona divina dello Spirito che è la potenza del Padre che renderà capaci di testimoniare. Nel libro degli Atti verrà narrato questo avvenimento della discesa dello Spirito.
vv. 50-51: Poi li condusse fuori verso Betània
Siamo alla conclusione del vangelo lucano. Gesù sta lasciando questo mondo. Gesù conduce verso Betania richiamando alla mente e al cuore dei discepoli quanto è accaduto a Lui ma che l’azione dello Spirito lo ha condotto a donare la vita. Betania allora è il luogo in cui comincia e finisce il soggiorno di Gesù a Gerusalemme (19,29ss; Sir 50,20-21); posta a oriente della città, da lì si attende il ritorno della Gloria (Ez 43,2), perché da lì è partita (cf. Ez 11,23). Betania è il luogo dell’amicizia, non può esserci motivo solenne in un luogo bello come questo per la glorificazione di Gesù. Inoltre, Betania è il luogo del profumo di Cristo e l’amico ne viene contagiato perché è l’amore di Dio, l’amore del Creatore, l’amante per eccellenza, l’unico amante.
e, alzate le mani, li benedisse.
Gesù alza le sue mani: è il gesto sacerdotale (cf. Sir 50,20; Lv 9,22) e li benedice. La benedizione è un dono. Con l’ispirazione di Luca ai testi dell’AT, con Gesù risorto abbiamo l’unica ed eterna benedizione. Egli è presentato come il Sommo Sacerdote che benedice il suo popolo santo, prima di separarsi visibilmente da esso, per colmarlo della sua grazia divina. Gesù con la benedizione, dona e augura la vita nuova.
Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo.
La separazione finale di Gesù risorto dai suoi discepoli è avvenuta in un contesto di benedizione. Anche se il distacco per i discepoli si presenta come un dolore, qui viene letto in uno stato di grazia. Gli apostoli vivono una comunione intensa con il loro Signore tanto da non avvertire la separazione.
L’ascensione (separazione) è descritta coi termini greci che indicano un’assunzione, un rapimento (opera di Dio) piuttosto che un'ascensione (compiuta da Cristo). Anche il profeta Elia fu “rapito su un carro di fuoco” (2Re 2,1-13). Questo fuoco altro non è che l'amore; l'amore è forte come la morte, insaziabile come lo Sheol, le sue fiamme sono fiamme di Javhè (cf. Ct 8,6). Ecco perché il Siracide dice: «Beato chi ti vide, Elia, addormentato nell'amore» (Sir 48,11). Di Gesù il nostro versetto dice: «fu portato»; in At 1,9 «fu elevato», ma anche in Ap 12,5 «fu rapito»; solo Paolo usa «ascendere» in Ef 4,8 e Gv 20,17; tuttavia Gesù venuto dal Padre, vi ritorna, ma la sua benedizione e la sua presenza rimangono in mezzo alla sua comunità in modo diverso.
Luca con quest’ascensione formula una verità: della vita donata non va perso nulla. L’amore donato non verrà perso.
v. 52: Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia
Per la prima volta appare il verbo adorare. In greco proskynéō vuol dire sia prostrare che adorare. Tanto è vero che alcune traduzioni non portano il verbo prostrarsi ma adorare come la vulgata. Quindi i discepoli, per la prima volta adorano Gesù, lo riconoscono Signore della loro vita. Cosicché si realizza quanto è già scritto nella Scrittura: “ogni ginocchio si pieghi” (Is 45,23).
Il piegare le ginocchia è un gesto di riverenza dinanzi a una persona superiore (1Re 1,23; Mt 17,14; Mc 1,40) e in modo particolare come segno di adorazione verso Dio (Mi 6,6; Is 45,23; Rm 11,4; 14,11; Ef 3,14).
Il congedo di Gesù dai discepoli non crea disagio. Anzi, essi tornano a Gerusalemme pieni di gioia, la stessa che è descritta all’inizio del Vangelo e, da Gerusalemme, partiranno per la predicazione a tutte le genti con questa stessa gioia, con questo tesoro sconfinato, la gioia dell'appartenenza a Cristo.
v. 53: e stavano sempre nel tempio lodando Dio.
Il Vangelo di Luca si apre nel Tempio ed ha termine nel luogo in cui era iniziato: il Tempio.
La gioia della risurrezione e ascensione adesso per i discepoli diventa preghiera di lode e di esultanza (cf. Lc 1,64; 2,28 espressione lucana) che esplode nel Tempio. Questa parte finale, è accompagnata dal verbo “stare” molto importante per il cristiano, molto utilizzato dall’evangelista Giovanni con il verbo “dimorare”.
“Stare” suppone una forza particolare, la capacità di non fuggire le situazioni ma di viverle assaporandole fino in fondo. “Stare”. Un programma evangelico da portare a tutti anche ai nostri giorni. Allora la lode scaturisce sincera, perché nello “stare”, la volontà di Dio è sorseggiata come bevanda salutare e inebriante di beatitudine.
Lodare Dio vuol dire riconoscere quello che lui ha fatto nel Figlio Gesù e realizzare un grande desiderio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 27,4).
In attesa della Pentecoste (cf. At 1,13-14), i discepoli rimangono alla presenza di Dio Padre, con Gesù, il Figlio che è disceso ed è risalito, pronti ad accogliere lo Spirito che sarà loro Avvocato e Consolatore nello svolgimento della missione.
So gioire di quanto Dio opera nella mia vita e nella vita di tutti?
Riconosco (adorazione) Gesù come Signore della mia vita?
Lo rendo presente con una gioiosa testimonianza?
Come posso anche io annunciare la conversione negli ambienti in cui sono chiamato a vivere?
Rivivo la passione e morte del Signore nella mia vita per godere della sua Resurrezione?
Vivo la dimensione del Tempio come una continua lode?
Popoli tutti, battete le mani!
Acclamate Dio con grida di gioia,
perché terribile è il Signore, l’Altissimo,
grande re su tutta la terra.
il Signore al suono di tromba.
Cantate inni a Dio, cantate inni,
cantate inni al nostro re, cantate inni.
cantate inni con arte.
Dio regna sulle genti,
Dio siede sul suo trono santo. (Sal 46).
Lasciamoci guidare dall’azione dello Spirito e non da uno sguardo che non fa altro che guardare il nostro cielo. Il Signore ci doni il suo cielo che è più largo, è ampio come il mondo e profondo come il cuore degli uomini, avvolge il volto dei deboli, copre le terre martoriate dalla guerra, si stende sul letto dei malati, copre le piazze o le strade ove vivono i senza tetto. Sia questo cielo da contemplare e da vivere.