domenica 7 settembre 2025

LECTIO: ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (Anno C)

Lectio divina su Gv 3,13-17
 

Invocare
O Padre, che hai voluto salvare gli uomini con la croce del tuo Figlio unigenito, concedi a noi, che abbiamo conosciuto in terra il suo mistero, di ottenere in cielo i frutti della sua redenzione.
Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
16Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
 
Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato
 
Dentro il Testo
Il cap. 3 del Vangelo di Giovanni si apre con l’incontro tra Gesù e Nicodemo, un incontro fatto di notte dove Nicodemo cerca di capire la persona di Gesù e il suo insegnamento. Tra i due nasce un profondo dialogo. Nicodemo è avanti negli anni e con Gesù trova una seconda nascita, anche se all’inizio è stato difficile comprendere che bisognava nascere da acqua e spirito, nascere dall’alto. Gesù rivela al Rabbì di Israele i misteri del Regno, le “cose del cielo”. E questo Gesù lo può fare perché Egli è disceso dal Cielo e dice ciò che sa. Per parlare di queste “cose celesti” fa un paragone tra l’episodio del serpente nel deserto e il Figlio dell’uomo, che sarà innalzato perché chi crede possa avere la vita. Anticipa in questo modo il senso della sua crocifissione (essere innalzato) e della sua morte. Per comprenderla, dice Gesù: dovete ricordare la storia di Israele che nel deserto ha perso la fiducia nel suo Dio, si è sentito abbandonato, ma quando ha sperimentato l’angoscia della morte è ritornato a Dio e Dio gli è venuto incontro.
Nicodemo dalle tenebre della notte si incammina verso Gesù, verso la pienezza della luce e della verità e da lui riceve come nascere dall’alto, come si ha la pienezza della vita.
Gesù fa capire a Nicodemo che uno nasce e vive veramente quando si sente amato e ama. Per questo ciò che ci fa nascere è l’amore e l’evangelista Giovanni presentando il mistero della Croce del Signore, cioè la sua esaltazione, ci parla dell’amore incredibile di Dio per ciascuno di noi.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 13: Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo.
L’origine di Gesù è il Padre, Dio; egli proviene in una maniera totalmente diversa da qualsiasi inviato che l’ha preceduto, di conseguenza ora Egli è il tramite indispensabile per accedere al mistero di Dio. Questo presuppone l’incapacità da parte dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio perché non ha la possibilità di salire al cielo (cf. Pr 30,4). Questo è possibile solo al «Figlio dell’uomo». Al termine del Prologo, l’evangelista Giovanni indica l’origine celeste di Gesù quando afferma che «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
L’opera di Dio in Gesù non ha tuttavia solo una finalità conoscitiva: essa è in grado di realizzare un’autentica trasformazione dell’essere umano, perché lo guarisce dalla sua distanza da Dio e lo rimette di nuovo in comunione con lui. Possiamo cogliere da queste parole che il Figlio è in grado di parlarci delle realtà celesti, in quanto Egli è disceso dal cielo, ed è capace di schiudere le cose divine.
Ogni accessibilità che Dio ci concede è resa possibile dal mistero dell’incarnazione, dal suo farsi carne.
vv. 14-15: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Nel significato biblico originale il serpente innalzato rappresentava il segno del perdono di Dio che ridona la comunione e quindi la vita a chi, dopo la ribellione, si pentiva e si rivolgeva con fiducia al Signore (cf. Nm 21,4-9; Sap 16,5-7). La ribellione porta morte; tornare ad obbedire al Signore avendo fiducia in Lui come liberatore ridona la vita.
Giovanni usa il verbo “innalzare” che viene applicato sia al serpente che al Figlio dell’uomo. Nel primo caso richiama l’atto di Mosè, nel secondo l’esperienza del servo di Jahvé narrato da Isaia (cf. Is 52,13). Tutti e due riguardano la guarigione ma solo il secondo riguarda la salvezza, la vittoria sul peccato. Abbiamo così un misterioso simbolo richiamato da Gesù per farci vedere in che modo Egli ci darà la Vita divina, occorre però “volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv 19,37).
La locuzione avverbiale “bisogna”, che ritroviamo nei Sinottici negli annunci della Passione, mette in evidenza la volontà salvifica di Dio, una condizione che Gesù deve compiere: l’innalzamento. Questo vuol dire che la condizione di coloro che “devono” è condizione che li pone in grado di aprirsi al mistero stesso di Dio. Coloro per i quali si può dire che “devono”, che “bisogna” sono coloro che sono una cosa sola con il Signore, perché Gesù interpreta la loro condizione come condizione che lui ha avuto davanti a Dio.
L’innalzamento a cui Gesù si riferisce non implica solo la crocifissione: con la croce ha inizio un movimento che porta al definitivo innalzamento, cioè l’ascesa al Padre. La croce di Gesù, allora, non ci ottiene soltanto la remissione dei peccati, ma ci apre la strada per il ritorno alla comunione di vita con Dio. Se, attraverso l’incarnazione, Dio è entrato nel mondo e si è aperto il movimento di discesa di Dio verso l’uomo, ora, con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, si opera il movimento di ascesa verso il Padre: in Gesù è aperta, per l’umanità, la via di ritorno alla comunione con Dio. Attraverso l’innalzamento di Gesù, Dio vuole attirare a sé l’umanità intera.
vv. 16-17: Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  
Secondo la visione della Bibbia c’è all’origine del mondo una benedizione di Dio. Quando Dio ha creato il mondo lo ha anche benedetto e quella benedizione voleva dire approvazione del mondo. Ora, questa benedizione non è stata ritirata, Dio non l’ha tolta nemmeno a causa del peccato: nemmeno la punizione del peccato, nemmeno l’esperienza del diluvio hanno cancellato questa benedizione originaria di Dio nei confronti del mondo e dell’uomo; anzi, la storia la si può descrivere proprio come rinnovato dono di questa benedizione.
Per “mondo” non si deve intendere la creazione buona, santa e bella, ma l’umanità peccatrice, l’umanità ribelle, l’umanità che ha rifiutato Dio. Questo “mondo” che gli era nemico, Dio lo ha amato e lo ha amato in un modo così serio da donare il suo Figlio unigenito.
Il senso di questa donazione è che Dio ha donato sé stesso nel suo Figlio, ha donato la ricchezza della sua vita e del suo amore. In Dio, amare e dare vengono a coincidere. Amare vuol dire dare. Il dare è il modo di essere di Dio. Se per il Figlio dell’uomo “bisogna”, per Dio si tratta di “dare”. Dal dare di Dio si misura il suo amare il mondo. Se consideriamo che il mondo è tutto ciò che si oppone a Dio, allora capiamo bene come, nei confronti di ciò che si oppone a lui, Dio si sia posto come colui che dà e che, nel suo Figlio, “si dà”, cioè, dona se stesso. In questo versetto ci viene dato il contenuto della nostra fede, che è questo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Il credere in lui è il credere all’amore con cui Dio ha amato il mondo. La fede ci porta a credere e a sapere il mondo amato fino al punto che Dio, per esso, ha donato suo Figlio. Il mondo, quindi, non è condannato; per questo mondo Dio non ha esitato a dare il suo Figlio unigenito.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Gesù dice a Nicodemo che la condanna, il giudizio, non rientra in quel momento nella missione del Figlio, ma solo il dono della salvezza destinata a tutti, che nel versetto è indicato dalla parola “mondo”, cioè l’umanità bisognosa di essere salvata. (cf. Gv 12,47; 1Gv 4,8-16). Il tardo giudaismo considerava il Messia come giudice escatologico. Si noti anche la persona del Battista visto come colui che ripulisce l'aia e sfronda gli alberi sterili (Mt 3,10.12). Gesù, secondo Giovanni, aggiunge che il giudizio consiste nel fatto che la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagie (Gv 3,19). Il dono della luce richiede che gli uomini l’accettino perché, in caso contrario, condannano se stessi alla cecità, come effettivamente è capitato con la venuta del Verbo (cf. Gv 1,9-10).
La scelta fondamentale dell'uomo è questa: accettare o rifiutare l'amore del Padre che si è rivelato in Cristo.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Nicodemo era in cerca della verità. Io cosa cerco?
Che cosa significa per me l’esaltazione di Cristo e della sua croce?
La parola “croce” suscita in me pensieri o atteggiamenti negativi o è simbolo di salvezza, redenzione?
Come reagisco nelle circostanze della malattia o della sofferenza?
Cosa sono per me la vita eterna e la salvezza?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Ascolta, popolo mio, la mia legge,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola,
rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.
 
Quando li uccideva, lo cercavano
e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia
e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.
 
Lo lusingavano con la loro bocca,
ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui
e non erano fedeli alla sua alleanza.
 
Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa,
invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira
e non scatenò il suo furore (Sal 77).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Impara a leggere nella tua vita e in quella degli altri i frutti della Croce. “Dobbiamo soffermarci a contemplare questo mistero, farlo penetrare nel nostro spirito, far sì che esso divenga luce interiore e comprensione amorosa del piano di Dio” (Raniero Cantalamessa).



martedì 2 settembre 2025

LECTIO: XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (anno C)

Lectio divina su Lc 14,25-33
 

Invocare
O Dio, tu sai come a stento ci raffiguriamo le cose terrestri, e con quale maggiore fatica possiamo rintracciare quelle del cielo; donaci la sapienza del tuo Spirito, perché da veri discepoli portiamo la nostra croce ogni giorno dietro il Cristo tuo Figlio. Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
25Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro: 26«Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. 27Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. 28Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? 29Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, 30dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro». 31Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? 32Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. 33Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
 
Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato
 
Dentro il Testo
La Parola di Dio di questa XXIII Domenica del Tempo ordinario ci offre, ancora una volta, l'opportunità di riflettere sulla nostra sequela di Cristo, mettendo in evidenza le caratteristiche del vero discepolo di Gesù: amare il Maestro con un legame più forte di quello che ha con la famiglia, accettare – portare - la croce seguendo le orme di chi lo chiama, e valutare bene la propria reale disponibilità.
Il Signore propone ai suoi discepoli una scelta radicale, che supera qualsiasi altro legame, fino a metterli in secondo piano (questo il senso dell'«odiare» usato nei confronti della famiglia). Emerge il rischio della delusione – una dichiarazione di guerra improvvida, o una costruzione avventata – che nasce dall'aver preso la scelta troppo alla leggera, pensando che si è discepoli di Gesù solo perché ci si entusiasmo un poco di fronte alle sue idee.
Con una parabola, Gesù esorta ad aprire bene gli occhi e a misurare attentamente le proprie forze prima di mettersi con Lui. Non nasconde, ovviamente, la sua ferma convinzione che il calcolo più saggio, anzi l'unico calcolo da fare, è decidere di seguirlo con la radicalità che Lui si attende.
Con linguaggio tagliente, Gesù, ci traccia l'identikit del cristiano, per il quale il legame con Lui è il valore più grande che ci sia. Un legame di appartenenza totale a Cristo, operata dal battesimo, che a livello esistenziale non può essere vissuta a metà o in parte, ma interamente, con radicalità.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 25: Una folla numerosa andava con lui. Egli si voltò e disse loro…
Gesù è sulla strada per Gerusalemme, il luogo della sua glorificazione che avviene attraverso il dolore e la morte. Ora una «folla numerosa», affascinati dalle sue parole, attirati dai suoi miracoli, lo segue. Perché lo faceva? Che cosa si aspettava? Avevano tutti le idee chiare su Gesù? Da quali motivi erano spinti?
Questi interrogativi riguardano anche noi che, in quanto "cristiani", lo stiamo "seguendo" e siamo pure anche noi una folla numerosa. Ma cosa in realtà andiamo cercando?
Il Signore che sa leggere nei nostri cuori non vuole che le persone si leghino a Lui sull'onda di un entusiasmo superficiale, come stava accadendo ai tempi dell’evangelista Luca, facili poi a stancarsi e quindi a defilarsi e a "piantarlo". Per questo, con estrema chiarezza, volgendo a tutti noi il suo sguardo, rivela le condizioni irrinunciabili per mettersi alla sua sequela.
Questo voltarsi di Gesù verso di noi richiede a nostra volta il tenere vivo il confronto “faccia a faccia” con il suo volto perché la direzione che Egli sta imprimendo al suo cammino è chiara: ha indurito il suo volto prendendo la ferma decisione di andare a Gerusalemme (cf. Lc 9,51). Ora, se questa è la forza della scelta del Maestro, ogni suo discepolo non potrà avere minore decisione, né altra direzione.
v. 26: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Il versetto si apre con un condizionale che indica, fin da subito, che l'amore di chi segue il Signore non è un amore di possesso, ma di libertà. A differenza di Luca, Matteo ha un linguaggio più duro e deciso: «Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me» (Mt 10,37).
Gesù pone condizioni tali a chi lo segue da far emergere la relazione con Lui come unica ragione, forza e meta dell’andare. Solo la scoperta di Lui come unico amore e come unico tesoro della vita fa di noi suoi discepoli.
La lingua ebraica non possiede il comparativo di maggioranza o di minoranza (amare una cosa più di un'altra, o meno di un'altra); semplifica e riduce tutto ad amare o odiare. Però, il verbo centrale su cui poggia la frase è: se uno non mi “ama di più”. Allora non si tratta di una sottrazione ma di una addizione. Gesù non sottrae amori, aggiunge sempre un “di più”. Sarebbe sbagliato pensare che questo amore per Cristo entri in concorrenza con i vari amori umani: per i genitori, il coniuge, i figli e i fratelli. Cristo non è un "rivale in amore" di nessuno e non è geloso di nessuno. Bisogna essere disposti a odiare perfino la propria vita. Non vuol dire che bisogna considerare la vita disprezzabile. Alla propria vita bisogna volere bene, ma bisogna essere disposti a perderla perché Gesù la perde. Se uno vuole seguire Gesù deve essere disposto a fare come lui stesso ha fatto (cf. Fil 2,5-11), diversamente non sarebbe sequela e il risultato non è una sottrazione ma un potenziamento.
Con l’aggiunta di «non può essere mio discepolo», Gesù sicuramente ferisce ma nello stesso tempo apre gli occhi alla realtà vera e concreta che si ha davanti.
v. 27: Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo.
Ancora una condizione per seguire Gesù: il portare la propria croce dietro a Lui.
Chi veniva crocifisso, doveva trascinare le traverse al luogo dell’esecuzione. Quanto sta dicendo Gesù ai discepoli non riguarda alle difficoltà inevitabili di ogni giorno, dei problemi della famiglia, della fatica o malattia da sopportare con pace. Nel Vangelo “croce” contiene il vertice e il riassunto della vicenda di Gesù, una vicenda da assumere e abbracciare seguendolo fino in fondo, disposti a perdere la vita e l'onore, pronti a qualunque sofferenza per amor suo, in altre parole: amare fino in fondo. Questa allora è l’immagine del “portare la croce”, dove anche il proprio io e la propria vita devono cedere di fronte al legame con Gesù.
L'unico legame che aiuta a seguire Gesù è la croce e Luca insiste su questo valore. Questo simbolo dell'amore che non si tira indietro, capace di essere parola anche quando il mondo mette tutto a tacere con la condanna e la morte.
La croce è il “peso” di essere uomini e cristiani nella storia. Questo peso varia a seconda delle condizioni storiche e può giungere anche al martirio. Rifiutare di portare questo peso significa rifiutare di vivere per Gesù, con Gesù e in Gesù, nella vita eterna (Mt 10,38). Abbiamo un esempio in Simone di Cirene che fu «caricato della croce per portarla dietro a Gesù» (Lc 23,20), è l'immagine del vero discepolo. Questo significa che dobbiamo come Gesù essere pronti a tutto – se è necessario fino al martirio - per realizzare il disegno di Dio; significa che la croce in qualche modo è un passaggio obbligato per la riuscita e la vita, come è avvenuto per Gesù; che le croci e le prove quotidiane devono diventare materia che esprima la nostra sequela di Cristo non a parole ma con i fatti dell'obbedienza. «A tutti poi diceva: Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà» (Lc 9,23-24).  Si può discutere su quale fosse il primitivo senso di queste parole, ma il senso che esse hanno nel Vangelo non è equivoco. La “croce” parla ormai, a un cristiano, col linguaggio chiarissimo della passione di Cristo. Portare la croce vorrà dire tutto questo: accettare la sofferenza, la persecuzione, l’emarginazione, la morte pur di rimanere fedeli al Vangelo, pur di poterlo annunciare con fedeltà.
v. 28: Chi di voi, volendo costruire una torre
Con questo versetto, iniziano due parabole che hanno il sapore di un avvertimento. La prima parabola chiede ai presenti di riflettere e giudicare essi stessi: “chi di voi…” che rimanda non all’entusiasmo o l’innamoramento ma quell’introspezione della propria esistenza nella calma e nel silenzio.
La torre richiama l'esperienza biblica di Babele. Nella costruzione della torre di Babele, troviamo il segno della presunzione umana che pretende di arrivare a Dio solo con i propri mezzi. Gesù usa proprio il simbolo della torre come elevazione dell'uomo verso Dio.
Costruire una torre richiede una spesa non indifferente per chi ha poche risorse. Il buon desiderio di costruire se stessi non è sufficiente per farlo, è necessario sedersi, calcolare le spese, cercare i mezzi per portare il lavoro a compimento. La vita dell'uomo resta incompiuta e insoddisfatta perché tanto il progetto della costruzione è meraviglioso quanto i debiti del cantiere enormi! Un progetto su misura: non saper calcolare ciò che è in nostra capacità di compiere non è la saggezza di chi dopo aver arato attende la pioggia, ma l'incoscienza di chi attende la fioritura e il raccolto da semi gettati tra sassi e rovi, senza fare la fatica di dissodare il terreno.
non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine?  
Il calcolare la spesa è quello stile che si chiama discernimento e capacità di vedere con gli occhi della fede in Dio. L’azione del discernimento, un atto difficile ma assolutamente necessario per percepire la voce del Signore non solo fuori di noi, non soltanto nelle eventuali parole di un padre spirituale, ma nel profondo del nostro cuore, dove Dio ci parla personalmente.
Ecco che il discernimento ti porta a calcolare e costruire sull’umiltà. Tante persone credono che per poter seguire Cristo si debba dire no a ciò che si ha di più caro, come se l'amore di Cristo sia totalitario. L'amore di Dio, invece, è totalizzante, nel senso che una volta che il proprio cuore è nel cuore di Dio, lo si è aperto a quello di Dio la reciproca trasfusione di donazione ha preso avvio.
vv. 29-30: Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro».
Un lavoro incompiuto mette il responsabile in balìa degli scherni altrui e lo rende ridicolo. La derisione degli altri che arriva come grandine sui sentimenti di speranza di chi voleva arrivare in alto con le sue sole forze è il compenso alla propria arroganza vestita di buona volontà. Quante umiliazioni ognuno porta con sé, ma quanto poco frutto da queste esperienze di dolore! Avere le fondamenta e non ultimare la costruzione, serve a ben poco. I desideri che si infrangono qualche volta sono buoni tutori al nostro ingenuo affermarci... ma noi non li comprenderemo finché tentiamo di coprire l'insuccesso e la delusione del risveglio dal mondo fiabesco dei sogni dell'infanzia. Gesù ci chiede di diventare bambini sì, ma un bambino non pretenderà mai di costruire una torre "vera"! Si accontenterà di una piccola torre sulla riva del mare, perché conosce bene le sue capacità.
vv. 31-32: Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace.
Qui inizia la seconda parabola che parla delle modalità di vita, di una battaglia (guerra) che rimanda a saper misurare bene le proprie forze, per vincere quello che è il combattimento spirituale senza tregua, fino all’ultimo. Ogni vera vocazione, infatti, è una battaglia contro il nemico, «il diavolo, che come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8), che ci tenta e vorrebbe farci cadere, spingendoci ad abbandonare la sequela stessa. Qui Gesù svela che la posta in gioco è completamente altro da nostri valori e dalle cose del mondo. Avere questa consapevolezza genera una lotta che solo da essa può scaturire la vera pace e non la falsa pace che nasce dal mondo.
Qui abbiamo la serietà della vocazione cristiana, che come una ambasceria parte dal proprio cuore per arrivare al cuore di Dio: il nostro niente.
v. 33: Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Qui la terza condizione: la rinuncia alla logica del possesso, dell'avere, per entrare nella logica del dono, della gratuità, della libertà. Gesù domanda la libertà di fronte ai beni, la disponibilità a condividerli con chi soffre, la gioia di servirlo in chiunque è bisognoso e umiliato.
La rinuncia del cristiano non è mortificazione fine a se stessa. L'ascesi cristiana è la possibilità di scoprire il nostro essere veri uomini come discepoli di Cristo. È il ricercatore che, trovata la perla vende tutto per poterla tenere per sé. Nel discepolato di Cristo, che sembra essere esigente, troviamo il senso profondo del nostro esistere perché scopriamo in Cristo il nostro unico e vero bene. Possiamo, allora chiederci, quali siano gli strumenti per realizzare questa torre? Certamente non ad avere ma ad amare ogni giorno, tempo che il Signore ci dona con più libertà, con più amore, con più consapevolezza.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
So bene cosa vuol dire essere discepolo Cristo Gesù? Ho coscienza di quale rischio e impegno comporti?
Ho ben presente dove si arriva se prendo sul serio l’andare dietro a Gesù?
Sono convinto che sia necessario arrivare a separarmi da tutto ciò che lega il cuore: affetti ricevuti e donati, la vita stessa, per seguire Gesù?
Prego perché Dio mi doni la Sapienza, oppure uso me stesso come metro di misura?
Porto in me la logica della croce, vale a dire la logica dell'amore gratuito?
Sono convinto che la chiave della sequela sia la povertà del non possedere, ma la beatitudine dell'appartenenza?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Tu fai ritornare l’uomo in polvere,
quando dici: «Ritornate, figli dell’uomo».
Mille anni, ai tuoi occhi,
sono come il giorno di ieri che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
 
Tu li sommergi:
sono come un sogno al mattino,
come l’erba che germoglia;
al mattino fiorisce e germoglia,
alla sera è falciata e secca.
 
Insegnaci a contare i nostri giorni
E acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
 
Saziaci al mattino con il tuo amore:
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda. (Sal 89).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamo che lo Spirito Santo entri nella nostra vita. Chiediamo allo Spirito Santo la lucidità interiore per cogliere i legacci e gli impedimenti dell'ego. Chiamiamo per nome le inutilità che mi ingombrano: siano esse cose o desideri o un mio gestire le relazioni e gli affetti in modo possessivo.


 

martedì 26 agosto 2025

LECTIO: XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 14,1.7-14
 

Invocare
O Dio, che chiami i poveri e i peccatori alla festosa assemblea della nuova alleanza, concedi a noi di onorare la presenza del Signore negli umili e nei sofferenti, per essere accolti alla mensa del tuo regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
Avvenne che 1un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. 7Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: 8«Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, 9e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. 10Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto perché, quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. 11Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». 12Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. 13Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; 14e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Gesù, nella sua itineranza in mezzo alla gente, accettava di buon grado l’ospitalità di chiunque. La sua spiritualità è fondata sull’offerta gratuita del Regno da parte di Dio. Per lui conta soprattutto accostarsi a ogni uomo e donna per comunicargli la bella notizia. Quest’annuncio non richiede la sacralità del culto, ma risuona negli spazi della quotidianità umana per meglio interpellare la coscienza del singolo e aprirla a Dio.
Uno di questi spazi privilegiati da Gesù è la tavola apparecchiata per un pasto conviviale. Per la cultura antica, soprattutto semitica, condividere un pasto, ancor più se in occasioni festose, equivale a sancire una comunione di intenti e di destini. Condividere il pane è simbolo di una condivisione più profonda, quella degli affetti e degli ideali.
La parabola sulla scelta dei posti viene raccontata in giorno di sabato quando ormai Gesù è a Gerusalemme, dove si compirà il mistero pasquale, dove si celebrerà l'Eucarestia della nuova alleanza, a cui segue, poi, l'incontro con il vivente e l'incarico di missione dei discepoli che prolunga quella storica di Gesù.
La luce della Pasqua fa vedere il cammino che il Signore fa percorrere a tutti quelli che sono chiamati a rappresentarlo come servo, diakonos, in mezzo alla comunità, raccolta attorno alla mensa. È il tema lucano della commensalità o convivialità. Per questo le realtà più belle Gesù le ha realizzate, proclamate e insegnate a tavola in una cornice conviviale.
Nel capitolo 14 Luca, con la sua arte di abile narratore, dipinge un quadro, descrivendo due scene: prima l'invito a pranzo in casa di uno dei capi dei farisei, in giorno di festa, sabato (Lc 14, 1-6); poi l'insegnamento con due piccole parabole sul modo di scegliere i posti a tavola e i criteri per fare gli inviti (Lc 14, 7-14). Anche se non è previsto dalla liturgia, abbiamo ancora una scena: la parabola sulla grande cena (Lc 14,15-16), che riguarda ancora il problema degli invitati: chi parteciperà alla mensa del regno? Questa si prepara fin d'ora nel rapporto con un Gesù, che convoca attorno a sé le persone nella comunità-chiesa. In conclusione questo quadro cercherà di raffigurare l’identità del vero discepolo di Gesù nella vita di tutti i giorni.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo.
Il convito è il momento più alto della convivenza umana, è il simbolo della maggiore intimità che questa convivenza può raggiungere.
In questo versetto – dalla traduzione non appare – abbiamo un semitismo: “per mangiare pane” che ha lo stesso significato di “prendere cibo”. Ciò vuole collegarsi al v. 15: beato chi mangia il pane nel regno di Dio che l’evangelista Luca userà per introdurre la parabola del banchetto messianico.
Gli occhi di tutti sono posati su di lui. I suoi miracoli, i suoi discorsi pungenti, le sue parabole geniali, erano già saltati di bocca in bocca e, se non bastasse, la sua ultima invettiva contro il potere costituito (Lc 13,31-35) aveva fatto del giovane Rabbi di Nazareth uno degli argomenti preferiti nei circoli dei benpensanti.
Apparentemente potrebbe sembrare che le regole offerte da Gesù durante questo pranzo, e proposte attraverso due parabole, siano solo norme di buon comportamento. Invece Gesù mira molto più in alto. Non vuole dare delle regole di buon’educazione, ma regole del Regno di Dio.
Questo banchetto avvenne di sabato ed è l'ultimo sabato menzionato nel vangelo, poi ci sarà il sabato che finirà nel sepolcro. Il sabato è il giorno di Dio, è il giorno del riposo, è il giorno del compimento della creazione, il giorno perfetto. È Dio stesso il sabato.
vv. 7-9: Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti…
Per una lectio approfondita si possono aggiungere i i versetti riguardante l’idropico (2-6), cioè dell’uomo che ha sempre una gran sete, una grande arsura, un gran desiderio di acqua, riempiendosi così di se stesso che messo a confronto con il giusto che ha sempre un gran desiderio di fare il bene, di esser perfetto.
Questo contesto ci dice che Gesù osserva la nostra vita, il nostro modo di vivere, di fare, di scegliere. È quanto vediamo costantemente in tutte le nostre relazioni, nella società; ognuno ama il primo posto, magari per essere servito prima e meglio o essere vicino a persone di una certa notorietà.
Luca sottolinea l’invitante e gli invitati pieni di pregiudizi egoistici, banali arrivismi, preoccupazioni gerarchie. L’Evangelista sottolinea l’infelicità nel mondo, perché ognuno cerca l’orgoglio, il potere, il dominare e si litiga per questo e non ci si riesce mai, perché c’è sempre chi vuole stare sopra, non si accontenta mai.
Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te.
Ecco perché Gesù mettendo a nudo, lì su quel banchetto, i sentimenti di tutti li smantella dicendo loro raccontando una parabola: Quando sei chiamato da qualcuno a nozze, non adagiarti sul primo divano ma scegli l’ultimo quello che nessuno vuole.
Gesù mette sotto la lente di ingrandimento l'atteggiamento sicuro e orgoglioso dei farisei, che si credono giusti e si illudono di occupare i primi posti. Sembra che il Vangelo supponga un banchetto dove i posti sono incerti; non si riesce a sapere prima a chi appartenga il posto uno o il posto due. Anzi, l’incertezza è così grande che per essere sicuro di non usurpare un posto che non mi spetta, io dovrei mettermi proprio all’ultimo posto. Perché questo modo di ragionare? Perché qui non si tratta di un banchetto offerto dagli uomini ad altri uomini, qui l’immagine è quella del banchetto di Dio e solo Dio può darmi quella libertà di sedermi all’ultimo posto, in quanto anch’io, come Gesù, sono figlio di Dio.
colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto.
Nel banchetto di Dio non si possono avere pretese e non si possono avere nemmeno dei diritti. Tutto quello che mi viene dato – l’invito a nozze, il posto in cui vengo collocato – tutto quello che mi viene dato è assolutamente gratuito. Lo debbo ricevere come un dono, con riconoscenza, con stupore, con gioia grande. Dobbiamo andare davanti al Signore con l’umiltà di un mendicante che è stato invitato e che riceve gratuitamente e liberamente dal Signore un posto di onore. Chi non vive con onore e rispetto di questo, sarà costretto, con vergogna, a finire all’ultimo posto.
La vergogna è un tema molto caro all’evangelista Luca. Forse nella società odierna è un termine che abbiamo fatto sparire dalla nostra vita o, perché non c’è più il senso dell’onore. Vale più della vita l’onore, ciò significa una vita sensata, perché una vita vergognosa è brutta. Se uno non si sente stimato ha vergogna di sé, è infelice per tutta la vita.
v. 10: Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto perché, quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali.
Gesù capovolge il nostro modo di fare dando una correzione, qualcosa di fondamentale, dice: “quando sei chiamato”. In greco, per “invitare” si utilizza il verbo che significa chiamare (kalein). “Invito” è sinonimo di “chiamata”.
Il versetto non è una norma di galateo; si tratta di una scelta che ha il valore di contestazione per coloro che cercano i primi posti. Per Gesù non si tratta di una semplice norma sapienziale, di una regola del buon vivere; è invece la regola del Regno di Dio e intende descrivere il vero atteggiamento religioso. L’invitato che si mette all’ultimo posto non cerca altro che la gioia del banchetto; gode semplicemente di essere stato invitato e considera questo invito un dono più che un merito. L’umile, che considera ogni bene un dono di Dio, proclama in questo modo la grandezza e la generosità infinita di Dio; ma il superbo, che considera tutto come suo merito, che vede ogni beneficio di Dio come una glorificazione di sé, si appropria ingiustamente della gloria che spetta a Dio solo; perciò, quanto più sei grande tanto più grande è il dono che hai ricevuto e tanto più grande deve diventare la tua umiltà.
Gesù chiede di seguire la via che è la sua: l’ultimo posto è, nel Vangelo, il posto scelto da Gesù: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve”, dirà Gesù durante l’ultima cena, quella cena che diverrà sintesi di una vita intera, la vita di Gesù. Allora si sta all’ultimo posto perché lì c’è Lui, stai con Lui.
L’umiltà è quindi forma autentica della vita; ma l’umiltà non è il deprezzamento di sé, bensì quel modo di pensare di sé che nasce dalla convinzione di non avere in sé il fondamento ultimo della propria vita. Gesù lo dice parlando di quell’invitato che non cerca da sé il primo posto e attende che sia un altro a chiamarlo “a salire più in alto”: un modo inusuale per dire che la vita piena si ottiene per grazia.
Abbiamo qui un riferimento all’Eucarestia. L’Eucaristia è un banchetto, è il banchetto del Signore e a questo banchetto il Signore ci ha invitato. Dovremmo perciò riuscire a vivere la gioia semplicemente di essere invitati, lo stupore e la riconoscenza per questo. E poi non conta, stiamo all’ultimo posto: non è un posto di umiliazione, è un posto d’onore anche quello, perché chiunque tu sia, invitato all’Eucaristia, sei invitato a ricevere il dono della vita del Signore. Vuol dire: il Signore è vissuto ed è morto per te, la sua vita e la sua morte ti vengono donate, regalate in questa Eucaristia. Qui, veramente, ritroviamo il senso di un’esistenza dilatata, arricchita e liberata dall’amore del Signore.
v. 11: Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato.  
Questa è la regola fondamentale della mensa del Regno! Il Regno esige che l’uomo rinunci ad ogni pretesa di salvarsi da solo, coi suoi titoli personali. Il linguaggio usato da Luca “innalzare-esaltare” e “umiliare-abbassare” rimanda alla figura e all’esperienza del Cristo così come ce lo descrive san Paolo: «Cristo umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,6-11); ed è questa la gloria che conta, quella vera che non tramonta; ma è la gloria che, necessariamente, passa per la via dolorosa dell'umiliazione e della croce. Ecco allora profilarsi il volto del vero umile glorificato, il Cristo, che diventa modello per tutta la comunità dei discepoli. Il messaggio ha come sua radice l’imitazione di Cristo.
Questo è lo stile di Dio: l’amore: ultimo, servo, modesto, umile, dà la vita. Non esiste la gloria per qualcuno, perché il primo è sempre Dio. Noi, stando con lui riceveremo quella gloria, cioè Lui stesso. Invece innalzarsi per poi umiliarsi significa gettare la propria vita nel non senso, nella spazzatura, nella morte.
v. 12: Disse poi a colui che l’aveva invitato: Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio.
Gesù, dopo aver parlato a quelli che cercavano i primi posti in quel convito sabatico, ora si rivolge proprio “a colui, il fariseo, che l’aveva invitato” esortandolo a rifuggire dalla logica del “do ut des” alla quale non solo lui, ma tutti i presenti, oltre a chi aveva alte cariche, erano abituati. In altre parole, Gesù dice che puoi impostare i rapporti con gli altri secondo la logica del dono o secondo la logica dello scambio. E dice: quando inviti scegli gli ultimi, non scegliere i primi, i tuoi amici, i tuoi fratelli, i parenti. Invita chi non ha da contraccambiare! Certo, la logica dello scambio non è cattiva, ma è conclusa in sé stessa: io ti faccio un dono e ricevo da te un dono corrispondente. Ma c’è un altro modo d’impostare le cose: quello di dare gratuitamente, senza aspettare un contraccambio. Dio stesso prende su di sé il debito del povero che tu hai beneficiato e tu vieni a trovarti in credito nei confronti di Dio: «riceverai la tua ricompensa, alla risurrezione dei giusti» (Lc 14,14). Fa parte della tradizione biblica la convinzione che «chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore» (Pr 19,17). E anche questa affermazione trova un’eco nella prima lettura: «L’acqua spegne un fuoco acceso, l’elemosina espia i peccati» (Sir 3,29). Il peccato è un debito verso Dio; l’elemosina lo estingue pagando l’ammontare al povero.
Cristo ci ha amati di un amore gratuito. «Ci ha amati» (Rm 8,37), per farci scoprire che da questo amore nulla «potrà mai separarci» (Rm 8,39). Non ci ha amati di un amore interessato, semmai interessante. Il Suo Amore, infatti, è pieno di interesse, di passione, di donazione, ma è completamente vuoto di interessi. In Gesù «abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1Gv 4,16).
vv. 13-14: Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Cambia il linguaggio: se prima si parlava di pranzo o cena adesso si parla di banchetto in riferimento a quello del Regno. Ed è la finale di questa parola di salvezza. Gesù invita a scegliere la gratuità invece del calcolo opportunistico che cerca di ottenere una ricompensa, che cerca l’interesse e che cerca di arricchirsi di più. Infatti, i poveri, i semplici, quelli che non contano, non potranno mai ricambiare un invito a mensa. Ecco perché troviamo questo riferimento dell’Evangelista al discorso della pianura (Lc 6,20), dove sono state proclamate le beatitudini. Ora sembra riprendere quell’elenco iniziando dai poveri, destinatari della beatitudine: «Beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio». Nell'elenco degli invitati i poveri sono precisati come i menomati fisicamente, gli handicappati, esclusi dalle confraternite farisaiche e dal rituale del tempio (cf. 2Sam 5,8; Lv 21, 18). Questo stesso elenco si ritrova nella parabola della grande cena: poveri, storpi, ciechi e zoppi prendono il posto degli invitati di riguardo (Lc 14, 21).
L’Evangelista indirizza questo messaggio a quelle comunità che sognano un luogo di ospitalità per tutti gli esclusi. Discorso che Gesù stesso ha fatto: «Se amate quelli che vi amano, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori amano quelli che li amano. E se fate del bene a coloro che fanno del bene a voi, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori fanno lo stesso. E se prestate a coloro da cui sperate ricevere, quale gratitudine vi è dovuta? Anche i peccatori concedono prestiti ai peccatori per riceverne altrettanto. Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperarne nulla, e la vostra ricompensa sarà grande e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi» (Lc 6,32-35).
Che cos’è la ricompensa di cui si parla? Qualcosa di adatto alla propria persona, infatti ogni nostra azione ne possiede una, sia nel bene che nel male.
Qui viene indicata una ricompensa dei giusti alla risurrezione (cf. Gv 5,29; At 24,15). Per Gesù chi sono i giusti? Coloro che ascoltano la Parola di Dio e la vivono ogni giorno. E questa Parola è per tutti. Soprattutto per coloro che cercano di arricchirsi davanti a Dio facendo del bene e attendono con umiltà, con gioia il giorno in cui vedranno faccia a faccia il Signore. Questo ha insegnato il Signore al giusto (cf. Sap 12,19).
In questa certezza la forza di andare contro corrente e la capacità di compiere il cammino non ripiegati su se stessi ma facendosi compagno di viaggio dei poveri, dei ciechi, di chi vive la sofferenza e la difficoltà. In altre parole, si è chiamati ad essere come Dio, che non cerca contraccambio, che ama perché ama gratuitamente, perché l’amore per contraccambio non è amore, ma è sfruttamento.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Seguo lo stile del mondo, lottando per essere primo in ogni cosa rendendo impossibile la festa della vita?
Umile e aperto a tutti, soprattutto agli ultimi; è lo stile di Dio. È anche il mio stile?
Con quali sentimenti vivo le mie relazioni con il prossimo nella vita di tutti i giorni?
Lo stile a cui Dio mi invita, mi mette in discussione, mi sta chiedendo di cambiare qualcosa nella mia vita?
Mi presento a Dio con cuore puro, che mi apre; o con l'orgoglio che chiude in me stesso?
Ogni sera “conto” gli atti di amore che ho fatto durante la giornata?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
I giusti si rallegrano,
esultano davanti a Dio
e cantano di gioia.
Cantate a Dio, inneggiate al suo nome:
Signore è il suo nome.
 
Padre degli orfani e difensore delle vedove
è Dio nella sua santa dimora.
A chi è solo, Dio fa abitare una casa,
fa uscire con gioia i prigionieri.
 
Pioggia abbondante hai riversato, o Dio,
la tua esausta eredità tu hai consolidato
e in essa ha abitato il tuo popolo,
in quella che, nella tua bontà,
hai reso sicura per il povero, o Dio. (Sal 67).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
“Chi nella sua vita ha provato una volta la misericordia di Dio, non desidera che servire. Non lo attira più l’alto trono del giudice; egli vuole vivere in basso con i miseri e gli umili, perché Dio lo ha trovato lì in basso” (Dietrich Bonhoeffer). Al banchetto del Regno ciò che conta è l’amore. Su questo saremo giudicati.
 
 

martedì 19 agosto 2025

LECTIO: XXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 13,22-30

 
Invocare
O Padre, che inviti tutti gli uomini al banchetto pasquale della vita nuova, concedi a noi di crescere nel tuo amore passando per la porta stretta della croce, perché, uniti al sacrificio del tuo Figlio, gustiamo il frutto della libertà vera. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
In quel tempo, Gesù 22passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme. 23Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?». Disse loro: 24«Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno. 25Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”. 26Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. 27Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. 28Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori. 29Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio. 30Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Il Vangelo di Luca, di questa domenica, ci fa domandare a Gesù: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
Luca approfitta di uno scenario: un Gesù di passaggio, un Gesù che insegna sempre, una domanda profondamente “religiosa” per unire tre sentenze di Gesù sull’entrata nel regno (Lc 13,24.25-29.30).
L'opinione corrente, in verità, si basava sulla convinzione che bastasse appartenere al popolo eletto per partecipare al regno futuro. Una convinzione che arriva anche in mezzo a noi. Questa domanda, invece, sembra suggerire che non basta appartenere al popolo eletto per ottenere la salvezza. Gesù non risponde e va oltre e risponde con un’immagine più accessibile: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno».
Gesù sottolinea che la porta è stretta ed è aperta, ma che il tempo si è fatto breve e sta per essere chiusa. Bisogna perciò entrare, perché il padrone di casa «si alzerà e chiuderà la porta». E se si resta fuori, magari perché si indugia troppo nelle proprie cose, non è più sufficiente mettersi a bussare ripetutamente, vantando appartenenze, consuetudini, e persino meriti. Il padrone non aprirà. Ecco, perciò, la questione centrale posta da Gesù attraverso l'immagine della porta: è urgente accogliere il Vangelo.
La predicazione del messaggio di Gesù offre a tutti gli uomini la salvezza: tutti sono chiamati, nessuno è escluso. Ma quanti in realtà si salveranno? Gesù ci prende in contropiede e risponde alla nostra curiosità avvertendoci che salvarsi è cosa ardua. È impegno che coinvolge tutto l’uomo e che si svolge nel tempo.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 22: Gesù passava insegnando per città e villaggi, mentre era in cammino verso Gerusalemme.
Il camminare di Gesù è il cammino della vita, ed ha un solo obiettivo: Gerusalemme, si dirige verso la città che uccide i profeti, verso la sua “ora” con una forza e una libertà inimmaginabile.
Andando a Gerusalemme incontra tutti i perduti, tutti quelli che scendono da Gerusalemme; lui è il samaritano che fa il cammino opposto per ricondurre tutti al Padre.
In questo viaggio di Gesù non vi è nessuna cattedra, nessuna altezza, ma solo la semplicità di un uomo che cammina verso la sua meta e strada facendo lascia di sé qualcosa di prezioso che può essere utile per altri.
Questo versetto introduce una nuova sezione del “grande viaggio” (Lc 13,22-17,10). In esso contiene due elementi che illuminano la nostra vita.
Da una parte incontriamo Gesù che continua a portare instancabilmente la sua parola di salvezza (At 13,26); d’altra parte tale messaggio contiene questo elemento fondamentale: lo “scandalo della croce” (1Cor 1,23) che qui viene espresso nel “cammino verso Gerusalemme”, il luogo della croce.
C’è un intreccio tra l’umano e il divino. La strada è la stessa, ma con una differenza: l’uomo scende da Gerusalemme, Dio vi sale e vi porta chiunque incontra nel suo cammino (cf. 1Tm 2,4).
v. 23: Un tale gli chiese: «Signore, sono pochi quelli che si salvano?».
C’è un anonimo, un tale, che fa una domanda particolare. Non è la prima volta che nei Vangeli si incontra un anonimo, esso può essere chiunque e anche tutti. A questa domanda, che nasce da pura curiosità, Gesù non dà una risposta diretta, ma se ne serve per richiamare gli impegni seri che l’annuncio evangelico comporta.
La domanda riguarda la salvezza. Chi è chi si salva? Quanti se ne salvano? Per chi e per cosa si salvano?
L’uomo nel suo profondo vuole essere salvato da tante cose, a iniziare dalla malattia, dalle miserie, dalle cattive relazioni, dalle ingiustizie, dalle guerre, dal male, dal peccato, dalla morte. Però in realtà perché desideriamo la salvezza?
Dio dà a tutti la grazia sufficiente per la salvezza. Dipende dalla libertà dell'uomo accoglierla e renderla efficace. «Così dice il Signore: Io verrò a radunare tutti i popoli e tutte le lingue; essi verranno e vedranno la mia gloria» (Is 66,18b). Il profeta destina la salvezza a tutti i popoli e non solo agli israeliti (Is 25,6), espressione ripresa nel Libro dell’Apocalisse nel simbolo dei 144.000 (Ap 7,4).
Qui troviamo più una responsabilità che una sicurezza in cui rifugiarsi. Infatti, Gesù non risponde alla domanda posta male e che si può tradurre fuorviante. Non entra in speculazioni sulla fine del mondo e sulla salvezza eterna, gli preme chiarire come si entra nel regno di Dio, che la salvezza è un dono e per chi vuole seguirlo, come mantenere il discepolato.
v. 24: Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno.
Gesù non risponde direttamente alla domanda circa il numero dei salvati, risponde invece con un imperativo: “sforzatevi” (dalla radice greca “agone” rimanda al concetto di “lotta” e “fatica”) termine che ordina di continuare un’azione già iniziata; come a dire: “continuate a lottare”. Esprime infatti l’idea di lotta e richiede l’impegno di tutte le forze per resistere al maligno e nell’arrendersi a Dio, esattamente come farà Gesù nell’orto del Getsemani quando, entrato in agonia, pregava più intensamente.
L'immagine della porta stretta indica che la salvezza è uno sforzo difficile e richiede il massimo impegno: «Il Regno dei cieli - dice Gesù - soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Ognuno può mettere la sua buona volontà per entrarci ma non deve sbagliare modo. Perché non entra chi lo desidera, ma chi è riconosciuto ed accolto dal suo Signore. Qui ricordiamo come esempio la parabola del fariseo e del pubblicano al tempio (Lc 18,10-14). Il fariseo che conduce una vita impeccabile ed esemplare, digiuna due volte alla settimana, non è ladro, né adultero, eppure non entra. In lui ci sta la presunzione di poter entrare nel Regno di Dio. Chi deve entrare per la porta stretta non deve contare su stesso, sui propri meriti ma deve farsi piccolo, come il pubblicano. Gesù dice che non si può essere discepoli se non si rinuncia ad essere grandi, se non ci si fa piccoli e servi di tutti.
La porta stretta è la disposizione interiore del piccolo, qualunque pratica religiosa esegua – preghiere, catechesi, prediche, devozioni, persino miracoli (Mt 7,22) – non entra nel regno di Dio. Per riuscirsi bisogna guardare a Lui - ci dice la Lettera agli Ebrei: «Corriamo anche noi con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della fede. Egli in cambio della gioia che gli era posta innanzi, si sottopose alla croce, disprezzando l'ignominia, e si è assiso alla destra del trono di Dio. Pensate attentamente a colui che ha sopportato contro di sè una così grande ostilità dei peccatori, perché non vi stanchiate perdendovi d'animo. Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato!» (Eb 12,1-4).
La Porta stretta è lo strumento per uscire da una vita senza amore, senza Dio. La Porta è Gesù che ci insegna un amore senza confini, verso il perdono e la misericordia.
v. 25: Quando il padrone di casa si alzerà e chiuderà la porta, voi, rimasti fuori, comincerete a bussare alla porta, dicendo: “Signore, aprici!”. Ma egli vi risponderà: “Non so di dove siete”.
Con questo versetto, che riprende la parabola delle dieci vergini di Mt 25,10-12, Gesù aggiunge un’altra esigenza. Riporta la situazione di ogni uomo fuori dalla salvezza che grida: “Signore, aprici!”.
In questa parabola, abbiamo “un padrone”, cioè Dio, che organizza il banchetto del Regno. Abbiamo anche chi rimane fuori. Chi sono? Sono coloro che hanno conosciuto bene Gesù. Lo hanno ascoltato, con lui hanno mangiato il pane (Eucarestia). Non sono dunque dei pagani, sono membri della comunità cristiana, sono dei battezzati. Sono persone che basta fare alcune cose, si sentono con le carte in regola per poter entrare al banchetto del Regno.
L’evangelista Luca sottolinea quelli “rimasti fuori”. In Mt 7,22 questi sono i cattivi cristiani, Per Luca invece sono i contemporanei di Gesù, che hanno disatteso il suo invito alla conversione e hanno opposto al netto rifiuto la sua proposta di salvezza. Ciò non toglie, che questa Parola è rivolta a tutti. Se la fede è vissuta con esteriorità, senza che la vicinanza alle cose di Dio riesca davvero a raggiungere il cuore, dove matura la giustizia delle nostre azioni agli occhi di Dio, per una vita intera resteremo “operatori di iniquità” e quindi, respinte perché la conoscenza della proposta evangelica non basta, è necessario aderirvi se no resteremo ultimi.  
vv. 26-28: Allora comincerete a dire: “Abbiamo mangiato e bevuto in tua presenza e tu hai insegnato nelle nostre piazze”. Ma egli vi dichiarerà: “Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!”. Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori.
In questi versetti vi è la severa condanna per i cristiani tiepidi. Certamente non va inteso come un rifiuto definitivo. Ricorda certamente che la salvezza non è per appartenenza culturale, religiosa, etnica. Di più! Potremmo anche essere stati suoi commensali, suoi predicatori e sentirci dire: non so di dove siete!
In questi versetti, l’insegnamento che viene messo in risalto richiama a Lc 8,21; 11,28: non importa quanto si conosca personalmente il Gesù terreno, quello che vale è il seguire Gesù “passando dalla porta stretta”. Perché Lui è del Cielo, e noi, nonostante tutto, continuiamo ad essere radicalmente “mondani”.
Questa è la conseguenza: pianto e stridore di denti. Un'espressione che indica il rimorso, la disperazione, la delusione cocente di chi riconosce, troppo tardi, d'aver perduto per colpa propria l'unico bene che lo avrebbe fatto felice. E non basta essere figli di Abramo, Isacco e Giacobbe. Non basta essere cristiani che vanno a Messa, consacrarsi al Signore, se non viviamo il nostro battesimo, se non viviamo quanto professiamo.
Nel cammino verso la salvezza non ci sono privilegi o corsie preferenziali. La salvezza è un dono, a cui non si ha diritto. Un dono che si riceve con gratitudine e con un'accoglienza libera e responsabile. Ciò significa il coraggio di lottare, di impegnarsi al massimo per "entrare attraverso la porta stretta". Significa andare contro corrente, alleggerirsi di tutto ciò che ingombra, diventare piccoli. Lo sforzo è la via verso la gioia.
Il lasciarsi andare, l'adagiarsi senza sforzo è la via verso il fallimento e la disperazione.
I criteri di Dio, quindi, sono diversi da come si possa pensare – ricorda Gesù rivolgendosi agli uomini del suo tempo e a noi – e dunque non perdetevi in questioni secondarie, non giudicate la situazione degli altri (saranno ammessi? Saranno esclusi?): datevi da fare per voi stessi.
v. 29: Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio.
Nei testi ebraici quest’espressione è spesso associata al ritorno in patria degli ebrei della diaspora ed è riferita rispettivamente a Babilonia e all’Egitto. Non si riscontrano invece esempi in cui la stessa frase prefiguri il pellegrinaggio escatologico dei pagani. Questo significa che il ritorno non è un ritorno qualsiasi, ma è un ritorno frutto della misericordia, è un ritorno frutto delle grandi opere che il Signore ha compiuto.
I cristiani sono coloro che sanno leggere questi avvenimenti come avvenimenti che possono realizzare l’ingresso nella comunione con il Padre attraverso Cristo.
Parlando di porta stretta si può pensare ad una restrizione... c'è un numero limitato di persone che può passare di lì, e invece sia il profeta Isaia che l'evangelista Luca dilatano a dismisura: Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno... La porta stretta non è una porta per pochi perché il raduno, al contrario, è grande. Gesù è la porta fatta su misura, lui è colui attraverso il quale abbiamo accesso alla realtà del regno, è colui attraverso il quale abbiamo accesso al Padre.
La realtà della vita cristiana è l'avere accesso al Padre per mezzo del Cristo. Anche il Cristo è passato attraverso la porta della sua umanità, attraverso la porta dell'incarnazione, una porta che lui ha sfondato e ha aperto con la sua piccolezza, con la sua povertà. Questo gli ha permesso il suo accesso al cuore del Padre.
A conclusione di una parabola tremenda, un giorno Gesù ebbe a dire a quanti l'avevano rifiutato, lui «pietra scartata dai costruttori e divenuta pietra angolare: Il regno di Dio sarà tolto a voi e sarà dato ad un popolo che lo farà fruttificare» (Mt 21,43). Sarà la sorpresa sconsolata d'aver sbagliato tutto nella vita, e d'aver perso le occasioni di Dio: «Quando mai, Signore, ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno questi al supplizio eterno» (Mt 25, 44-46).
Certo il Signore non sta a spaventare minacciando l’inferno, ma richiama quella vita tiepida, incoerente, ipocrita. In Ap 3,14-21, il Signore descrive l'atteggiamento del cuore “tiepido”, in questo caso di coloro che facevano parte della chiesa di Laodicea, un atteggiamento manifestato dalle loro azioni. I Laodicesi non erano né freddi né caldi in relazione a Dio, ma solo tiepidi. Il Signore li vede e dice loro: «Non sai invece di essere disgraziato, miserabile, povero, cieco e nudo» (Ap 3,17). Un atteggiamento autosufficiente e una fede tiepida sono pericoli costanti quando si vive nell'agio e nella prosperità.
v. 30: Ed ecco, vi sono ultimi che saranno primi, e vi sono primi che saranno ultimi.
Luca, a differenza di Matteo che conclude in modo cupo e minaccioso: «i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,12), chiude la parabola con una scena diversa: ultimi che saranno primi e primi che saranno ultimi.  
L’evangelista Luca e solo lui, ci dice come fare ad entrare nel Regno di Dio: occorre farsi ultimo per sedersi al banchetto festoso preparato da Dio. Davanti a Dio non ci sono priorità, né privilegi. Ognuno di noi è giudicato secondo la propria condotta.
In queste parole troviamo la salvezza che deve essere accolta come dono, come grazia da vivere con uno stile adeguato. In altre parole, davanti a Dio non ci sono priorità né privilegi: ognuno è giudicato secondo la sua condotta (cf. Ez 18).
Questa è la Parola che ci chiama a conversione. Fino a quando penseremo di essere i primi, ci ritroveremo ultimi è fuori. Questa “è la meravigliosa durezza dell'amore che giorno per giorno pare ti strappi la pelle e invece ti regala il Regno” (A. Riboldi).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Mi accorgo del passaggio di Gesù dalla mia vita e di quanto mi lascia?
Quale disponibilità interiore per vivere il messaggio evangelico?
Vivo gesti di accoglienza, di amore oppure sono pieno di me stesso?
Come valuto la mia vita cristiana: dalle preghiere o dalla “porta stretta”?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Genti tutte, lodate il Signore,
popoli tutti, cantate la sua lode.
 
Perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura per sempre. (Sal 116).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
“Conclusione di tutto questo messaggio del vangelo è una sola: sforzatevi di entrare nel regno dei cieli per la porta stretta che è Cristo, il quale ci chiede una vita coerente, santa, giusta, fedele e senza compromessi con il male, lontano dalle ingiustizie, dall'odio, dalle guerre, dalle violenze, ma immersi solo in quell'esperienza continuativa dell'amore redentivo di Cristo che passa attraverso la croce e il dolore, soprattutto attraverso l'amore che si fa dono” (Antonio Rungi).