martedì 15 luglio 2025

LECTIO: XVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 11,1-13

 
Invocare
Rivelaci, o Padre, il mistero della preghiera filiale di Cristo, nostro fratello e salvatore e donaci il tuo Spirito, perché, invocandoti con fiducia e perseveranza, come egli ci ha insegnato, cresciamo nell’esperienza del tuo amore. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli». 2Ed egli disse loro: «Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; 3dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, 4e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione».
5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: "Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli", 7e se quello dall'interno gli risponde: "Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani", 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono. 9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto. 11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare co­se buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La Liturgia della Parola di questa domenica ci fa riflettere sulla preghiera. Il vangelo s'incastona quasi all'inizio della "grande inclusione" di Luca (nella quale il terzo evangelista abbandona la traccia di Marco per seguire una fonte propria). Questa lunga sezione caratteristica del vangelo di Luca (9, 51 – 19, 44) è caratterizzata da un incessante viaggiare di Gesù verso Gerusalemme, a volte con un itinerario impossibile da seguire su una cartina geografica, seguendo un percorso comunque lunghissimo e farraginoso che sembra non raggiungere la meta.
Il viaggio di Gesù ha una portata teologica, con un orientamento preciso: Gerusalemme (cf. Lc 9, 51).
Durante questo viaggio, Gesù si dedica soprattutto all'insegnamento, comportandosi davvero come Dio che "visita" gli uomini (cf. Lc 1,78; 7,16) e, in vista della propria morte ormai imminente, lasciando un testamento ai suoi discepoli, per guidarne l'esistenza nel mondo fino al proprio ritorno definitivo. Anche Gesù, nel vangelo è soprattutto un esempio di preghiera, e la consegna ai discepoli. In quel momento egli non consegna loro solo una formula, ma il segreto stesso della sua vita: potranno e dovranno parlare con Dio come figli al Padre. “Padre” è il cuore della preghiera. La preghiera è il respiro dell’anima. Ed è questo respiro che Gesù consegna ai discepoli.
Pregare, allora, è desiderio di entrare in una vita nuova che sappia fare spazio a Dio, credendo che lo si può lasciar entrare solo là dove ci si trova, dove si vive una vita autentica.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Gesù si trovava in un luogo a pregare; quando ebbe finito, uno dei suoi discepoli gli disse: «Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli».
La richiesta rivolta a Gesù dai discepoli affinché insegni loro a pregare scaturisce dal fatto che essi vedono Gesù stesso che prega. La domanda dei discepoli è legittima in quanto non perché non sanno pregare, ma perché vogliono entrare dentro il mistero della preghiera, dentro quel rapporto intimo col Padre. Vedono Gesù pregare e ogni volta che prega, trasformato. Allora chiedono di imparare a pregare con quella preghiera che caratterizza la spiritualità di Gesù. Pregare, vuol dire: che tu stai davanti a Dio come un figlio di fronte al Padre; che stai davanti a Dio come ci stava Gesù Cristo con il suo atteggiamento, fiducia, obbedienza, abbandono, con quel rapporto di intimità chiamando Dio papà, perché Gesù parlava e pregava così e aveva questo rapporto con Dio.
Il discepolo che partecipa della vita di Gesù deve avere questo nuovo modo di rapportarsi con il Padre. La preghiera è un essere dinanzi a Dio con la stessa intimità di Gesù.
v. 2: Ed egli disse loro: Quando pregate, dite: Padre,
Gesù accoglie la richiesta e subito invita ad entrare nella preghiera fiduciosi, rivolgendosi a Dio chiamandolo Padre. Quest'invocazione appartiene a Gesù stesso. Il NT ci ha infatti lasciato le tracce del suo modo originale di rivolgersi a Dio con il termine aramaico «Abba», “papà”, “babbo” (cf. Mc 14,36; Rm 8,15; Gal 4,6). L'ebraismo utilizzava, e utilizza tutt'ora, il titolo di 'Abinu (“Padre nostro”) o di 'Abi (“Padre mio”) per rivolgersi a Dio, ma non quello di “Abba”. Espressione usata sia dai bambini che dagli adulti per sottolineare essenzialmente l'intimità, la confidenzialità esistente tra un padre e suo figlio.
A differenza di Matteo, Luca non aggiunge l'aggettivo “nostro”, mettendo meno l'accento sull'aspetto comunitario della preghiera cristiana; d'altra parte, il fatto d'invocare lo stesso Padre costituisce il miglior collante dell'unità comunitaria dei discepoli.
Dire “Padre” non significa fare uno sforzo di immaginazione o avere una certa idea di Dio; significa semplicemente entrare nel modo di pregare di Gesù. Infatti, ogni volta che Gesù prega, menziona il Padre (cf. Mt 11,25; Mc 14.36; Lc 23, 34.46; Gv 17).
La diversa versione di Luca e di Matteo ci induce a considerare che il “Padre nostro” non è una formula, perché la preghiera passa attraverso la persona del Cristo e il suo rapporto con il Padre. La preghiera cristiana ci dice che il rapporto con Dio non è una formula. Più che una preghiera, Gesù insegna ai discepoli il suo stesso modo di pregare: è l’atmosfera della preghiera, è l’orizzonte nel quale la preghiera si compie.
sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno
Le prime due domande sulla santificazione del Nome e sulla venuta del Regno sono degli imperativi alla terza persona singolare; non sono quindi ordini dati a Dio, ma piuttosto delle suppliche.
La santificazione del Nome è un concetto eminentemente ebraico: qualifica il martirio con il quale si afferma la priorità di Dio su ogni cosa nella vita del credente, fosse pure sulla propria esistenza; nel martire, il nome di Dio è santificato, perché con la sua morte attesta che per lui Dio è più importante della sua vita e della sua morte. Dire però: "Sia santificato il tuo nome" non è chiedere il martirio, è chiedere piuttosto che Dio sia ritenuto per colui che è, anche se perciò si debba morire. Per questo la Bibbia TOB ha scelto di tradurre questa domanda con: “Fatti riconoscere come Dio”, e poi, nella traduzione del 2010: “Fa' conoscere a tutti chi tu sei”.
La domanda sulla venuta del regno di Dio (cf. v. 2) troverà certamente la sua piena attuazione nell'aldilà, e quest'attesa deve rimanere viva nel cuore di ogni credente; eppure, non si chiede a Dio solo che venga presto il giorno in cui il suo regno si manifesterà pienamente.
Certamente troviamo nell’espressione una dimensione quotidiana della venuta del Regno per quelli che credono. Non si chiede che Dio instauri progressivamente il suo regno, né che la comunità cristiana costruisca sulla terra il regno di Dio, né che la chiesa si espanda e conquisti tutto l'universo, bensì che Dio e il suo Cristo siano davvero quelli che dominano, determinano, orientano e dinamizzano la vita dei credenti.
In pratica, ogni domanda fatta al padre dovrebbe chiudersi con “sia santificato il tuo nome; venga il Regno tuo”.
Quello che chiedo è che io diventi santo, chiedo cioè che il suo nome sia santificato dalla mia vita personale; chiedo che la sua persona sia visibile nella mia personalità, nel mio modo umano di vivere la quotidianità.
v. 3: dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
Dopo l’invocazione al “tu” di Dio, la preghiera continua interessandosi dei bisogni dell'uomo nella sua esistenza attuale. Ciò non è da intendere come se dovessimo metterci a posto con la coscienza, quindi pensare a Dio, e adesso possiamo pensare alle nostre esigenze.
La preghiera cerca sempre il giusto equilibrio, il giusto rapporto con Dio, sotto la sua sovranità, i discepoli sono in grado di mettere la propria esistenza nella logica del Regno di Dio e chiedere di conseguenza.
La prima domanda concerne il pane. Luca lo vuole esprimere letteralmente così: “il pane nostro di oggi di domani”. Espressione rompicapo che vuol dire sia quotidiano che di domani e anche sovra sostanziale, cioè il “pane che sta sopra” o che “sta per venire”, quindi di domani.
Un riferimento alla dimensione trinitaria di Dio: il pane della vita è il Figlio e se nella preghiera chiamiamo Dio Padre il pane è il suo amore, lo Spirito Santo, lo stesso amore tra Padre e Figlio. Questo sarà il dono di oggi e di domani: eterno. Ora questo pane è in tutto ciò che noi viviamo quotidianamente come segno dell’amore di Dio che rinasciamo nell’Eucarestia.
v. 4: e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore,
In questo pane che è amore è presente anche il peccato. Ci sta però un pane ancora più grande: il perdono. Un perdono che non è solo oggi, ma anche domani, sempre.
In Gesù, pane di salvezza, Dio offre a tutti il suo perdono che si fa comunione con il Padre e forza liberatrice che rende l'uomo capace di amare a sua volta gli altri, senza misura.
L’evangelista Matteo ricorda che chi non perdona non sarà perdonato (cf. Mt 18,35). Ciò non vuol dire che il Padre non perdona ma indica semplicemente la nostra scelta: quando non perdono sono io che rifiuto il perdono di Dio, rifiuto Dio come Padre, perché Lui ama l’altro, come figlio, come ama me.
Chiedere allora lo stile di Dio significa adottare il suo amore, il suo comportamento.
e non abbandonarci alla tentazione.
In questo grido di aiuto si chiede di non vivere soli il momento della tentazione. Di quale tentazione parliamo? La grossa tentazione è il non credere all’amore, è il non perdonare. L’unico peccato imperdonabile è il non perdonare, vuol dire che non accetto il perdono, vuol dire che giudico e condanno gli altri, vuol dire che sono l’opposto di Dio.
Con tutta probabilità Gesù aveva in mente le tribolazioni e persecuzioni dei discepoli, una grande prova in cui la fede può crollare (cf. Lc 18,8). Una realtà che appartiene a tutti e con varie manifestazioni. Gesù, dunque, ci chiede di domandare al Padre di aiutarci a non perdere la fede davanti alle tribolazioni e alle fatiche di ogni giorno.
vv. 5-8: Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: "Amico, prestami tre pani, perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli e se quello dall'interno gli risponde: "Non m'importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani",
Da qui inizia l’istruzione sulla preghiera. Essa ripercorre quanto detto prima al v. 3. L’uomo è il discepolo di ogni tempo nel suo bisogno. L’amico è Gesù, pane della vita.
La domanda dell'uomo che a mezzanotte riceve un ospite inatteso riflette il tipico senso di ospitalità dei popoli antichi e la richiesta di "tre pani" si spiega col fatto che quella era la quantità di pane che costituiva il pasto normale di un adulto.
I tre pani sono i tre pani dell’amore. Si sente quel bisogno di sperimentare il Suo amore perché si possa amare l’altro come si è amati da Dio. In questo Suo amore c’è la necessità di sperimentare di vivere la stessa vita di Dio che continuamente si fa pane, vita perché possa dare all’altro l’esperienza di amore che ho.
Questa esperienza va chiesta in maniera invasiva, sfacciata. Dio ama essere disturbato in qualsiasi momento e a insistere presso di lui in ogni modo, con la certezza di essere esauditi.
vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
Dio sembra che appare contento quando siamo sfacciati nei suoi confronti. Siamo “senza faccia”. Anche lui ha perso la faccia per noi e continua a volerci bene e desidera essere cercato, costi quel che costi. San Paolo spiegherà quest’atteggiamento dicendo: «Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5, 17-18); «Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i santi» (Ef 6, 18).
Questo ardore instancabile non può venire che dall'amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è quello dell'amore umile, confidente, perseverante. Questo amore apre i nostri cuori su tre evidenze di fede, luminose e vivificanti. (CCC 1174).
vv. 9-10: Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
La parabola si conclude con un gruppo di detti sulle caratteristiche della preghiera efficace. L'invito a pregare viene formulato con tre immagini di uguale significato e che indicano il desiderio umano: chiedere, cercare, bussare. Sono verbi già usati nell'AT e nel giudaismo per parlare della preghiera. L'immagine del bussare ricorda inoltre il comportamento dell'amico importuno. Vi è una certa continuità letteraria.
In questi verbi troviamo la fiducia nella preghiera. L’evangelista Luca non fa altro che ribadire che la fiducia, basata sulla fede, è la componente indispensabile di ogni preghiera cristiana.
Il cristianesimo è una religione in movimento e anche la sua spiritualità, descritta in questa preghiera, è dinamica, in movimento.
Chiedete un indirizzo e vi sarà dato. Cercate mettendovi in cammino per arrivarci e lo troverete. Bussate alla porta che corrisponde a quell'indirizzo che avete trovato e vi sarà aperto. Essendo espressione di una relazione tra persone, la preghiera è un cammino graduale.
vv. 11-12: Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
In questi versetti troviamo due similitudini per descrivere il comportamento del Padre nei confronti del Figlio e quindi quello di Dio riguardo a ogni discepolo che con fiducia domanda qualcosa. La fiducia in Dio è l'anima della preghiera. Quindi, questa domanda rende implicita la risposta: “nessuno!”. La relazione filiale con Dio è il senso stesso della preghiera. La fiducia in Dio è il modo che ha l’uomo di far proprio il dono di Dio e di viverlo in maniera interpersonale e libera. E d’altra parte la fiducia dell’uomo in Dio, è addirittura una partecipazione alla fedeltà stessa di Dio verso l’uomo.
v. 13: Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!".
Questo versetto, che chiude l’insegnamento sulla preghiera, vuole essere una conclusione di un ragionamento fino adesso fatto.
Anzitutto descrive noi come “cattivi”, cioè, “difettosi”, capaci di sapere dare cose buone, perfette ai propri figli così sarà di Dio Padre. Anzi Egli darà qualcosa di più: sé stesso.
Infatti, Luca si distacca dalla lezione di Matteo e al posto delle “cose buone” mette lo “Spirito Santo”. Anche se può apparire in contrasto con il contenuto dei versetti precedenti, «esattamente questo è la preghiera: la preghiera è l'occasione per Dio di riversare il suo Spirito d'Amore nel tuo cuore... Ogni minuto trascorso in preghiera viene dall'eternità e vi fa ritorno» (Matta El Meskin). Egli, infatti, ci dona la vita divina per cui possiamo chiamarlo davvero “Abbà” e avere quel pane, quell’amore con cui siamo amati e che ci permette di amare gli altri.
In questo dono di sé, lo Spirito Santo, abbiamo ogni bene: terreno e spirituale che ci permette di essere trasparenza di Cristo Gesù. Qui troviamo il frutto della preghiera, dell’Eucarestia che è la preghiera per eccellenza, dove l’uomo può conformare la sua vita nella vita divina.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
La preghiera che valore ha nella mia vita? Quale spazio le dedico?  
Mi lascio attrarre dalla preghiera di Cristo Gesù?
Con quali sentimenti mi rivolgo a Dio nella preghiera: serenità e fiducia o distrazione e indifferenza?
Cosa chiedo quando prego: solo il pane o anche la capacità di perdonare, di fare la volontà di Dio, la gioia di accogliere il suo regno, la disponibilità a manifestare la santità del suo amore?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,
mi prostro verso il tuo tempio santo.
 
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.
Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.
 
Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.
Se cammino in mezzo al pericolo, tu mi ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano.
 
La tua destra mi salva.
Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani. (Sal 137).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamo che lo Spirito Santo illumini la nostra vita. Mettiamoci alla presenza di Dio, non delle nostre idee su Dio; Dio è persona, le idee sono fantasie, per relazionarci col Padre e ricevere il suo amore da donare.
 

lunedì 14 luglio 2025

LECTIO: XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 10,38-42
 

Invocare
Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che ancora risuona nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
38Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Continuiamo il nostro cammino con Gesù verso Gerusalemme. È un viaggio diverso dal nostro; non siamo noi, infatti, a stabilire la meta e neppure l'itinerario. Non siamo noi i maestri e i pastori di noi stessi, come abitualmente siamo spinti a fare. Il cammino da fare è quello del discepolo.
In questo cammino, Gesù passa per un villaggio dove è accolto da Marta e da Maria nella loro casa. Qui abbiamo due modi di accogliere il Signore. Marta si mette a fare tante cose, è tutta turbata, tirata di qua e di là, affannata. Vuole fare tante cose. Per lei la presenza del Signore è fatica, è pena, è lavoro, come tutta la religiosità delle persone buone e giuste che faticano, penano, lavorano. Per Maria la presenza del Signore è gioia, non è né pena, né fatica, né lavoro. La pena e la fatica la fa l’altro, il Signore e lei lo accoglie con gioia.
In questa casa, Gesù mette al primo posto l’atteggiamento di Maria. Questo vuole dire che il primo atteggiamento necessario per il discepolato non è “fare”, ma “ascoltare”. Il discepolato non è il risultato di un nostro sforzo, di un impegno per costruire qualche cosa di grande. Il discepolato è per noi prima di tutto accogliere il Signore nella nostra vita. Accoglierlo come Signore, perché solo in questo modo la nostra vita viene unificata intorno al rapporto e all’obbedienza a Lui.  
In questo viaggio, è il Signore che sta davanti a noi; è lui che guida i nostri passi, perché possiamo raggiungere la statura spirituale alla quale siamo chiamati.
Questo piccolo ma incisivo racconto è proprio del terzo evangelista. Si trova immediatamente dopo quello che abbiamo condiviso la settimana scorsa: il Buon Samaritano.
La correlazione tra i due racconti nel Vangelo di Luca non è casuale. Ha come finalità di presentarci in un “perfetto equilibrio” due realtà basilari della vita del cristiano: l’azione e la contemplazione, la pastorale e la spiritualità, l’impegno e la preghiera. Senza escludersi, ognuno dei racconti, accentua un aspetto. Se rimaniamo con uno solo, il Buon Samaritano o l’atteggiamento di Maria sorella di Marta, potremmo correre il pericolo di limitare o incluso negare qualcuna delle dimensioni della vita del discepolo.
Perciò è importante leggere il racconto odierno alla luce dell’anteriore. Rispettando così il “criterio di unità” di tutta la Scrittura che ci insegna il Concilio Vaticano II per poter interpretare correttamente tutto il testo biblico.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 38: Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa.  
Ci sta una comunità, dei discepoli che insieme a Gesù sono in cammino verso Gerusalemme, un cammino il cui scopo è principalmente lo spargimento del seme della sua Parola, per annunciare la quale non ha esitato a lasciare Cafarnao (cf. Lc 4,43), consapevole che in questa parola c'è più salvezza che nei suoi interventi miracolosi.
L’evangelista Luca non sempre dice dove sta passando Gesù, ma più volte dice che Gesù è in cammino (cf. Lc 9,51.53.57; 10,1.38; 11,1; 13,22.33; 14,25; 17,11; 18,31.35; 19,1.11.28.29.41.45; 20,1).
In questo cammino comunitario, Gesù solo entra in un villaggio anonimo e accoglie l’invito di una donna, Marta (nome che in aramaico significa “signora”). È strano che Gesù si introduca in casa di una donna. Nel versetto seguente le donne sono due e non vi è menzione di uomini della casa, anche se sappiamo che le due sorelle hanno un fratello di nome Lazzaro.
La località non precisata è Betania, nei pressi di Gerusalemme, che in Gv 11,1 viene definita il “villaggio di Maria e di sua sorella Marta”.
Questo suo fermarsi in una casa, fa parte della sua realizzazione della missione: svolgere la sua missione di Servo, annunciata da Isaia (Is 53,2-10; 61,1-2) ed assunta da Gesù a Nazaret (Lc 4,16-21).
C'è un'accoglienza da operare per l'illustre ospite che, dal vangelo di Giovanni, sappiamo essere molto caro alle due donne e al loro fratello.
C'è da rendere il riposo del divino viandante degno, la sua vita di questo giorno più vivibile, lieta, affinché la ripresa della via riesca più facile ed alacre, affinché il suo ministero non risenta troppo della fatica, ma anche perché mantenga un buon ricordo della casa che lo ha accolto, delle persone che ha incontrato.
v. 39: Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta ha una sorella di nome Maria, di cui si dice in Gv 12,1ss che unse i piedi di Gesù sei giorni prima della passione. Ora in lei si manifesta quello che è l’atteggiamento più consono di stare alla presenza di Gesù: si siede ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola. Il sedersi ai piedi di Gesù e ascoltare la sua parola dichiara la volontà di Maria di dare risalto a Gesù stesso. Il sedersi ai piedi e ascoltare la parola sono i gesti del servizio. Maria non fa niente, guarda e ascolta il Signore. Certamente non si può vivere di ascolto, prima o poi dovrà anche alzarsi e servire, ma l’inizio, l’origine, la sorgente, è lì nell’ascolto ai piedi del Signore. Perché l’identità del discepolo è un dono che ci viene fatto da Lui; dalla premura, dall’attenzione, dall’amore con cui ci viene incontro. Ascoltare è la base, l’inizio e il fondamento, e da questa parola deve nascere tutto il resto, tutta la vita cristiana. Nella vita dell’uomo e nella vita del cristiano, ricevere è più radicale che dare. L’uomo è chiamato a dare ma prima deve ricevere. La vita incomincia con il ricevere non con il dare. La vita incomincia con il ricevere quello che vale per la vita fisica umana, perché vale per la vita di fede cristiana. Si tratta di ricevere per dare e di ascoltare per potere dire. È giusto e fondamentale che io dica, ma per dire devo avere ascoltato. Quindi, all’inizio ci sta l’ascolto: una parola di Dio che plasma la comunità cristiana, che le dà i lineamenti fondamentali, la regola di crescita. La comunità cristiana cresce secondo una regola che è scritta nella parola di Dio.
v. 40: Marta invece era distolta per i molti servizi.
Marta è la donna che avvolta da quel vortice di iniziative buone e non sta ad ascoltare la Parola. L’espressione «molti servizi» traduce il termine tecnico greco, che nel vangelo di Luca indica le “faccende domestiche” che “si faceva in due”. Ora questo termine si può leggere sotto l’aspetto comunitario, di un servizio all'interno della Chiesa dove si è presi più dalle iniziative che dall’ascolto della Parola. Possiamo anche vedere nella comunità lucana un darsi da fare per le molte opere, a scapito di un ascolto attento alla Parola.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
Servire è sempre un essere lasciati soli, perché la croce è sempre un essere lasciati soli. Anzi, tanto più si è soli, tanto più si è in comunione. Marta non coglie, nel suo essere lasciata sola, come di fatto il suo servizio è il servizio della croce.
La chiave del discorso non sta tanto nella frase che Gesù dice a Marta, quanto piuttosto a ciò che la provoca. Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciato sola a servire? Perché questa è una frase importante? Gesù non dice: “smettila di servire”. Gesù piuttosto dice: “vivi il servizio come vivi lo stare ai miei piedi”. L’evangelista però sottolinea che Marta questo non lo comprese e la descrive in un’azione di pretesa, di un mettersi al di sopra di tutto: “Allora si fece avanti” .
Questo non è il servizio che ci è chiesto. Il servizio che ci è chiesto è il servizio vissuto come ascolto. Il servizio induce all’ascolto e nasce dall’ascolto. Si tratta di fare tante cose come chi sta ai piedi del Signore. Non si tratta di non fare le cose, ma di fare con quella condizione di chi sta ai piedi, riconoscendo che in ogni servizio la cosa migliore non è quello che facciamo noi, ma è quello che fa lui, cioè l’ascolto di Lui.
v. 41: Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose.
Gesù chiamando per nome Marta, le rivolge un dolce rimprovero (cf. Gen 22,1; At 9,4; 22,7). Ella si distrae e si lascia avvolgere dall’agitazione e dall’affanno. Pur vivendo una diaconia, non la vive bene perché ansiosa, preoccupata dimenticando che anche nella diaconia è importante prima cercare il Regno di Dio, il resto sarà dato in più (cf. Lc 12,31). E Gesù la richiama. Quello di Gesù è un rimprovero soavissimo in cui combattono dolcezza e verità, la dolcezza di ascoltare per ben due volte il proprio nome sulla bocca del Maestro e la verità di sentirsi scrutata, nel profondo del cuore, dal suo sguardo interiore. Un rimprovero per un confronto quasi inevitabile nel consesso umano, tra chi si adopera e chi invece gode nel riposo, tra chi si sforza di servire e chi invece si "perde" nel contemplare, tra chi produce ricchezza e chi invece la consuma così, semplicemente.
Un rimprovero a chi vorrebbe tacciare il Maestro di dimenticanza nei confronti di chi si sta adoperando ed affaticando a fronte di chi, al contrario, sta fruendo della presenza; di chi accoglie preparando, a fronte di chi accoglie raccolta ai piedi.
v. 42: una cosa sola c’è bisogno.
La preoccupazione deve essere solo una: la salvezza. L’unica cosa necessaria è l’amore di Dio per noi, che ci fa essere ciò che siamo. Lui è “amore” e noi “esseri amati”. Nella misura in cui siamo amati possiamo amare e diventiamo uguali a Lui (cf. Gv 3,31-36). Questo ascolto ci fa entrare nella Trinità, nella danza di gioia tra Padre e Figlio. Ciò significa che non bisogna farsi distogliere dalle preoccupazioni terrene. L'ascolto della parola di Dio è il fondamento del comportamento cristiano e diventa la condizione essenziale per ereditare la vita eterna.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.
Maria viene lodata per aver scelto la parte migliore, la parte buona, una metafora per indicare il Signore stesso, che personalmente visita e si rivela nell’intimità. Maria è colei che seduta ai piedi del Dio pellegrino, è tipo di quanti sanno contemperare i “molti servizi” della vita con l’unica cosa di cui c’è bisogno: questa consiste nel non voler precedere il Signore, nell’ascoltare prima di agire, nell’accettare di essere serviti prima di servire.
C’è la definitività di un dono. Questa parte che Maria si è scelta se la dovrà tenere e non le sarà tolta. È una garanzia, ma non necessariamente una garanzia di successo: a volte il Signore diventa ingombrante nella vita. Questa dimensione che Maria vive è la parte di un tutto: Maria si è scelta la parte migliore. Non c’è mai nessuno che, ascoltando o servendo, non sia parte di un tutto che è la Chiesa.
E Marta? Marta non è esclusa dalla salvezza, la sua lode è nel servizio. Gesù, infatti, non condanna il servizio di Marta, che rappresenta il comportamento tipicamente cristiano di cui Gesù stesso ha dato l'esempio (cf. Lc 22,27). Ella, infatti, si rivela come un riflesso di un servizio che solo il Signore Gesù può dare ma tutto in quella misura d’amore che nasce dalla fonte dell’amore. Fuori dall’amore sarà solo affanno, delirio di potenza.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Continuo a camminare, ad andare a vanti, come discepolo di Gesù?
Sono capace di un gesto di ospitalità come quello di Marta che accoglie Gesù nella sua casa?
Che cosa c’è nella mia vita dell’atteggiamento di Maria? Imparo ad essere discepolo del Signore?
Mi concentro tanto nell’attività pastorale da perdere di vista l’ascolto del Maestro e come Marta “Protesto” o “mi sento incomodo” per quello che fanno o dicono i miei fratelli?
Lascio che il Signore mi corregga e mi orienti nel cammino di fede?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
 
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
 
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre. (Sal 14).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
In mezzo alle attività, per importanti che siano, ritagliamoci un tempo per pregare. Anche se sono tempi brevi, che siano profondi per “tagliare” l’attivismo che molte volte può inondare la nostra vita. Sentiamo dentro il nostro cuore le parole di Gesù che continuamente ripete: Il Maestro è qui e ti chiama… Pronunciamola soavemente con le labbra per incontrare Colui che ci cerca e ci chiama per nome.
 


martedì 8 luglio 2025

LECTIO: XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 10,25-37

 
Invocare
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Questa domenica l’evangelista Luca ci racconta un dialogo tra Gesù e un dottore della legge: tema di questo dialogo è l’amore. In realtà, il dialogo inizia con una domanda a Gesù su cosa deve fare per ereditare la vita eterna. Pertanto, al centro del brano evangelico troviamo il verbo amare unito alle due direzioni fondamentali della vita: quella verticale - amare Dio - e quella orizzontale - amare i fratelli -. Qualcuno ha scritto che queste due direzioni ci vengono continuamente richiamate dal legno della Croce: uno posto in orizzontale e l’altro in verticale. Nella sua vita terrena Gesù, infatti, ci ha insegnato ad amare.
Il brano messo alla nostra meditazione è una parabola che spesso ascoltiamo, quella del buon Samaritano. L’evangelista Luca racconta, all’interno di circa dieci capitoli, l’esperienza di Gesù che si dirige a Gerusalemme. Qui vivrà i giorni della sua passione, morte e risurrezione. Gesù, dunque, è in viaggio e lungo il suo cammino racconta questa parabola. In particolare, in Lc 9,51 si dice che Gerusalemme è la città verso la quale Gesù «si diresse decisamente». Gesù inizia a seguire con più decisione e consapevolezza il progetto del Padre e questo chiede anche ai discepoli e a quelli che vogliono “ereditare la vita eterna”.
Il contesto più immediato è quello della missione dei 72 discepoli e del loro ritorno da Gesù (10,1-20) con il canto di lode di Gesù al Padre. All’amore del Padre che scende sulla terra (e ai prodigi che compie nella missione dei discepoli) risponde l’amore dei figli e fratelli che si innalza fino al cielo. 
In questo contesto si innesta la parabola del buon samaritano, sintesi del discorso della pianura: "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (6,36).
La misericordia non ha bisogno di un codice di leggi per manifestarsi; dipende solo dalla sensibilità delle persone in relazione alla vita, soprattutto quella dei bisognosi.
La parabola del buon samaritano “riassume una storia ed un’esperienza di amore infinito, tuttora in atto: la storia di Cristo, che per tutti noi si è fatto Samaritano misericordioso e perdonante (Gv 8,48)” (S. Cipriani).
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 25: Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
C’è un preciso istante della vita, un preciso istante per chiarire ma anche per creare disordine. In questo preciso istante, un dottore della legge, cioè un esperto della Torah e di questioni teologiche mette alla prova Gesù, crea disordine con chi è l’ordine per eccellenza. Qui il verbo usato è “per tentare Gesù”, lo stesso verbo che l’evangelista ha adoperato per le tentazioni di Gesù da parte del diavolo nel deserto.
Davanti abbiamo la parabola della vita. Essa è provocata da questa domanda che viene rivolta a Gesù circa la vita eterna: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
La domanda, pur iniziando in modo ostile nei confronti di Gesù, verte subito sull’esistenza religiosa. Quanti dubbi dietro a questa domanda. L’esperto o chi crede di essere a posto, rivolge la domanda che ogni uomo si pone quando è posto dinanzi al senso del proprio esistere nel mondo: cosa bisogna fare per avere la vita in pienezza? Il suo problema è ereditare la vita, entrare nella vita. Ereditare è il verbo che normalmente viene usato per parlare del rapporto con la terra promessa, la terra nella quale si entra.
Questa domanda sembra cara all’evangelista Luca e alla sua comunità. Infatti, la ritroviamo con il giovane ricco (Lc 18, 18.20). Chissà se è tanto cara a ciascuno di noi?
vv. 26-28: Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
Gesù mostra apprezzamento nei confronti del dottore della legge, e questo è importante. Egli non risponde alla domanda, ma come ogni rabbino stimola il dottore della legge a riandare alle conoscenze che gli appartengono e lo contraddistinguono; lo rimanda alla Legge, rimanda l’ascoltatore alla conoscenza della volontà di Dio che si manifesta nel suo comandamento. Lo rimanda ad esprimersi in prima persona. Essa, la Torah, contiene gli elementi sufficienti per poter sciogliere ogni dubbio. Ascoltali bene, ascoltali col cuore vuol dire capire la Bibbia. La Bibbia, infatti, non basta leggerla e rileggerla, predicata e annunciata, occorre capirla mettendo al centro come primo valore il bene dell’uomo.
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso»
L’esperto risponde con quello che era il credo di Israele e cita subito il grande comandamento: “Shema Israel” che ogni pio ebreo conosce a memoria aggiungendo il comandamento dell’amore del prossimo; in poche parole, la sua risposta è amore di Dio e amore del prossimo.
La risposta data è la saldatura di due passi biblici (Dt 6,5 e Lv 19,18). Essa è solida e forma un solo comandamento, la cui osservanza assicura la vita eterna.
Avere la vita eterna è fare il bene, lasciando però che sia Dio a determinare il senso delle nostre relazioni. Se non abbiamo la coscienza che la carità "c’entra" col nostro rapporto con Dio e con gli altri, essa rimane un qualcosa per il tempo libero. Essa invece è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo.
«Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Gesù conferma il comandamento e invita quotidianamente a viverlo. Ma questa conferma è esplicitata da un “fare”, quasi a dire come se non si osservasse appieno questo precetto, come se si dimenticasse che la carità è il senso e la méta di ogni giorno.
La parola di Gesù è inequivocabile. Ci invita ad abbattere le barriere e gli steccati che frapponiamo tra noi e tanti altri che secondo i nostri gretti giudizi non meritano di stare a contatto con noi o di essere aiutati da noi. L’amore verso il prossimo non ha confini e non deve essere grettamente calcolato secondo i nostri parametri umani. Altrimenti, anche se crediamo di essere cristiani, non lo siamo per niente.
v. 29: Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
All’epoca di Gesù c’era un grande dibattito tra le scuole rabbiniche su chi fosse il prossimo. Il pensiero più stretto prossimo è soltanto colui che appartiene al mio clan familiare o alla mia tribù. Il pensiero più largo, prossimo includeva anche lo straniero che abitava dentro i confini di Israele.
L’esperto qui cerca giustificazioni pensando in una maniera restrittiva. Anche noi, oggi, cerchiamo sempre giustificazioni, anche dinanzi a Gesù. Si vive fuori dalla realtà, tra le nuvole e non sappiamo da chi siamo circondati. E facciamo domande. Quale senso ha questa domanda?
Per il termine “prossimo”, in greco è usata una parola che vuol dire “vicino” Vicino può essere un avverbio; con davanti l’articolo diventa un sostantivo: “il vicino”, “il prossimo”. Se non ha l’articolo può diventare preposizione, per esempio: “vicino ad uno”, “vicino a”. Il dottore della legge dice: “chi è vicino a me”? Continua ad essere una domanda priva di senso. Si conosce che bisogna amare Dio, amare il prossimo ma non si conosce non solo il prossimo ma anche Dio: “Chi non ama il fratello che vede come può amare Dio che non vede?” (1Gv 4,20).
v. 30: Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico
Gesù non risponde alla domanda perché il prossimo non si può racchiudere in una risposta. Però, Gesù aiuta a capire raccontando una parabola. Nel raccontare, Gesù narra sé stesso come parabola, perché nessuno possa dire: non lo sapevo. Noi pensiamo: “a me chi è vicino? A me chi pensa? Di me chi si prende cura? Chi mi sta dietro”? È questo il problema; la parabola, infatti, va proprio in questa direzione: chi si è avvicinato? Chi è vicino a me? Se il comandamento di Dio può apparire come una legge esterna, la storia di Gesù lo precisa in una figura personale.
La parabola inizia con un uomo, un viandante. Di lui non sappiamo nulla. Non abbiamo nessun identikit. Davanti a Dio siamo tutti uguali, non occorre descrivere l’identità o il ruolo.
Si racconta qui la vicenda di ogni uomo e donna che camminano in questo mondo. Si racconta l’umanità. Ognuno, infatti, è portatore di un bisogno, è destinatario della nostra azione. Di questa umanità sappiamo solamente che stava tornando da Gerusalemme ed era diretta a Gerico. Sembra però che ci sia un cammino a ritroso.
Ricordiamo che Gesù sta andando a Gerusalemme, mentre l’evangelista dice che l’uomo va nella direzione opposta? Egli è un uomo che ha sbagliato strada.  
e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Di quest’uomo poco importa la sua identità, ma viene detto del suo bisogno, della sua disavventura fino ad essere “mezzo morto”. L’espressione vuol dire evidentemente nel crinale tra la vita e la morte. Forse può vivere, forse morirà, è lì a metà; vive ma non possiede una vita sicura, chiara; rischia di morire: è in quella sottile linea di divisione tra la vita e la morte.
Quest’uomo è il dottore della legge – guarda, questo sei tu –; Gesù sta parlando di lui, sta rispondendo a lui. – La stessa cosa vale per ciascuno di noi che ci troviamo nella condizione di una strada opposta, sbagliata. Gesù dice: vedi, tu ti trovi in questa condizione, sei quel tale che ha sbagliato strada, ma non è per forza colpa tua: ci sono i briganti in giro per il mondo, e poi comunque è così, poi scivoli, poi ti ammali, ti trovi imbrigliato in situazioni insopportabili e non ti puoi più sollevare.
vv. 31-32: Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Di fronte alla carità a volte anche noi ci facciamo dei falsi alibi, persino rivestiti di una giustificazione religiosa, come è successo al sacerdote e al levita “incastrati” da una mentalità chiusa in se stessa, non possono aiutarlo per ragioni di purezza rituale poiché essi devono astenersi dal toccare il sangue. Qui ci sta una contrapposizione del servizio religioso/liturgico e il culto all’esercizio della carità. Questi non si accorgono che il culto a Dio è riferito alla comunione con Dio e con gli uomini: culto e carità sono un segno, che in modo diverso costruisce l’unica comunione.
I due evitano il ferito; non si conosce il motivo, l’Evangelista non lo descrive forse addirittura per obbedienza alla Legge: se infatti il ferito fosse già morto, toccarlo significherebbe cadere in una forma di impurità che la Legge ebraica vietava.
La parabola contesta le false alternative tra Dio e l’uomo, tra azione e contemplazione, tra preghiera e impegno. Pur nella diversità delle vocazioni l’armonia tra parola e gesto deve sempre essere presente. Ci deve essere equilibrio tra il momento in cui si riconosce la priorità e l’assolutezza di Dio nel culto e nella contemplazione orante e il momento in cui questa assolutezza si fa carne e storia nel riconoscimento dell’altro.
Anche noi "passiamo oltre" quando la necessità della vita cristiana è solo un ripiegamento su di sé, o la religione è solo uno strumento di affermazione, o ancora quando il nostro servizio è solo una forma di gratificazione che non ha stabilità, che è solo efficientismo dato da uno schema ma ci allontana dall’amore.
Proseguendo sulla nostra strada evitiamo la sfida della carità che chiede di istruirci sul mistero di Dio e sul nostro rapporto con gli altri.
vv. 33-34: Invece un Samaritano, che era in viaggio
Qui inizia la svolta della parabola: è passato un sacerdote, è passato un levita, ora passa un terzo personaggio e uno istintivamente si aspetterebbe un’altra persona religiosa o appartenente a qualche congrega, e invece tocca a uno straniero, un nemico dei giudei: un samaritano, uno di fede imperfetta, impuro, scismatico, eretico. I samaritani non appartenevano neppure pienamente al popolo di Dio, eppure proprio un samaritano riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui. Gesù presentando un samaritano, vuole rovesciare la mentalità per poter entrare nella visione di un amore senza barriere, un amore che rassomiglia a quello di Dio.
Il Samaritano era in viaggio: questo è il viaggio nel senso forte del termine. Il salmo 84 dice: “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio”. È il viaggio della salita a Gerusalemme. E qui c’è un samaritano, unico, che va controcorrente, che sale. Il Samaritano rappresenta Gesù, è lui il viandante che sale a Gerusalemme. È lui il custode (= Samaritano) di Israele (Sal 121,4).
passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
In greco, il verbo “si commosse” è il medesimo con cui si indica la commozione profonda di Gesù a Nain o quella del padre del figlio prodigo nel vedere il figlio tornare a casa. Ecco l’essenziale: chi soccorre il povero si è identificato con l’atteggiamento di Gesù e di Dio, ha capito chi è Dio.
Il Samaritano gli si fece vicino. “Chi viene vicino a me?” dicevamo prima. Solo chi è capace di “fare misericordia” si fa vicino.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 
Sono i gesti di compassione e di vicinanza del samaritano. Il provare profonda emozione, il chinarsi, il portare in braccio, il curare e fasciare le ferite ricordano alcuni indimenticabili passi di Osea sull’amore di Dio verso Israele. L’amore di Dio è il cuore della legge, ma amarlo vuol dire lasciarsi plasmare da Lui fino a far diventare la propria vita una trasparente immagine del chinarsi misericordioso di Dio sulle sue creature.
v. 35: Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
Anche in questo versetto ricordiamo i gesti dell’azione divina. C’è un sovrappiù della carità di Gesù: egli pensa anche al dopo. C’è una caparra e c’è una promessa. Si apre lo spazio e il tempo della nostra libertà in attesa del suo ritorno. È questo il tempo della nostra carità, della possibilità che ci è data di ritrascrivere la figura del buon samaritano. Il riferimento è alla carità pasquale di Gesù, nella consapevolezza che la "differenza" della carità di Gesù non è un freno ma è la sorgente della nostra missione.
Tutte le forme, piccole o grandi, in cui molti esprimono la loro dedizione, sia nel gesto volontario, sia nella dedizione con cui svolgono il loro lavoro quotidiano, sono frammenti preziosi che alludono all’insuperabile ricchezza del gesto pasquale. Bisogna quindi saper guardare con gli occhi e il cuore di Dio per riconoscere il bisogno e il bisognoso, e fermarsi per servirli. Siamo chiamati a riconoscere l’origine del nostro agire: il nostro operare si fonda nella carità di Dio, che vuole che ogni uomo viva una vita piena. Per questo occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno e sia posto nella condizione di scegliere liberamente per il bene.
v. 36: Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».  
Gesù ha capovolto dunque la domanda iniziale: la questione vera non è chi è il prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Spinge il dottore della legge a partire da un preciso punto di osservazione: a partire dalla situazione dello sventurato. La prossimità non è una situazione, una persona, un fatto ma è una relazione da istituire. Trovare il prossimo significa farsi prossimo, leggere e scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità.
Il dottore della legge viene invitato a prendere posizione a sua volta, ma non dalla parte di chi può fare del bene, bensì di chi è nella sventura. Solo dopo potrà operare da prossimo. Solo così ci si introduce seriamente nel concetto di prossimità. Non si può definire il prossimo a partire da sé stessi.
Gesù fa notare che la carità non è solo un fare ma è un capire, è scegliere: ci vuole una intelligenza della carità. La carità chiede testa e cuore, chiede di comprendere le cause senza fermarsi solo a tamponare gli effetti. Ci vuole quindi una carità che comprende, che non dà tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.
v. 37: Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».
La parola compassione (patire con) non è l'elemosina di chi è qualcosa verso chi non è nessuno, ma è il vivere insieme la passione per la vita. Infatti, la sua etimologia ci spinge a sentire dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi. La versione Vulgata traduce per noi con il termine “misericordia”. Infatti, la parola è intesa come un profondo amore verso chi soffre e verso chi è più debole. Questo però non è un do ut des ma riflette l’ordine spirituale voluto da Dio stesso: attraverso la misericordia che manifestiamo verso gli altri, si manifesta e si sperimenta l’amore di Dio.
Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
L’esperto della Legge questo l’ha inteso bene! Gesù, quindi, conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione, è invio, è un riprendere le orme di Cristo Gesù nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede tempo, vuole disponibilità totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in una stabilità di vita. Questa è la vita eterna: fare lo stesso tragitto che ha scritto Gesù, abitare il luogo della nostra infermità.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Rileggendo questa Parola, dove mi colloco?
Come il dottore della legge, sono alla ricerca della vita eterna? Come la ricerco?
Faccio il cammino a ritroso oppure con Gesù verso Gerusalemme?
Qual è la qualità del mio amore verso Dio e verso il prossimo? In quali azioni concrete si manifesta?
Sento anche io passione per la vita avendo lo sguardo misericordioso di Gesù che supera ogni confine?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
 
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
 
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
 
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante (Sal 18).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Abbandoniamoci all’azione dello Spirito Santo per aderire col cuore e la mente al Signore che con la sua Parola ci trasforma in persone nuove che compiono sempre il Suo volere facendosi prossimo. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" (Gv 13, 17).