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martedì 4 novembre 2025

LECTIO: DEDICAZIONE BASILICA LATERANENSE (Anno C)

Lectio divina su Gv 2,13-22
 

Invocare
O Dio, che con pietre vive e scelte prepari una dimora eterna per la tua gloria, continua a effondere sulla Chiesa la grazia che le hai donato, perché il popolo dei credenti progredisca sempre nell’edificazione della Gerusalemme del cielo. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà.
18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Siamo nel “Libro dei Segni” (Gv 2,1-12,50). Giovanni non usa il termine miracolo ma la parola segno perché il miracolo dà l'idea di un intervento dal di fuori cioè, qualcosa di straordinario, il segno invece mi rimanda a qualcosa da approfondire: questo segno terreno che cosa mi vuole dire, che cosa vuole che io faccia?  
Sono proprio i “segni” a distinguere Gesù dal Battista. Al cap. 10, 41 si afferma che: «Giovanni non ha compiuto nessun segno», perché i segni sono una prerogativa del Messia.
Giovanni in questa “sezione”, distingue sette segni: 1) Le nozze di Cana, Gv 2; 2) La guarigione del figlio del funzionario regale, Gv 4, 43; 3) La guarigione del paralitico, Gv 5; 4) La moltiplicazione dei pani, Gv 6; 5) Gesù cammina sulle acque, Gv 6; 6) Il cieco nato, Gv 9; 7) La resurrezione di Lazzaro, Gv 11. Nel cap. 12 troviamo la conclusione del “Libro dei Segni”, con la fine del ministero pubblico di Gesù e l’annuncio della sua morte imminente.
Il primo “segno” che Giovanni presenta è il segno del vino in Cana di Galilea; in quell’occasione Gesù aveva introdotto immediatamente la novità del suo messaggio: la nuova alleanza che scardina le regole e le istituzioni passate, percorrendo sentieri del tutto nuovi e trasformando alla radice il rapporto con Dio. La portata di questa novità assoluta è tale che non può non toccare il cuore della religiosità ebraica: il tempio, i rituali, i sacrifici.
Per la Festa della Basilica lateranense, abbiamo l’episodio sulla cacciata dei mercanti dal Tempio, che a differenza degli altri vangeli (Mt 21; Mc 11; Lc 19) che collocano l’episodio quando la vita pubblica di Gesù è già avviata, Giovanni, invece, lo mette in evidenza dopo il segno delle nozze di Cana, per annunciare il senso della sua missione: Lui sarà il nuovo sacrificio al Tempio, l’unico sacrificio, in quanto il vero agnello che compirà la vera Pasqua. Per questo di Cristo Gesù possiamo dire che è il Tempio nuovo nella sua stessa umanità.
Il brano raccoglie alcune espressioni e frasi che si ripetono nelle due scene (Cana e Gerusalemme) e fanno pensare che l’autore abbia voluto creare un contrasto tra le due scene. A Cana, un villaggio della Galilea, durante una festa di nozze, la madre di Gesù, dimostra una fiducia incondizionata in Gesù e invita all’accoglienza della sua Parola (2,3-5). Dall’altra parte, “i Giudei” durante la celebrazione della Pasqua a Gerusalemme rifiutano di credere in Gesù e non accolgono la sua Parola. A Cana Gesù fece il suo primo segno (2,11), qui i Giudei chiedono un segno (v. 18), ma poi non accettano il segno dato loro da Gesù (2,20).
Nel brano troveremo un Gesù diverso da come siamo abituati a vedere: indignato, con la frusta in mano, che getta per aria le bancarelle. Un modo per porre fine a un certo tipo di religiosità.
Questo episodio collocato all’inizio del IV Vangelo nei sinottici lo troviamo nella sezione della passione. Il motivo è che Giovanni ne fa un segno programmatico, un anticipo della risurrezione. Mentre i Sinottici presentano il motivo per cui Gesù è messo a morte.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 13: Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme.
Il versetto inizia con una collocazione temporale: “si avvicinava la Pasqua dei Giudei”. Questa è la prima delle tre Pasque menzionate nel vangelo di Giovanni. La seconda è quella del discorso sul pane di vita. La terza è quella dell’ora della Passione. «La Pasqua dei Giudei» è una celebrazione scandita da regole precise, obblighi ritualistici, sacrifici prescritti nei minimi dettagli, compravendita di animali “regolamentari” da sacrificare, cambio di monete per l’obolo al tempio.
In occasione di questa Pasqua Gesù lascia Cafarnao per andare a Gerusalemme (da Cafarnao che è sotto il livello del mare a Gerusalemme circa 800 m. sul livello del mare), come usava fare ogni pio Israelita.
Forse Giovanni pensava in quel momento alla profezia di Malachia: Mal 3,1-3: «Improvvisamente verrà nel suo tempio il Signore che voi cercate… Chi potrà sopportare il giorno della sua venuta? … Egli purificherà i figli di Levi» (Mal 3,1-3), con un collegamento al titolo di Agnello di Dio che il Battista ha attribuito a Gesù (cf. Gv 1,29.36).
v. 14: Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Giovanni fa una presentazione graduale del Tempio. Intanto l’edificio che a quel tempo aveva un perimetro di circa 1500 metri, era stato da poco ricostruito da Erode il Grande, ma sarebbe stato distrutto nel 70 d.C. Era composto da due parti: un recinto, che si identificava con il Tempio stesso (hieròn), e il santuario propriamente detto (naòs). In quanto luogo della preghiera, dei sacrifici quotidiani e della celebrazione delle feste liturgiche, il Tempio era il cuore della vita d'Israele; ogni buon giudeo fedele alla Legge vi si recava in pellegrinaggio ogni anno. Questa prassi religiosa comportava usanze del tutto estranee alla preghiera e cioè la vendita sul posto degli animali destinati ai sacrifici, il cambio della moneta richiesta per l'acquisto degli animali e per le offerte.
Gesù trova i mercanti nell’area hieròn riferendosi al cortile dei gentili, tra il portico di Salomone e la porta Corinzia e agli atri che lo attorniavano. Quello che vede Gesù lo fa indignare perché l’onore di Dio è ignorato, disprezzato e vilipeso da un commercio improprio e inopportuno svolto nel tempio e approvato dalle massime autorità religiose.
Inoltre, Gesù trova quanti vendevano gli animali per i sacrifici assieme ai cambiavalute; essendo obbligatorio per pagare la tassa del tempio l’utilizzo della moneta prescritta, i pellegrini che giungevano anche da molto lontano dovevano cambiare il loro denaro. Gesù fa l’amara constatazione del carattere profano che ha assunto la festa di Pasqua: un vero e proprio sistema economico nelle mani di una casta, a tutti gli effetti “proprietaria del tempio”.
v. 15: Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi
Questo versetto è del tutto identico ai suoi paralleli sinottici, tranne per un particolare che lo pone su un altro piano. Rispetto al racconto dei sinottici Giovanni mette in scena alcuni elementi come la frusta e l’indicazione degli animali (oltre alle colombe e ai cambiavalute citati dagli altri evangelisti) che rendono la scena più viva.
Farsi una frusta era proibito perché nel tempio non si poteva entrare con le armi. Le cordicelle di cui si parla servivano a condurre il bestiame grosso. Sant’Agostino, riferendosi a Pr 5,22: «L’empio è preda delle sue iniquità è tenuto stretto dalle funi del suo peccato» commentando dice “il Signore trae dai nostri stessi peccati il materiale con cui correggerci e purificarci” (“de peccatis nostris sumit materiam unde nos puniat”, In Joh. 10).
Il gesto e le parole di Gesù però fanno eco alla tradizione profetica che metteva il nuovo tempio e l’azione purificatrice del Messia come tema dominante dell’escatologia giudaica. Gesù, alla maniera dei profeti, prende a cuore Dio e il suo tempio profanato da culti iniqui, cioè, viziati da comportamenti e scelte non corrispondenti alle vere esigenze di Dio (cf. Ger 7,11). Altri brani profetici di fondamentale importanza, annunciano un nuovo tempio tramite l’azione purificatrice del Messia: “In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti” (Zc 14,21) e anche «Ecco, io manderò un mio messaggero a preparare la via davanti a me e subito entrerà nel suo tempio il Signore, che voi cercate» (Ml 3,1).
Inoltre, la purificazione del tempio viene espressa dall’Evangelista con tre verbi significativi: “scacciò tutti fuori”, “gettò a terra”, “rovesciò”. Questi verbi non indicano solo un atteggiamento deciso e forte di Gesù ma anche la presa di possesso del tempio con un nuovo senso e significato e va letto come una espugnazione dell’antico culto a Dio fatto di animali, incensi, offerte, in cui il cuore e la vita dell’uomo rimanevano lontani da Dio (cf. Mt 15,8). Il sacrificio sarà fatto dall’Agnello di Dio, Lui sarà il perpetuo sacrificio per riconciliarsi con il Signore.
v. 16: e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
Come Geremia, Gesù critica la pratica religiosa che il tempio sembrava richiedere a nome di Dio (cf. Ger 7,15); ma si manifesta anche come il Messia, il Figlio di Dio (cf. Sal 2,7), atteso dai giudei quale purificatore e giudice.
Gesù chiama il tempio “casa del Padre mio”, e non fa riferimento come i sinottici al testo di Is 56,7, ma alla finale del libro di Zaccaria: «In quel giorno non vi sarà neppure un mercante nella casa del Signore degli eserciti» (Zc 14,21). Inoltre, egli parla della casa del Padre mio: quindi il Tempio di Israele agli occhi di Gesù è veramente la casa di Dio in Israele: niente deve alterarne la santità. Non si tratta solo di rivendicare un culto vero e spirituale, ma qualcosa di più profondo. Egli viene a sostituire tempio e sacrifici.
Gesù qui per la prima volta chiama Dio suo Padre e si proclama Figlio di Dio (il termine è tipicamente giovanneo anche se è presente nei sinottici). Parla come un figlio che chiede i suoi diritti. Nessun Israelita osava chiamare Dio suo Padre in senso personale, ma casomai, collettivo, in quanto Dio era considerato il Padre del popolo di Israele per le gesta meravigliose da Lui compiute (cf. Es 4,22; Nm 11,12; Ger 3,14-19; 31,20). Solo Gesù si comporta e parla del Padre in modo nuovo e unico chiamandolo Padre mio. Dopo la risurrezione anche i discepoli potranno chiamare Dio loro Padre, quando Gesù rivelerà a Maria di Magdala che Dio è Padre di tutti: «Ascendo al Padre mio e Padre vostro Dio mio e Dio vostro» (20,17).
v. 17: I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo della tua casa mi divorerà».
Giovanni continua ancora secondo le sue intenzioni riportando le reazioni provocate dal suo gesto. I suoi discepoli si ricordano di un passo del salmo 69: «perché io zelo per la tua casa mi ha divorato e l’oltraggio dei tuoi insultatori ricadde su di me». Secondo la Chiesa primitiva questo salmo è in riferimento al Messia: viene ricordato come una profezia della sua tragica fine (lo zelo mi divorerà). Ma i discepoli, in questo momento, forse pensano solo che Gesù si ponga sulla scia di quanti avevano a cuore l'onore di Dio e il rispetto verso il suo luogo di culto. Come Finees, Elia e Mattatia difenderà questo ideale per tutta la sua vita. Ciò sta a significare che questo gesto lo porterà a essere consumato come l’Agnello pasquale. Dovrà vivere, essere consumato nella passione per poi risorgere, perché la passione è amore “fino alla fine” (eis télos: Gv 13,1) ma anche ingresso alla risurrezione.
I discepoli di questo gesto fanno memoria, non solo per ricordare qualcosa del passato che si illumina di un significato ulteriore, ma anche come risposta di fede alla Persona di Gesù che si fa celebrazione, cioè memoria nel presente.
Nel Nuovo Testamento molte sono le citazioni di questo salmo e proprio in rapporto alla Passione (cf. Gv 15,25; 19,28; Mc 15,36 (con v. 22 del Sal); Mt 27,34; At 1,20; Rm 11,9-10; 15,3).
Il versetto porta alla luce non solo la passione di Gesù, ma anche un invito a riflettere sul significato del culto e sull'importanza di mantenere la purezza nella nostra relazione con Dio. Quindi non un culto limitato a un luogo, ma un atto del cuore.
v. 18: Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Entrano in scena i Giudei (con questo termine Giovanni indica le autorità giudaiche del Sinedrio di Gerusalemme, composto da Sadducei e Farisei) che si presentano diffidenti e increduli chiedendo una prova che legittimi il gesto compiuto da Gesù, poiché hanno visto che si trattava di un gesto profetico. Questo è il caratteristico atteggiamento di chi non ha fede ed esige un miracolo spettacolare per credere. Gesù rifiuta questo compromesso, rifiuta, come al solito, un simile comportamento (cf. Mt 12,38-39; 16,1-4; Lc 23,8).
Queste posizioni sono la duplice caratteristica dell’uomo che si pone di fronte al Cristo e che Paolo esprime molto bene così: «E mentre i Giudei chiedono i segni e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocefisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1Cor 1,22-23).
v. 19: Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Come al solito Gesù non risponde direttamente alla domanda che gli porgono. Gesù, in maniera enigmatica offre un segno completamente diverso da quello che si attendevano. Qui Gesù non indica lo hieròn l’edificio in se ma usa il termine naòs, cioè la parte più interna del Tempio, quella in cui si trovava la presenza di Dio. questo per indicare che è Lui la presenza di Dio in mezzo al suo popolo.
L’ordine della distruzione del tempio è da intendere come conseguenza della condotta peccatrice del popolo. Egli si rivela come l'erede dei profeti, soprattutto di Geremia che aveva annunciato la distruzione del Tempio di Salomone a coloro che, pur commettendo il male senza ritegno, facevano affidamento sulla presenza dell'edificio sacro come garanzia magica di salvezza (Ger 7). Ma non vuole indicare solo questo. Gesù oppone al santuario che sarà distrutto uno (indicato solo con il pronome “lo”) che egli si dice in grado di ricostruire.
Il numero tre, “in tre giorni”, ha un sapore escatologico (Ag 2,6s) e fa riferimento al Tempio definitivo promesso dai profeti. Inoltre, Il verbo utilizzato “eghéiro” si adatta bene sia per la resurrezione dei corpi che per l’edificazione di un edificio, ed è differente da quello scelto dai sinottici.
Gesù sembra indicare sé stesso come l’autore di questo tempio escatologico, facendo passare il discorso dal tempio di pietra al luogo della Presenza.
v. 20: Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni, e tu in tre giorni lo farai risorgere?».
I giudei parlano anche loro del Tempio, ma i quarantasei anni si riferiscono alla costruzione di tutto il complesso del Tempio in particolare, il secondo Tempio, quello edificato dopo l’esilio. Secondo le Antichità Giudaiche di Giuseppe Flavio (15,11,1) il Tempio cominciò il diciottesimo anno di regno del re Erode il Grande, cioè il 20-19 a.C. contando 46 anni si arriva alla Pasqua del 28 d.C. che corrisponde al quindicesimo anno di Tiberio e coincide perciò con la cronologia di Lc 3,1. È questo uno dei dati cronologici più solidi della vita di Gesù.
I suoi interlocutori comprendono che Gesù si presenta davanti a loro con dei poteri troppo grandi, il potere stesso di Dio. Non possono far altro che ironizzare sulle sue parole.
Capita spesso, in particolare nel Vangelo di Giovanni, che gli ascoltatori fraintendono le parole di Gesù, in quanto non pensano al tempio escatologico, ma a una ricostruzione materiale del tempio storico, dopo una sua eventuale distruzione, e si meravigliano che ciò possa avvenire nel breve periodo di tre giorni.
Le parole di Gesù le ritroviamo dette dai Profeti: «Venite, ritorniamo al Signore … Dopo due giorni ci ridarà la vita, il terzo ci farà rialzare e noi vivremo alla sua Presenza» (Os 6,1-2). Ma i giudei non comprendono il discorso profetico di Gesù, fraintendendolo in senso materiale «secondo la carne» (cfr. 8,15). Però Gesù è ormai presente in mezzo a loro e loro dovranno fare i conti con questa presenza inquietante.
v. 21: Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Sappiamo che il Vangelo di Giovanni fu scritto tra il 90 e il 100 d. C., cioè dopo l'effettiva distruzione del tempio di Gerusalemme. Questo versetto, infatti, vuole essere solo un chiarimento della risposta di Gesù: il tempio vero è il corpo di Gesù. Il corpo di Gesù resuscitato sarà il nuovo santuario che sostituirà quello vecchio e sarà il centro del culto in spirito e verità (cfr. 4,21-22).
Il luogo in cui è presente Dio (1,14), il tempio nuovo di cui parlava Ezechiele da cui scaturisce l’acqua viva (cfr. Ez 40,1ss). Nel Nuovo Testamento il tempio è anche la Chiesa (cf. Ef 1,22-23; Col 1,18); il singolo cristiano (1Cor 3,16; 6,19), ma soprattutto come comunità. Questa Chiesa se è fedele allo spirito di Cristo, è la nuova Chiesa nel mondo.
Questo sarà possibile capirlo dopo la risurrezione di Gesù quando lo Spirito Santo abiliterà i credenti all’interpretazione della Storia e della Sacra Scrittura. Il nuovo tempio che egli avrebbe ricostruito è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo che si realizza quando i credenti sono riuniti tutti insieme. Il tempio di Dio ormai è la Chiesa. Infatti, il versetto successivo chiarisce.
v. 22: Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
L'interpretazione delle parole di Gesù continua. Qui viene precisata la fede post-pasquale dei discepoli. I discepoli “ricordano”: è una delle attività più importanti dello Spirito Santo, fa ricordare tutto ciò che Gesù ha detto e farà capire il significato di ciò che è stato detto (Gv 14,26; 16,23). Giovanni utilizza lo stesso verbo del v. 17 in modo da attuare un parallelo tra la funzione della Scrittura e dello Spirito: entrambi illuminano e fanno comprendere gli eventi che Dio opera per il suo popolo e le opere che Gesù compie.
Il cristiano legge la scrittura e comprende ciò che Dio ha fatto per lui. A quale Scrittura si riferisce Giovanni? Molto probabilmente al salmo 69, che la Comunità cristiana leggeva in senso messianico.
Nelle parole di Gesù non c’è solo l’annuncio della Pasqua, la sua risurrezione, ma anche il frutto che ne seguirà. Questo i discepoli lo capiranno dopo la risurrezione di Gesù e scopriranno (fino ai nostri giorni) che dove c’è il corpo di Gesù, il suo santuario, lì c’è Dio, ivi l’umanità intera convergerà per trova salvezza, risurrezione e vita eterna.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Quali sono i mercanti e gli oggetti estranei che si trovano dentro di me?
Posso dire anche io, con la mia vita, “Lo zelo per la casa del Signore mi divora”?
Mi è mai capitato di sentire la presenza del Signore dentro di me, come in un tempio?
Ogni volta che mi reco al tempio mi accosto con fede e con timore al mistero di Dio?
Nel Tempio scorgo il segno della risurrezione?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Dio è per noi rifugio e fortezza,
aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce.
Perciò non temiamo se trema la terra,
se vacillano i monti nel fondo del mare.
 
Un fiume e i suoi canali rallegrano la città di Dio,
la più santa delle dimore dell’Altissimo.
Dio è in mezzo a essa: non potrà vacillare.
Dio la soccorre allo spuntare dell’alba.
 
Il Signore degli eserciti è con noi,
nostro baluardo è il Dio di Giacobbe.
Venite, vedete le opere del Signore,
egli ha fatto cose tremende sulla terra. (Sal 45).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
In questa pausa contemplativa sosto in adorazione silenziosa per scorgere la presenza di Dio nella mia vita attraverso la sua Parola per dissipare le tenebre della paura e rischiarare il mio cammino di fede nella resurrezione anche nei momenti difficili.


mercoledì 29 ottobre 2025

LECTIO: COMMEMORAZIONE DEI FEDELI DEFUNTI (Anno C)

Lectio divina su Gv 6,37-40

 
Invocare
Nella tua bontà, o Padre, ascolta le preghiere che ti rivolgiamo, perché cresca la nostra fede nel Figlio tuo risorto dai morti e si rafforzi la speranza che i tuoi fedeli risorgeranno a vita nuova.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
37Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, 38perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. 39E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno. 40Questa, infatti, è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell'ultimo giorno».
 
Silenzio meditativo perché la Parola di Dio possa entrare in noi e illuminare la nostra vita.
 
Dentro il Testo
Il brano del vangelo, nella Commemorazione dei fedeli defunti, è tratto dalla sessione che tratta del ministero di Gesù (Gv 1-12).
Ci troviamo in Galilea, all’altra riva del mare, nel momento in cui «era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei» (Gv 6,1,4). Gesù si accorge che una grande folla lo segue e per loro moltiplica i pani. Purtroppo, succede il caos. La folla voleva proclamare Gesù re ma Egli si ritira sulla montagna tutto solo (Gv 6,15). Dopo una breve pausa che ci fa contemplare “il Signore che cammina sulle acque” (Gv 6,16-21), il racconto prosegue il giorno dopo (Gv 6,22) con la folla che continua ad aspettare e a cercare Gesù. Qui Gesù fa il suo discorso sul pane di vita disceso dal cielo e ammonisce coloro che pensano solamente al pane terreno (Gv 6,27).
Gesù desidera che i suoi interlocutori, i suoi discepoli, facciano un salto di qualità nella fede. Egli sazia non solo con il pane terreno ma desidera ardentemente saziarci del pane celeste, che è Lui stesso, sicuri che quanti verranno a lui non avranno più fame, né sete (Ap 7,16) portando così l’attenzione di tutti verso la conclusione finale: la vita eterna. 
Gesù con il definirsi “il pane della vita”, fa riferimento alla manna data al popolo da Dio tramite Mosè (cf. Es 16,1-36), come una figura del vero pane che scende dal cielo e dà la vita al mondo (Gv 6,30-36).
Nelle parole del brano odierno, troviamo una sintesi della vita in Cristo. È una vita in pienezza con una speranza viva per il futuro: la risurrezione. Questa è la promessa che Gesù fa agli uomini, aiutandoli a vincere la paura della morte e del giudizio (cf. Ap 20,12). Ci aiutano i verbi “vedere” e “credere”, i due verbi della vita, che sconfiggono la morte, la nostra nemica. Con questi verbi siamo chiamati a vivere la bella esperienza dell’amore di Gesù, che è per tutti, anche per il più miserabile e peccatore degli uomini. Vedere l’amore di Gesù ci porta poi a credere. E questa è vita.  
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 37-38: Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.
In queste parole troviamo l’amore, la dolcezza che Dio ha nei nostri riguardi. Troviamo quell’appartenenza a Cristo. In Cristo ogni anima è custodita da lui in persona, sarà formata, santificata e riconsegnata al Padre per l’eternità. Gesù è il “punto” di incontro: “colui che viene a me, non lo caccerò”. Gesù Lui il centro della storia, la via che conduce alla vita piena. L’espressione “cacciare fuori”, che ritroviamo spesso in Matteo per indicare coloro che sono esclusi dal Regno di Dio e dal banchetto di nozze del Figlio (cf. Mt 22,13), fa pensare al giudizio finale: Gesù promette a quanti credono in Lui di custodirli e di farli entrare nella pienezza di Dio. Lui vuole che nessuno si perda. In queste parole possiamo contemplare l’amore ostinato di Dio Padre, che ritroviamo in Is 55,10-11: la parola di Dio discende dal cielo per fare la sua volontà. Gesù stesso, nel discorso del pane di vita, evidenzierà quest’aspetto (cf. Gv 6,51). E in quest’invio troviamo la motivazione: la vita del mondo che è la volontà del Padre.
v. 39: E questa è la volontà di colui che mi ha mandato: che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell'ultimo giorno.
L’Evangelista qui presenta una prima volontà del Padre per coloro che sono dati al Figlio perché siano custoditi da Lui e che Egli li risusciti tutti nell’ultimo giorno. Essi sono completamente liberati dal potere del male ed entrano nella piena benedizione dell’ultimo giorno!
Gesù ha una missione: non perdere nessuno di quelli che il Padre gli ha dato. Le parole del Signore ci assicurano che nessuno di loro è perduto o dimenticato. Gesù è un inviato dal Padre e compie il suo volere, per questo ribadisce che non vuole perdere nessuno di quanto il Padre gli ha dato. Il volere del Padre è che nessuno si perda e che possa vivere in pienezza con il Padre e con il Figlio quando verrà la pienezza dei tempi, il suo ritorno, nell'ultimo giorno. La potenza di risurrezione del Signore sarà la prova finale che Egli non ha perso nessuno. La morte è stata vinta per sempre, perché dal Cielo ci è stata donata una vita che non viene dalla terra, viene da Dio. Quella che noi chiamiamo morte allora è il momento in cui si nasce alla vita definitiva; è il momento in cui si manifesta in pienezza la nostra identità di figli di Dio, che da Lui hanno ricevuto la vita immortale.
L'espressione "nell'ultimo giorno" (vv.39-40) ha un significato preciso: è il giorno in cui termina la creazione dell'uomo e si compie la morte di Gesù; il giorno in cui si celebrerà il trionfo finale del Figlio sulla morte e tutti potranno ricevere lo Spirito che verrà donato all'umanità: il giorno della Pasqua di risurrezione. Allora Gesù porterà a compimento la sua missione tramite la risurrezione e donerà la vita definitiva, che ha inizio già nella vita presente mediante la fede e il suo compimento nella risurrezione alla fine dei tempi (Lino Pedron).
v. 40: Questa è la volontà del Padre mio, che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna
Anche qui, per la seconda volta si ripete la volontà del Padre, che viene presentata in relazione alla responsabilità dell’uomo. È volontà del Padre che il Figlio sia presentato a tutti, e che chiunque lo riconosce come Figlio e crede in Lui, abbia la vita eterna, una vita nella cui pienezza entreremo attraverso la risurrezione.
Il versetto parla di “vedere il Figlio”. Ovviamente ai tempi di Gesù quest’esperienza l’hanno vissuta in tanti. Giovanni stesso nelle sue lettere scrive «ciò che i nostri occhi hanno veduto» (1Gv 1,1) abbracciando così la vita eterna. Noi, oggi, quest’esperienza la possiamo vivere vedendo il volto di Gesù attraverso la sua Parola. Noi possiamo contemplare Gesù, rimanere incantati dalla sua bellezza, possiamo ascoltare la sua Parola che ci apre gli occhi sulla realtà e ci mostra la nostra meta ultima.
La meta ultima è il dono della vita eterna che Dio ha donato a tutti indistintamente. Però sembra che non basti tutto questo: bisogna essere innamorati. Infatti, molti sono coloro che hanno incontrato Gesù lungo le strade della Palestina, eppure non tutti si sono lasciati coinvolgere nella sua proposta di vita, in questo dono d’amore e hanno preferito continuare per le loro strade.
Il versetto usa anche un altro verbo: “credere”. Il contesto generale della tematica di Gv 6 è il rifiuto di credere in Gesù da parte della folla e dei discepoli. Per l'evangelista Giovanni credere in Gesù, Figlio di Dio fatto carne e rivelatore dell'amore del Padre, è l'unica via di accesso alla vita eterna. Il verbo “credere” vuole indicare l’atteggiamento di chi si fida e di chi si affida. Credere in Gesù, significa vivere ogni giorno quell'amore che lui stesso ha vissuto in modo pieno verso Dio e i nostri fratelli.
Questo ci permette di accogliere bene la promessa del dono: la risurrezione, quell’entrare nella gioia del Padre e vivere in pienezza. Se dunque vogliamo vivere in pienezza e giungere alla vita senza fine, dobbiamo riconoscere e accogliere Gesù, il “Verbo della vita” (1Gv 1,1).
A chi crede in lui il Signore assicura la risurrezione e la vita eterna nella casa del Padre. A conferma di questa sua promessa egli, facendo la volontà del Padre suo e Padre nostro, si lascerà innalzare da terra, per attirare tutti a sé (cf. Gv 12, 32-33). Però, una volta risorto e asceso al cielo, «preparerà un posto, per ciascuno di noi, nella casa di suo Padre, dove vi sono molte dimore» (cf. Gv 14, 2-3).
Con questi verbi, “vedere” e “credere”, siamo chiamati a vivere la bella esperienza dell’amore di Gesù, che è per tutti, anche per il più miserabile e peccatore degli uomini. Vedere l’amore di Gesù ci porta poi a credere. E questa è vita.  
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Cosa significa per la mia vita sapere che Cristo è morto per me?
Accetto nella mia vita il Verbo divino che dà la vita eterna?
Cerco di vedere Gesù con gli occhi della fede, ascoltando le sue parole, contemplando il suo modo di essere, testimoniandolo fino in fondo?
Che cosa significa per me la vita eterna?
In che cosa spero?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
 Il Signore è mia luce e mia salvezza:
di chi avrò timore?
Il Signore è difesa della mia vita:
di chi avrò paura?
 
Una cosa ho chiesto al Signore,
questa sola io cerco:
abitare nella casa del Signore
tutti i giorni della mia vita,
per contemplare la bellezza del Signore
e ammirare il suo santuario.
 
Ascolta, Signore, la mia voce.
Io grido: abbi pietà di me, rispondimi!
Il tuo volto, Signore, io cerco.
Non nascondermi il tuo volto.
 
Sono certo di contemplare la bontà del Signore
nella terra dei viventi.
Spera nel Signore, sii forte,
si rinsaldi il tuo cuore e spera nel Signore. (Sal 26).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
La morte diventa il passaggio verso un'altra dimensione di questa stessa vita, verso la pienezza che Dio desidera darci. Ma Dio ci lascia liberi e possiamo tragicamente rifiutare di essere riempiti dalla sua presenza, tragicamente allontanarci dalla beatitudine (Paolo Curtaz).

martedì 21 ottobre 2025

LECTIO: XXX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 18,9-14

 
Invocare
O Dio, tu non fai preferenze di persone e ci dai la certezza che la preghiera dell’umile penetra le nubi; guarda anche a noi come al pubblicano pentito, e fa’ che ci apriamo alla confidenza nella tua misericordia per essere giustificati nel tuo nome. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
 9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fari­seo e l'altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo". 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". 14Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
Siamo nella seconda parte del cammino di Gesù a Gerusalemme. Lungo la via, Gesù continua a istruire i suoi discepoli sullo spirito del Figlio, che non è esattamente lo spirito di zelo che hanno Giacomo e Giovanni che vogliono distruggere quelli che non accolgono Gesù, ma è lo spirito di accoglienza e di misericordia.
In questo contesto viene narrata la parabola del fariseo e del pubblicano, tipica delle parabole lucane e che può presentarsi ambigua a chi per la prima volta l’ascoltasse.
Domenica scorsa, il brano terminava con la domanda: Ma il Figlio dell’uomo troverà la fede sulla terra? Perché il Regno di Dio c’è dove ci sono persone che desiderano il Signore e che lo amano e lo seguono. E la fede è questo: desiderare questa comunione col Signore.
La parabola, che si presenta provocante, ci presenta due modi diversi della preghiera e nello stesso tempo, due tipologie di persona che vive in noi.
La pericope evangelica assieme alla parabola del giudice iniquo e della vedova (18,1-8), che immediatamente la precede, forma una sorta di piccola catechesi sulla preghiera, che deve essere insistente (18,1-8), umile e fiduciosa (18,9-14). Due parabole che, a loro volta, sono in qualche modo agganciate al breve discorso apocalittico (17,20-37), che le precede. Un aggancio che avviene sul tema della venuta del Signore e del giudizio (18,7-8) e della giustificazione (18,14a); e che vede nella preghiera assidua, umile e fiduciosa il giusto atteggiamento di attesa vigilante verso il Signore che viene (17,24.30).
Tuttavia, Luca qui non si limita al tema della preghiera, che deve alimentare il tempo di un'attesa vigilante, ma affronta anche quello della giustificazione, mettendo in rilievo il giusto atteggiamento per ottenerla (v.14a). Lo fa contrapponendo tra loro due comportamenti antitetici, presi dal mondo del giudaismo, senza tuttavia, come si è detto, voler innescare polemiche nei suoi confronti, non almeno in modo aperto. Il fariseo e il pubblicano, infatti, sono soltanto due figure tipo, due parametri con cui raffrontarsi, quasi due caricature. Esse svolgono bene il loro ruolo pastorale all'interno di un raccontino, molto avvincente, incisivo e convincente.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 9: Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
La parabola contiene una sua introduzione che è una dedica che Gesù fa «per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti…», cioè di “chi si fida di se stesso e non di Dio”.
C’è in “alcuni” la presunzione di essere giusti, ma questo sarebbe una loro questione di coscienza; costoro però non solo presumono per loro, quanto disprezzano gli altri. E qui c’è il peccato fondamentale: “confidare in se stesso”. Tutto centrato su se stessi. Io sì, gli altri no. Un modo per annullare le persone che ci ruotano attorno, un modo per creare un vuoto intorno e mettersi in bella mostra.
Chi erano effettivamente questi “alcuni” che si mettevano in mostra? A chi, in particolare, erano indirizzate queste parole? Non certo a quella folla di persone che accorrevano per sentirlo parlare, e che nelle sue parole trovavano conforto e guarigioni, può darsi a qualche nuovo seguace che pensava di appartenere finalmente ad un gruppo che gli garantiva la salvezza per il solo fatto di esserci dentro; di certo la parabola viene indirizzata a quel partito giudaico dei farisei, composto da laici che appartenevano a tutte le categorie sociali, compresi gli scribi o dottori della legge.
Questi farisei esercitavano la loro influenza sul popolo attraverso le sinagoghe che, con la loro capillare diffusione sul territorio, permettevano di coltivare lo studio e la devozione della scrittura, e lo sforzo di metterla in pratica con l’osservanza metodica dei suoi precetti che doveva regolare tutti gli aspetti della vita privata e pubblica del pio ebreo. “Giusto”, era colui che viveva quindi questo modello di pietà religiosa.
v. 10: Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
La parabola inizia con “due uomini”, “due” nella Bibbia è particolare, si ripete spesso e indica l’inizio di una moltitudine. Ora questi due fanno la stessa azione: salgono al tempio a pregare ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti.
In quest’azione ci possiamo identificare tutti sia buoni e cattivi. Tutti e due siamo tra coloro che salgono al Tempio.
I due uomini vengono identificati nella figura di un fariseo (che significa separato) e in quella di un pubblicano (che è l’immagine del peccatore). Guardando ai nostri giorni possiamo dire che uno è un bravo cattolico, impegnato in tutti i sensi, e l’altro invece è un po’ un filibustiere, fa i cavoli suoi, non gli importa nulla della religione, i suoi atteggiamenti sono come quelli della parabola dell’uomo ricco: «ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti» (cf. Lc 12,13-21).
Le due figure hanno in comune il loro essere uomini, il loro salire al tempio e il loro comune intento di pregare, il loro unico e comune Dio. Ciò che li differenzia è la loro posizione sociale e il loro diverso modo di intendere il proprio rapporto con Dio, che nasce da una diversa coscienza di se stessi, da una diversa esperienza di vita e da una diversa percezione di Dio.
vv. 11-12: Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
Due uomini in contrasto, due tipi di preghiera. Qui abbiamo la descrizione del fariseo. Nelle sue parole abbiamo una preghiera che non risulta del tutto inedita. Infatti, ricalca un modulo talmudico che recita così: «Ti ringrazio, Signore mio, per avermi fatto partecipare alla compagnia di coloro che siedono nella casa d’insegnamento, e non a quella di coloro che siedono nell’angolo della strada; infatti, come loro mi metto in cammino; ma me ne vado verso la Parola della Legge, e questi, invece, vanno in fretta verso cose futili. Mi do da fare, e anche quelli si danno da fare: mi impegno e ricevo la mia ricompensa; ed essi si impegnano, ma non ricevono alcuna ricompensa. Corro e corrono essi; corro verso la vita del mondo futuro ed essi corrono verso la fossa della perdizione».
Del fariseo, l’evangelista Luca dice che: “pregava così tra sé”. Qui occorre notare un problema di traduzione, che non ci permette di entrare dentro il significato originale delle parole di Luca; detto così sembrerebbe che il fariseo stia pregando nel suo intimo, cioè senza esprimersi ad alta voce, come in una sorta di preghiera mentale. Il testo greco invece utilizza un'espressione diversa, che si potrebbe tradurre così: "il fariseo stando in piedi pregava rivolto verso se stesso".
Il fariseo è nella condizione interiore di coloro che, quando pregano fanno un monologo, ossia una preghiera che non ha Dio come interlocutore ma se stessi, il che è uno dei maggiori rischi dell'esperienza della preghiera. Nella preghiera-monologo si cela un inganno: si può pensare di aver pregato, e si può persino esserne convinti, mentre in realtà uno ha solo parlato con se stesso. L'espressione va dunque intesa così: il fariseo, stando in piedi, pregava parlando con se stesso. Le parole riportate successivamente, come contenuto del suo pregare, dimostrano che le cose stanno davvero così. Si tratta di una preghiera che ruota intorno al proprio io.
Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo.
Questa è la parte finale della preghiera dove il fariseo elenca le sue prestazioni. Egli, non solo osserva i Comandamenti, la Legge, ma aggiunge un di più: compie due opere meritorie che corrispondono alla pratica farisaica del tempo di Gesù. Questi atteggiamenti possono farci pensare a un fariseo “pio” o “devoto” ma davanti abbiamo semplicemente un atto di superbia.
v. 13: Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore". Il pubblicano viene presentato come un “possessore di una coscienza”.
Anche il pubblicano sceglie la solitudine, si rivolge a Dio: non per vantarsi, ma per implorare misericordia: confessa la sua indegnità interiore.
Guardando con attenzione tre sono i suoi movimenti: si ferma a distanza; non osa alzare gli occhi; si batte il petto che è ben diverso dalla superbia arrogante del fariseo. Egli sa guardare nell’intimo del suo cuore e lì scopre di non essere a posto con il Signore e per questo nella sua grande umiltà gli chiede elemosina (abbi pietà di me), perdono e misericordia, riconoscendosi dinanzi a lui peccatore. È l’umiltà che vige nel pubblicano!
Nell’umiltà si vede solo la grandezza, la magnificenza, la gloria del Signore; nell’umiltà, la povertà messa a confronto con la luce che si irradia da Dio, tiene a distanza l’uomo dal suo Creatore. Non si può nell’umiltà che elevare un grido di perdono, di misericordia, di implorazione di pietà. È questo il vero rapporto tra Dio e l’uomo, perché veramente chi può dirsi giusto dinanzi a Dio e alla sua Parola, dinanzi alla sua divina volontà manifestata a noi perché noi la compiamo e la osserviamo fedelmente?
Dio è troppo grande, troppo in alto, troppo giusto, assai santo perché l’uomo possa dichiararsi meritevole ai suoi occhi. La distanza è sempre infinita, l’abisso è incolmabile. Ecco perché bisogna accostarsi al suo trono di grazia solo alla maniera del pubblicano, perché nel cuore, in fondo, siamo pubblicani: O Dio, abbi pietà di me, peccatore.
v. 14: Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Qui Gesù inizia a fare il suo commento, proclamando il giudizio di Dio. Gli effetti sono devastanti per l’uno in quanto se ne ritorna a casa condannato, con due peccati in più, di giudizio e di superbia; mentre l’altro vive un momento di vera e salutare penitenza; Dio gli accorda il perdono per i suoi peccati.
Questo avviene quando il nome di Gesù Cristo diventa il centro di una vita, non si pensi che la sua invocazione sia una via breve che dispensi dalle purificazioni ascetici e da tutti gli altri sforzi. Il nome di Gesù in realtà è uno strumento un filtro attraverso il quale devono passare soltanto i pensieri, gli atti, le parole compatibili con la realtà vivente che esso simbolizza. Una specie di infatuazione della storia ha messo in discussione tutte le istituzioni, ma soltanto il vangelo, divenendo in Cristo annuncio e potenza dello spirito di vita, può guidare verso il superamento della zavorra sociologico per essere in grado di rispondere alla crisi spirituale.
Nell’uomo che torna a casa giustificato possiamo leggervi il cantico di Maria, o “Magnificat” che si concretizza: Il Signore abbassa i superbi, mentre innalza gli umili dalla polvere. Le parole di Gesù rivelano l’agire di Dio. Dio non si compiace dei superbi e li abbassa; dinanzi a Dio non c’è grandezza, non c’è saggezza, non c’è intelligenza; dinanzi a lui deve esserci solo umiltà, conoscenza del proprio essere e delle proprie miserie e debolezze.
Nel momento in cui l’uomo si riconosce quello che realmente è, riconosce anche tutto ciò che Dio ha fatto per lui e quando un uomo dona a Dio tutta la gloria della propria redenzione e salvezza, Dio si compiace e concede la grazia di una più grande misericordia.
L’umiltà è la virtù più cara a Dio, poiché in essa lui è visto per quel che è e per quel che fa; l’uomo è visto per quel che non fa e per quel che si è fatto a causa delle sue molteplici trasgressioni e non osservanze della legge della salvezza. Si china dinanzi alla divina Maestà e chiede quell’ulteriore aiuto, perché possa migliorarsi nella sua condotta di vita, ascendendo verso un più grande compimento della parola di Dio, che in verità è sempre inadeguato.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Innalzo a Dio una preghiera di ringraziamento per tutti i suoi doni?
Riconosco che questa parabola è anche per me?
Mi chiedo ancora: io, rispetto a questa parabola, dove mi colloco? Quale è solitamente il mio atteggiamento verso Dio nella preghiera? Somiglio più al fariseo o al pubblicano?
Rischio a volte di voler accampare particolari meriti per cui Dio deve riconoscermi giusto, come io stesso mi giudico?
Mi rivolgo a Dio con umiltà e fiducia, oppure pretendo la sua grazia senza disponibilità a cambiare la mia vita?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
Il volto del Signore contro i malfattori,
per eliminarne dalla terra il ricordo.
Gridano e il Signore li ascolta,
li libera da tutte le loro angosce.
Il Signore è vicino a chi ha il cuore spezzato,
egli salva gli spiriti affranti.
Il Signore riscatta la vita dei suoi servi;
non sarà condannato chi in lui si rifugia. (Sal 33)
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
In questo momento mi soffermo sui due personaggi: il presuntuoso e l'umile. Mi rendo conto, con l'aiuto dello Spirito Santo, che, se presumo di me, sentendomi “al centro di tutto” arrivo al “disastro” che è disprezzare l'altro, buttarlo fuori dalla mia stima e dal mio amore. Invece se coltivo in me l'umiltà, io opero verità nella mia vita e divento concretamente capace di una relazionalità positiva e buona.



martedì 14 ottobre 2025

LECTIO: XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 18,1-8

 
Invocare
O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la tua Chiesa raccolta in preghiera: fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti che gridano giorno e notte verso di te.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". 4Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
In Luca si trova alla fine di un insieme di brani che trattano un tema comune: la venuta del Figlio dell’uomo, che vengono interrotti dalla domanda del fariseo sulla venuta del Regno di Dio (17,20). Qui Luca compone diverse dichiarazioni singole per una triplice risposta: essa è misteriosa, visibile solo alla fede; arriverà all’improvviso e inaspettata; verrà come risposta di Dio all’incessante chiamata del suo prescelto.
Nel capitolo 18 troviamo Luca che conclude il lungo insegnamento sulla fede, che aveva iniziato nel capitolo precedente con la richiesta dei discepoli a Gesù: “Accresci la nostra fede”.
Questa domenica abbiamo una parabola che, tra gli Evangelisti, troviamo solo in Luca. Il motivo sono i suoi destinatari che si trovano in Asia minore e che in quel momento stavano attraversando un momento molto difficile: la persecuzione. Questi vengono esortati perché, se non pregano, rischiano di cadere nella tentazione di fare del male non solo a se stessi ma anche a coloro che li perseguitano.
La parabola ha la funzione di invitare a mantenersi costanti e fedeli nella preghiera, senza cadere nella tentazione dello sconforto e della demotivazione.
Sullo sfondo abbiamo una persecuzione ai danni dei cristiani. Gli “eletti”, cioè quelli che Dio ha scelto per essere suoi, stanno soffrendo la persecuzione e gridano al Signore perché faccia loro giustizia
Quindi il fine di questo brano è la giustizia e il mezzo è la preghiera, una preghiera al servizio del Regno, che bussa al cuore di Dio insistentemente. Per questo i grandi santi ci hanno testimoniato che le grandi opere si sostengono con la preghiera, e il desiderio del regno di Dio viene alimentato con la preghiera.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai.
Quest’introduzione ha lo scopo di collegare la parabola con la «piccola apocalisse» precedente, suggerendo un comportamento adatto al tempo dell’attesa. Il tema centrale qui non è la preghiera come può far intendere il versetto, ma la richiesta di giustizia. La preghiera è introdotta come terapia per non incattivirsi (l’attuale traduzione riporta “senza stancarsi mai”). Infatti, se di fronte all’ingiustizia smetti di pregare, tu ti incattivisci e finisci per comportarti male. Questa necessità della preghiera senza incattivirsi ricorre spesso nel NT. Per esempio, al cap. 5 della Lettera ai Tessalonicesi è riportato: «non rendete mai a nessuno male per male» (5,15), «non cessate di pregare» (5,17). Anzi san Paolo nella Lettera ai Romani esorta: «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (12,2). Giobbe ricorda che la vita dell’uomo sulla terra è una continua tentazione (Gb 7,1) per questo occorre vigilare e pregare (cf. 1Pt 5,8). La tribolazione non è un dato per continuare a sprofondare in se stessi, ma un tempo propizio per pregare, per intensificare il rapporto con Gesù. Questa necessità è legata al Figlio dell’uomo che bisogna che sia crocifisso. Finché Gesù rimarrà innalzato sulla Croce, sempre il sole dell’amore del Padre splenderà per l’intera umanità. Il Crocifisso è il vero sacramento della nostra rinascita, rigenerazione. È in Lui, con Lui e per Lui che si passa dalla morte alla vita. Chi guarda con fede Lui, il Crocifisso, passa dalla non umanità, dalla disumanità, alla vera sua umanità. In Lui si diviene veri uomini.
vv. 2-3: In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario".
Luca mette sulla bocca di Gesù questa parabola per aiutare a perseverare nel momento della difficoltà e a chiedere con insistenza al Signore che faccia loro giustizia.
La parabola delinea le caratteristiche di due protagonisti: un giudice e una vedova. Il giudice, colui che conosce bene la legge e la applica in modo consono e adeguato alle varie situazioni e che per tutti deve essere una persona retta, onesta. Ebbene qui è descritto in modo breve e incisivo come la figura tipica dell’empio, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo. È un oppressore nel campo della giustizia sociale.
La vedova viene descritta in modo conciso. Nella Bibbia le vedove, insieme agli orfani, rappresentano una categoria indifesa non era considerata, a nessun livello (politico, culturale, sociale, religioso) ed esposta all’oppressione, perché prive di protezione contro gli sfruttatori e i prepotenti (cf. Es 22,21-23; Is 1,17.23; 9,16; Ger 7,6; 22,3). Essa viveva solo grazie al marito, alla sua ombra, ed era vagamente lodata per i suoi figli maschi. Una vedova era considerata meno di zero, non esisteva, non aveva diritti, non aveva alcun valore la sua opinione, scarto della società, la sua vita era considerata inutile, se non anche dannosa.
La protagonista del racconto appartiene a questa categoria, ma non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima; perciò, si rivolge al giudice per avere giustizia.
In questo atteggiamento insistente abbiamo un esercizio a vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i Padri chiamavano «memoria di Dio», di ricordare, cioè, che Dio è costantemente all’opera nella nostra esistenza e nella storia: questo ci condurrà a familiarizzarci con lui fino a discernere come vivere in modo conforme alla sua volontà.
vv. 4-5: Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi".
Il giudice non vuole fare il giudice, non vuole applicare la legge, non vuole interessarsi di un caso per lui totalmente insignificante e rimanda a tempo indeterminato il suo intervento. Ma la donna non si rassegna alla situazione e fa ricorso all’unica arma in suo possesso, l’insistenza.
Il giudice si presenta come una persona cinica alla quale interessa soltanto il proprio interesse e non i bisogni delle persone. Ma all’insistenza della donna cambia pensiero. L’evangelista usa il termine “importunarmi”. È curioso il termine che adopera l’evangelista, che letteralmente è “a farmi un occhio nero”. Fare un occhio nero non significa tanto il ricevere un pugno in un occhio, ma è un’espressione che significava “danneggiare la reputazione”. Alla fine, il giudice, se non altro per liberarsi di tale molestia, cede e fa giustizia alla donna: ciò che prevale in lui non è il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più scocciato dalla vedova.
vv. 6-7: E il Signore soggiunse: Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo?
Qui Gesù propone la sua interpretazione della parabola. Egli richiama l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, a cui sembrava rimandare l’introduzione, ma piuttosto sul giudice.
Nelle sue parole Gesù esprime il pensiero fondamentale della parabola, facendo la differenza tra il giudice e Dio. Se un giudice disonesto per motivi egoistici acconsente alle richieste insistenti di una vedova, quanto più Dio, che è padre buono, ascolterà le grida di implorazione dei suoi eletti. È l’atteggiamento del giudice il punto sul quale Gesù fa leva per illustrare il comportamento di Dio. Egli esprime il suo punto di vista con una domanda: «Ma Dio non farà giustizia per i suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?».
In base al metodo rabbinico chiamato qal wahomer (ragionamento a fortiori), egli afferma che, se un giudice, per di più empio, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, maggior ragione Dio farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto.
L’espressione «fare giustizia», usata sia per il giudice che per Dio, significa difendere i diritti di una persona, darle ragione, garantirle quello che le spetta. Per gli eletti, anche quando non sono oggetto di persecuzione, ciò significa proclamare pubblicamente, mediante l’attuazione piena del regno, che le loro scelte erano giuste e conformi alla volontà di Dio. Proprio la certezza che ciò avverrà rappresenta il punto saliente della parabola.
C’è ancora una domanda di Gesù: «E tarderà nei loro riguardi?». Egli dice che il tempo dell’attesa sarà breve: Dio farà presto giustizia agli eletti che gridano a lui. Questa idea però non è in sintonia con quanto l’evangelista intende dire nel suo vangelo, e cioè che la venuta finale del regno di Dio non è imminente. Perciò è più conveniente leggere queste parole non come una domanda, ma come una frase concessiva: «Anche se egli ha pazienza con loro».  
La prospettiva del racconto è escatologica: la situazione della vedova rappresenta quella degli eletti della comunità che sono in preda alle tribolazioni degli ultimi tempi, descritte da Luca nel brano precedente. Il termine “eletto” nei Vangeli sinottici viene utilizzato solo per indicare i credenti nel momento della tribolazione e della prova legata ai discorsi apocalittici. L’eletto è colui che sottoposto alla prova è capace di resistere per amore di Cristo. Luca con questa parabola esorta quanti lamentano il “tardare di Dio” a perseverare e a continuare con fiducia a chiedere aiuto a Dio, nonostante possano sperimentare il suo silenzio.
v. 8: Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?
Gesù conclude rassicurando i suoi discepoli: «Dio farà giustizia prontamente», cioè, «improvvisamente». In altre parole, il ritardo della parusia è una realtà con cui bisogna fare i conti, nella certezza che Dio, dopo aver lungamente pazientato, interverrà quando meno gli uomini se lo aspettano e farà giustizia ai suoi eletti.
Luca non fa altro che dire che l’intervento di Dio non è solamente sicuro, ma accadrà prontamente. Certo la sua prontezza non è legata alla “bacchetta magica” che andiamo cercando. La parte finale del v. 8 che chiude con una domanda è una aggiunta posteriore, risponde a tutti noi con lo scopo di farci riflettere sulla perseveranza nella fede. Il ritardo della parusia, l’ostilità e le persecuzioni crescenti avevano provocato un raffreddamento nella fede dei credenti. La comunità deve quindi ritornare a un genuino atteggiamento di vigilanza, perché Gesù al suo ritorno non la trovi impreparata. È necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento.
La preghiera è ciò che mantiene viva la fede del credente nel tempo che lo separa dal ritorno del Figlio dell’uomo ma deve essere costante, insistente, che non si lascia fiaccare da una situazione che potrebbe abbatterci. Fede e preghiera ottengono un orientamento escatologico. Per fede qui si intende l’esistenza del cristiano vissuta nella vigilanza e nella fedeltà, fedeltà al Vangelo che viene mantenuta nel momento della prova e in particolare, quando proviamo il silenzio di Dio. Gesù chiede la costante fiducia in Dio. Bisogna pregare senza stancarsi e la fede è questa preghiera instancabile, è la ricerca, il desiderio continuo di Lui.
Non è strano che Gesù termina la parabola domandandosi se quando tornerà incontrerà tra i suoi la fede. Nel Cantico dei Cantici l'amato rivolgendosi all'amata dice: «Alzati amica mia, mia bella, e vieni presto!» (Ct 2,13). L'amore desidera essere desiderato. Dio desidera trovarci! Se perdiamo la fiducia in Dio solo perché non da risposta senza farci attendere, abbiamo perso la fede in lui e la sicurezza di contare un giorno sulle sue attenzioni.
Riponiamo la nostra fede in lui. Crescere nella relazione con Lui è una fede piena d’amore e che fa sì che possiamo amare come siamo amati. Allora la nostra preghiera sarà legata all’amore, condividendone i tempi, le attese, le trasformazioni, perché pregare è amare, è desiderio profondo, è tendere con tutto il proprio essere verso un incontro sperato aspirando a una comunione con Dio che non conoscerà mai fine.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Avverto Dio come un Padre che si prede cura anche di me?
Nei momenti di difficoltà con quanta convinzione e pazienza lo invoco?
Pregare sempre: come attuo questo comandamento nella mia vita? Come vivo la mia preghiera?
Quali fatiche provo e quali attenzioni “metto in campo” per superarle?
Quando il Figlio di Dio verrà, mi troverà addormentato, avvilito, riunito in seduta permanente, oppure sveglio, attivo e vigilante?
Riesco a pensare alla mia vita cristiana come relazione con Gesù e che mi porterà all’incontro finale con Lui?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra.
 
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele.
 
Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
 
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. (Sal 120).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Accogliamo dentro il nostro cuore il sano rimprovero di Gesù, il suo sano realismo, la sua sconcertante provocazione. Conserviamo la fede nelle avversità, non demordiamo, non molliamo, ma continuiamo con costanza la disarmata e disarmante battaglia del Regno. Amen.