martedì 23 aprile 2024

LECTIO: V DOMENICA DI PASQUA (Anno B)

Lectio divina su Gv 15,1-8
 

Invocare
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Con la quinta domenica di Pasqua, la Liturgia ci presenta il brano evangelico della vite, immagine classica che troviamo nell'AT e che indica il popolo d'Israele, definito piantagione amata di Dio (Is 5.1-5; Sl 80; Ez 17,6-10; 19,10-14; Ger 2,20-21).
Il tema è quello della vigna (la vite e i tralci). Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15); è la pianta coltivata da sempre nella terra di Palestina, simbolo di una vita sedentaria e di una cultura attestata, simbolo della vita abbondante e gioiosa.
I profeti avevano assunto la vite come immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata nella terra promessa da Dio stesso (cfr. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cfr. Is 5,4).
Nel Vangelo, Gesù rifacendosi al profeta Geremia (2,21) rivela se stesso la vite vera di Dio e il Padre il vignaiolo, colui che la coltiva.
L'evangelista Giovanni ispirandosi al genere letterario dei “discorsi di addio” (cfr. 13,31-16,33), mette sulla bocca di Gesù un discorso prima di affrontare la sua "ora", rivolgendosi esclusivamente ai discepoli, che rappresentano i credenti di ogni tempo, e quindi anche ciascuno di noi.
La pericope si divide in due parti: i primi 4 versetti con il tema del rapporto tra Gesù e il Padre, i seguenti 4 versetti presentano la necessità di rimanere o dimorare in Cristo; comune il tema della vite, identificata con Gesù stesso, e del portare frutto. Il termine chiave in questo brano è nell’imperativo “Rimanete con me”: rimanere indica un rapporto di comunione, un rapporto tra persone.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore.
Gesù spesso, quando si autorivela, inizia con le parole: “Io-Sono” che sono le iniziali del Nome con il quale Dio si è rivelato a Mosè (Es 3,14) e che Gesù usa in modo assoluto specificando un attributo: Io-Sono il pane della vita (Gv 6,35), Io-Sono la luce (Gv 8,12), Io-Sono il bel pastore (Gv 10,11), Io-Sono la risurrezione e la vita (Gv 11,25), Io-Sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6) mentre qui dice: “Io-Sono la vera vite”.
Io-Sono è una bellissima affermazione rivolta ai discepoli di allora e ai discepoli di oggi che significa che Gesù è Dio. Egli è Colui del quale tutto esiste. «Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui» (Col 1,15-17; Gv 1, 1-2.10; 1Cor 8,6; Eb 1,2).
L'immagine della vite e della vigna è classica nell'AT ed è riferita in genere ad Israele, nel cantico d’amore per la vigna (Is 5,1ss) e dalle dichiarazioni del Signore nel profeta Geremia: “Io ti avevo piantato come vigna scelta…” (Ger 2,21) (cfr. anche Ger 5,10; Ez 15,2-6;19,10-14; Sal 80,9-16). L’immagine viene utilizzata nel NT per indicare sia l'infedeltà della vite Israele sia la cura di Gesù per i discepoli (cfr. Mc 12,1-12; Mt 20,1-8; 21,28-31.11-41; Lc 13,6-9; 20,9-19).
Nel Testo giovanneo c'è un riferimento diretto a Sir 24,17-20 dove tale simbolo è riferito alla Sapienza divina. E nel vangelo Gesù si presenta anche come la vera sapienza di Dio (cfr. Lc 7,35).
Gesù proclama se stesso la vera vite in contrapposizione alle viti false come la luce vera in contrapposizione alle false illuminazioni. Quella vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli, per questo è la vite vera. Il vero popolo fedele a Dio è rappresentato da lui (vite) e dai discepoli (tralci) che gli danno adesione.
Il ruolo di agricoltore è svolto dal Padre. Né Gesù, né tanto meno i tralci/discepoli possono subentrare in questo ruolo. La cura che l'agricoltore ha per la vite è simile a quella che il Padre ha per Gesù e i suoi, per la Chiesa. L’agricoltore non si arrabbia con la vite, non può arrabbiarsi; deve avere pazienza infinita, deve avere tutte le cure, deve aspettarsi assolutamente niente per i primi anni e poi aspetta che il tempo, le condizioni siano propizie per avere il frutto (cfr. Lc 13,6-9; Gc 5,7-10).
v. 2: Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Il versetto sottolinea la produzione crescente del frutto del tralcio in Gesù. Il tralcio che, pur ricevendo dall’unione con Gesù/vite la linfa vitale non la trasforma in frutto è inutile e il Padre lo elimina.
L’importanza di portare frutto – idea essenziale di questo brano – viene sottolineata dall’Evangelista che ripete per ben sette volte l’espressione (tre volte in 15,2 e poi 4.5.8.16).
Qui l’Evangelista usa un gioco di parole tra il verbo: aírei = togliere e katháirei = purificare. L’Evangelista sottolinea che l’azione del Padre/agricoltore verso il tralcio che porta frutto non è di “potatura” ma di purificazione, cioè liberazione da tutti quegli elementi che impediscono di aumentare la capacità di portare frutto. È questa un’azione positiva tesa a favorire le capacità di vita e di dono del tralcio.
Il legame tra Gesù e i discepoli, i credenti (la Chiesa) indicato con la vite e i tralci sottolinea l'intensità del rapporto; il principio fondamentale della vita cristiana è condividere la stessa vita di Gesù, restando uniti a Lui, la vera vite. Il popolo/chiesa può finalmente portare frutto solo “se rimane in Cristo”, se resta nel suo amore.
Anche nella nostra vita spirituale deve avvenire questo cammino di purificazione per portare frutto e lo si può fare attraverso la Parola. E quale è questo frutto da portare nella vita? Il frutto è l’amore concreto per il prossimo.
v. 3: Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
La fede e l'amore con cui restiamo in Cristo (cfr. Gv 14,21) hanno alla radice l'azione del Padre. Infatti, il v. 3 specifica che è la Parola (quella di Gesù e quella delle Scritture) a renderci puri. Il credente nell'ascolto fedele e obbediente alla Parola si purifica e diviene sempre più tralcio della vite/Cristo (cfr. Gv 13,10).
La potenza della Parola taglia il tralcio sterile (cfr. Eb 4,12) e pota il tralcio rigoglioso per una vendemmia abbondante. Ciò significa uscire da noi stessi per amare il prossimo in ogni ambiente di vita per costruire la civiltà dell’amore.
Nel tagliare e potare la parola di Gesù purifica la nostra vita, la rende bella davanti a Dio: ma nella misura in cui le permettiamo di abitare nel nostro cuore, di farvi dimora.
Questo insegnamento che rende puri/liberi i discepoli è quello dell’amore che si traduce nel servizio da lui dimostrato nella lavanda dei piedi (cap. 13). Lavare i piedi agli altri (servizio di amare = purificare) è quel che rende puri i discepoli.
v. 4: Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Il verbo dimorare/rimanere = méinate da ménō è un verbo caratteristico del vangelo di Giovanni (ben 36 volte contro le 3 di Mt, 2 di Mc e 7 di Lc). In questo capitolo il verbo compare ben 11 volte.
Esso indica la reciproca appartenenza di Gesù e dei suoi discepoli e l'unica sfera di vita retta dall'amore, a imitazione della reciproca immanenza del Padre e del Figlio.
L’espressione vuole manifestare il dono di grazia di Dio che rimane nel discepolo, ma insieme al dono deve rimanere la fedeltà. Ciò significa che la fede è un cammino, un avanzare per continuare a godere del dono di Dio che in Cristo non verrà mai meno. La fede non è data al cristiano una volta per tutte, ma è la risposta alle esigenze della Parola che è un principio dinamico che purifica e libera da ciò che in noi si oppone a Dio.
Il centro della nostra vita di credenti e di tutta la nostra azione è essere uniti a Gesù, perché uno poi produce secondo ciò che è: se sei unito a lui, produci i suoi stessi frutti. Più si dimora in Gesù e più si serve. Infatti, il servizio è piena comunione con Gesù.
v. 5: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
L’espressione di Gesù richiama anche quella pronunciata nella sinagoga di Cafarnao: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56) sottolineando la stretta relazione tra adesione/comunione a Gesù e il portare frutto.
Il v. 5 riprende il v. 1 ma con variante: si aggiunge “voi i tralci”. Non solo, torna il verbo “rimanere”. In pratica, il versetto contiene il rapporto tra Gesù/vite e i suoi discepoli/tralci e Gesù ne spiega la metafora: restare attaccato a Lui significa portare frutto, il suo stesso frutto, avere la sua stessa vita di Figlio, avere il suo stesso amore per il Padre, avere il suo stesso amore per i fratelli. Se resto unito a lui continuo la sua opera e la sua opera è dare vita e dare amore; se mi separo da lui distruggo la sua opera e do morte e do egoismo e distruggo innanzi tutto me stesso. Rimanere in lui significa avere un centro ben saldo dal quale attingere il senso della vita, l’amore vero, la gioia senza fine. Questo centro – ci dice il vangelo di Giovanni – è solo Gesù, la vite vera. Senza questa comunione il tralcio diventa sterile. Occorre riconoscere che senza l’aiuto dello Spirito Santo non possiamo fare nulla!
v. 6: Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Il versetto descrive il fallimento del tralcio. Cioè, il non dimorare in lui è già l’essere fuori, è già essere secchi, è già essere morti perché lui è la vita. Una serie di verbi che sottolineano l'inevitabile fallimento del tralcio staccato dalla vite. Una descrizione di questo movimento, l’abbiamo nel profeta Ezechiele: “Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Si può forse ricavarne un piolo per attaccarvi qualcosa? Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare, il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile per farne un oggetto? Anche quand’era intatto, non serviva a niente: ora, dopo che il fuoco l’ha divorato, l’ha bruciato, si potrà forse ricavarne qualcosa?” (Ez 15,2-5).
Tutto quello che non è amore, che non è in Dio, è paglia che brucia, non ha valore, ed è destinato alla morte.
Per fortuna brucia, produce luce e fuoco. E dice Paolo che saremo salvati attraverso il fuoco (1Cor 3,15), cioè tutto brucerà nell’amore di Dio come tutto brucerà sulla croce per donarci una nuova vita.
v. 7: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto.
Accogliere la Parola di Gesù non è un fatto uditorio, ma deve dimorare in ogni credente. Per vivere pienamente questo, non deve mancare l’accogliere la sua persona e il suo mistero, accoglienza possibile attraverso la fede che rende quindi efficace ogni preghiera. Tutto ciò è la traduzione di amare.
Se c’è tutto questo, i discepoli hanno la garanzia che qualunque cosa chiederanno, mi chiedete (cfr. Mc 11,24; Gv 14,13; 16,23-24) verrà loro concessa (nel verbo thélēte = chiedete/volete è insita la tensione/volontà comunitaria di desiderare ciò che desidera Gesù: tutto ciò che realizza veramente l’uomo).
Se amo Dio, accolgo le sue parole, entro nel suo volere, lo capisco e voglio concretizzarlo. Quindi posso chiederlo e Lui può esaudire la richiesta. L’evangelista Giovanni lo ricorderà nella sua lettera facendo menzione all’azione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 3,18-24).
v. 8: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Infine, la gloria del Padre, che si manifesta in Gesù, è manifestata anche in coloro che producono frutti in forza della loro comunione con Lui.
Il discepolo di Gesù sarà colui che, incondizionatamente, come Gesù glorifica il Padre nella vita di tutti i giorni attraverso il perdono, la misericordia, la condivisione.
La gloria del Signore è divenire discepoli del Signore. Cosa significa? Significa imparare a diventare figli e Gesù dice “a vantaggio mio”. Diventare discepoli significa lasciarsi abitare dalla Parola e imparare da Gesù ad amare i fratelli, come Lui ha amato. Solo così si può realizzare l’amore del Padre.
Quando la Parola abita il discepolo, il discepolo è una cosa sola con Cristo. Ciò porta i suoi risultati: quell’abbondanza del frutto che glorifica il Padre.
Anche San Paolo ci incoraggia su questa strada, perché «dopo avere ascoltato la parola della verità, il Vangelo della vostra salvezza, e avere in esso creduto, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è caparra della nostra eredità, in attesa della completa redenzione di coloro che Dio si è acquistato a lode della sua gloria» (Ef 1,13-14). E questo è possibile a chiunque è chiamato dalla Grazia divina, a cui puoi sempre attingere, per essere discepoli e portare frutto.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
La nostra mia è una fede viva o è generata dalle emozioni, dai sentimenti?
Sono capace di aprire il mio cuore al suo amore e con lui aprirmi verso i fratelli, verso le sorelle?
Ascolto e medito la Sua Parola, così che ogni cosa che chiedo nella preghiera sia orientata alla salvezza (mia o dei miei fratelli)? O forse prego male e chiedo solo le cose che non vengono da Dio?
Sono convinto che senza l'Agricoltore non posso far nulla e che solo da lui mi viene tutto ciò di cui ho bisogno?
Mi lascio "potare" con gioia, con pazienza, per produrre frutti abbondanti e generosi?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!
 
Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.
 
A lui solo si prostreranno
quanti dormono sottoterra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.
 
Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l'opera del Signore!». (Sal 21).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
L’allegoria della vite e dei tralci mette in luce la necessità non solo di fare il bene, ma di farlo in comunione con Cristo e, per mezzo suo, con il Padre. Qui il nostro orientamento per vivere bene e meglio la vita spirituale nel concreto di ogni giorno nell’amore.


lunedì 15 aprile 2024

LECTIO: IV DOMENICA DI PASQUA (Anno B)

Lectio divina su Gv 10,11-18

 
Invocare
Dio onnipotente e misericordioso, guidaci al possesso della gioia eterna, perché l’umile gregge dei tuoi fedeli giunga con sicurezza accanto a te, dove lo ha preceduto il Cristo, suo pastore. Egli è Dio, e vive e regna con te nell'unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La IV domenica di Pasqua è dedicata al buon Pastore, una domenica in cui tutta la Chiesa è invitata a riflettere sulla propria vocazione e a pregare per le vocazioni.
Il brano è inserito nella terza parte del “libro dei segni”, dove l’evangelista Giovanni riporta gli interventi fatti da Gesù durante le principali feste liturgiche giudaiche.
Dopo la guarigione di un paralitico avvenuta a Gerusalemme in occasione di una festa (5,1-47) e la moltiplicazione dei pani, avvenuta in Galilea, in prossimità della Pasqua (c. 6), seguite ambedue da un lungo discorso, l’Evangelista situa “i segni e i discorsi” che hanno avuto luogo in occasione della festa delle Capanne (7,1-10,21; cfr. 7,2): Gesù si presenta anzitutto come “fonte di acqua viva” (c. 7) e poi, dopo l’episodio dell’adultera (8,1-11) come “luce del mondo” (8,12-59) e lo dimostra con la guarigione del cieco nato (c. 9).
Collegato con questo episodio si trova poi un discorso in cui Gesù si presenta come buon pastore (10,1-21). Questo discorso prosegue poi nell’ambito della festa della Dedicazione (vv. 22-29). In esso egli approfondisce il tema del pastore e del gregge (cfr. Lc 15,4-7; Mt 18,12-14), mettendo maggiormente in luce, in contrasto con quanti prima di lui hanno avuto a che fare con le pecore, le prerogative che gli competono in quanto pastore.
Sullo sfondo del brano vi è sempre il tema biblico del Pastore escatologico (cfr. Ez 34). Il Testo liturgico riporta la seconda parte di questo discorso. È evidente il legame pasquale con Gv 10, dove sotto l'allegoria del pastore e della porta si parla dell'unico mediatore che Dio ha inviato per salvare il suo popolo (con riferimenti pure all'Esodo), mediatore che offre la sua vita.
I testi scritturistici abbinati al Vangelo di questa domenica, oltre al Salmo pasquale (Sal 117) sono un brano della prima Lettera di san Giovanni (1Gv 3,1-2) dove ritroviamo il tema della conoscenza vitale tra Gesù / Dio Padre e noi suoi figli e il testo di Atti (At 4,8-12) in cui Pietro afferma che solo nel nome di Gesù c'è salvezza. La centralità dell'opera di Cristo Gesù nel piano di salvezza di Dio Padre appare così in piena luce, mostrando che essa si compie nel dare la vita; un modello a cui i discepoli sono invitati a guardare e in cui ogni vocazione nella Chiesa prende forma e può sussistere.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 11: Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Nei vv. 7-10, Gesù si presentò come “porta”, in quanto egli è l’accesso alla vita. Ora, continuando il discorso, si presenta come pastore.
Anzitutto il v. 11 inizia con una autopresentazione di Gesù: “Io Sono”. Questa affermazione indica il nome divino, lo stesso che ritroviamo in Es 3,14. Questa espressione in 18 versetti sarà ripetuta per tre volte (vv. 9.11.14).
I Testi non descrivono Gesù come un pastore qualsiasi. Egli è il pastore ideale annunziato nelle Scritture. L'immagine del pastore, che troviamo anche nei sinottici in testi diversi su Gesù e le sue opere (vedi Mt 18,12-14; Lc 15,3-7; Mt 9,36-38; Mc 6,34; 14,27; Mt 10,16; 25,31-11; Lc 12,32) ha sullo sfondo molti passi AT ed ha un chiaro valore messianico (vedi Mi 5,3; Ez 34,23-31; Ger 3,15; 23,35; Sal 23; Zc 13,7-9).
Questo pastore è qualificato come “bello”, “buono”. In greco ci sta il verbo ho kalòs che richiama alla bellezza più che alla bontà; tipica caratteristica del pastore vero che dona la vita per i suoi (cfr. 15,13). Egli è quel pastore evocato dal profeta Isaia che «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Is 40,11),
Per descrivere l’azione di Gesù pastore, Giovanni fa uso del verbo “porre” (tithemi) con differenti sfumature di significato della sua dedizione verso noi, sue pecore: “porre”, “deporre”, “mettere”, “esporre”. Qui Giovanni più che il verbo donare/dare che rimanda all’atto di Gesù in croce che dona se stesso oppure nell’Eucarestia che dona la sua carne per la vita del mondo (Gv 6,51), Egli è colui che depone la propria vita per le pecore. Questa è la motivazione per cui Egli è il Pastore bello o buono, “per eccellenza”. Questa ragione è riportata più volte in questo brano (vv. 11.15.17.18). Gesù depone la vita «per» le sue pecore, cioè, allude al fatto che Cristo “espone” la sua vita: a differenza del mercenario, la espone secondo una logica di amore e di coraggio, nel difendere e nel prendersi cura dei suoi discepoli (Gv 15,12).
Il verbo «(de)porre» (tithêmi) lo ritroviamo nel capitolo 13 per la lavanda dei piedi (cfr. Gv 13,4.12, dove si parla delle vesti, simbolo della vita stessa) è tipica di Giovanni per indicare il libero gesto di Gesù che si mette nelle mani del Padre in favore delle pecore, gli uomini e le donne di ogni tempo, in vista della loro salvezza. Ciò scaturisce dall’amore. La vita viene comunicata soltanto dall’amore, che è dono di sé agli altri (15,13). Il massimo dono di sé è la piena comunicazione dell’amore.
vv. 12-13: Il mercenario - che non è pastore e al quale le pecore non appartengono - vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
L’immagine del mercenario che viene presentata dall’Evangelista in questi versetti è il negativo del pastore. Infatti, il mercenario è colui che ha interesse a riscuotere per quello che fa: lo fa per soldi. Inoltre, egli sfrutta e abbandona seminando l’odio, la malizia, il dubbio, il turbamento delle idee e dei sensi. Il mercenario è colui che pasce se stesso e non gli importa nulla delle pecore (cfr. Ez 34,1-4). Il Pastore invece no: presta il suo servizio con amore rinunciando al proprio interesse, disposto a dare, deporre la vita per le pecore.
Altra figura negativa è il lupo, che non fa altro che compiere strage: rapisce e disperde (cfr. 10,8). Questa figura negativa è da identificare con l’Avversario di Dio, il diavolo che non fa altro che allontanarci da Dio. Gesù è venuto per distruggere le opere del maligno. Egli non fa altro che raccogliere i figli dispersi (11,52).
Il messaggio è rivolto anche a quanti nella Chiesa primitiva e di sempre svolgeranno il ruolo di pastori: anch'essi dovranno essere animati dai sentimenti qui descritti e che anche san Pietro ripropone (vedi 1Pt 5,2-4). Pure negli Atti c'è un eco di questo nel discorso di Paolo a Mileto (At 20,29.31).
La contrapposizione che qui l’evangelista Giovanni delinea tra il mercenario e il pastore è un richiamo per tutti coloro che sono chiamati ad essere guide e pastori nella comunità dei discepoli, nel gregge formato dalle pecore che amano e seguono Cristo, “il pastore bello”. Inoltre, c’è da chiedersi se la nostra vita è più da mercenario che da Pastore bello. Se cerchiamo il nostro interesse o il bene dell’altro.
vv. 14-15: Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
Ritorna l’aggettivo “bello” che vuole indicare qualcosa di importante riferendosi alla profezia di Ezechiele, dove il Signore rimproverava i pastori del popolo, perché, anziché prendersi cura del gregge, pensavano soltanto a loro stessi. E allora, li minaccia il Signore: «Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna...Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all'ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia» (Ez 34,11.16).
Il buon (bello) pastore, Gesù, ha una conoscenza particolare di noi, così come testimonia l'AT (cfr. Os 6,6; Am 3,2; Ger 22,16; Sal 139,1-6) e dal contesto biblico generale in cui il verbo greco ginòsko indica una conoscenza esistenziale, intima, profonda dove tutta la persona e la sua esperienza concreta è coinvolta.
Il verbo “conoscere” usato quattro volte in questi versetti, nel brano indica l’amore di Gesù per i suoi discepoli. Fondamento e modello di questo è l’amore reciproco tra lui e il Padre, sorgente ultima. La particella «come» (kathôs) comporta infatti anche questa sfumatura: è l’amore mutuo tra Gesù e il Padre che viene esteso a coloro che credono in lui, i quali perciò non sono solo amati da Gesù ma sono resi partecipi della sua comunione di vita con il Padre. Cioè, l’amore che Gesù ha per ciascuno di noi è lo stesso amore che il Padre ha per lui. Ora, questo stesso amore che Lui ha per noi, vuole che noi l’abbiamo per Lui in modo che tra noi e lui, tra l’uomo e Dio, ci sia lo stesso amore e la stessa vita. Ora, questa relazione fra Gesù e i suoi è creata dalla partecipazione allo Spirito (1,16).
Questa è la vita di Gesù, del Pastore bello: disporre della sua vita a nostro favore, in modo che possiamo vivere da figli del Padre, rendendoci come Dio. Questa intimità d’amore, donataci dallo Spirito Santo la troviamo nella crocifissione, momento cruciale in cui partecipiamo alla comunione divina Trinitaria.
v. 16: E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Gesù rivela alla gente di Israele la presenza di altre pecore (che non sono di questo ovile) e che egli deve pure condurre. Vuol dire chiaramente che lʼattuale comunità di fede non esaurisce il concetto di comunità di Gesù, ma ne rappresenta solo lʼinizio. Le altre pecore sono i gentili, i pagani, che entreranno a far parte della comunità messianica. Anch’essi ascolteranno la «voce» di Gesù, cioè, crederanno in lui. Non viene imposta la Parola del Signore come fanno i mercenari, come fanno i falsi pastori ma viene solamente proposta. I verbi al futuro si riferiscono a un tempo successivo, quello in cui la Chiesa, una volta accolta la Parola del Signore svolgerà la missione universale che le è stata affidata dal Risorto (cfr. Mt 28,19). Infatti, nelle parole di Gesù vi è anche il futuro della Chiesa. La sua missione non si limita al popolo giudeo, si estende a tutti i popoli (11,52-54). La prospettiva del pastore è universale. Gesù viene per tutti i popoli, per tutto il mondo.
Questo universalismo è in consonanza con la concezione di Giovanni che, fin dal Prologo, colloca il suo Vangelo nel contesto della creazione. Nel pensiero dell’evangelista Giovanni uno degli effetti della morte di Cristo è il raccogliere nell’unità i dispersi (cfr. 11,52). Per Giovanni la Chiesa è un gregge riunito dal Pastore grazie a una relazione personale con Cristo Gesù che conduce alla libertà (cfr. Gal 5,13).
vv. 17-18: Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio.
Gesù ora dice l’ultima qualifica del Pastore bello: il Pastore bello è il Figlio amato dal Padre. Qui troviamo nuovamente la motivazione del Pastore che sa dare la vita per i fratelli, facendo di noi un popolo unico di persone libere.
Gesù, a partire dal momento in cui il Padre, con lo Spirito, gli conferisce la missione (1,32s), tutta la sua esistenza è interamente dedicata a condurla a termine, identificando la sua attività con quella del Padre (5,17).
Qui, in poche battute, si riassume la Pasqua del Signore. Il Gesù pasquale è Colui che sta davanti al Padre come colui che offre la vita e come colui che la riprende di nuovo. In questa offerta di se non vi è la morte ma un realizzare la propria esistenza come dono d’amore. Così la Pasqua del Signore diventa lʼevento nel quale Gesù offre la sua vita e nel quale Gesù la riprende. Così anche noi in lui, solamente in lui.
Nel testo di Giovanni troviamo diversi riferimenti in merito (12,24.32; 15,13; 16,21): l'amore del Padre per il Figlio e per il mondo e l'amore del Figlio per il Padre e per il mondo si manifesta nell'obbedienza sino alla morte di croce, dove si dona completamente e liberamente nel dare la vita in abbondanza a noi e a cui il Padre risponde con la resurrezione.
In queste parole trova “corpo” la Chiesa popolo della Pasqua, una Chiesa cosciente capace di fare della sua vita un dono d’amore perdendosi nell’amore come il Divin Maestro e solo offrendo la sua vita potrà vivere.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Sono capace di ascoltare la voce del buon Pastore?
Gesù, Pastore buono, vive la follia dell’amore. Mi sento pensato, amato, salvato, chiamato? Oppure penso che sia una elite riservata?
Mi sento al seguito di Gesù perché parte di una comunità pasquale in cammino?
Riconosco in Gesù il modello secondo l’evangelista Giovanni, perché possa riconoscere e e “dare la vita” come ha fatto Gesù?
Pensando alla mia famiglia o alla mia comunità, come la mantengo unita come unico gregge?
Sono facile a dire “sono abbandonato dal Pastore”. Io, quando mi isolo dal gregge?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Rendete grazie al Signore perché è buono,
perché il suo amore è per sempre.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell’uomo.
È meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nei potenti.
 
Ti rendo grazie, perché mi hai risposto,
perché sei stato la mia salvezza.
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
 
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Sei tu il mio Dio e ti rendo grazie,
sei il mio Dio e ti esalto.
Rendete grazie al Signore, perché è buono,
perché il suo amore è per sempre. (Sal 117).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Contemplare il mistero dell’amore significa ritrovarlo e darne il giusto senso. Lasciamoci guidare dallo Spirito per essere in grado di vivere il progetto d’amore di Dio e di annunciarlo incondizionatamente.
 
 
 

lunedì 8 aprile 2024

LECTIO: III DOMENICA DI PASQUA (Anno B)

Lectio divina su Lc 24,35-48
 

Invocare
O Padre, che nella gloriosa morte del tuo Figlio, vittima di espiazione per i nostri peccati, hai posto il fondamento della riconciliazione e della pace, apri il nostro cuore alla vera conversione e fa' di noi i testimoni dell'umanità nuova, pacificata nel tuo amore.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
[i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] 35Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane. 36Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!». 37Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma. 38Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? 39Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho». 40Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi. 41Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?». 42Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; 43egli lo prese e lo mangiò davanti a loro. 44Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». 45Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture 46e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, 47e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. 48Di questo voi siete testimoni.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Siamo nel Tempo di Pasqua e continuano le apparizioni di Gesù risorto. Ci sono due tipi di apparizioni: (1) quelle che accentuano i dubbi e le resistenze dei discepoli nel credere alla risurrezione, (2) e quelle che richiamano l’attenzione verso gli ordini di Gesù ai discepoli e alle discepole conferendo loro qualche missione.
Il brano ha un legame particolare con il testo di Gv 20,19-29. Nel capitolo 24, Luca presenta le donne e Pietro al sepolcro aperto (vv. 1-12), i discepoli di Emmaus (vv. 13-36), l’apparizione agli Undici e agli altri (vv. 37-49) e l’ascensione (vv. 50-51).
Il nostro brano, partendo dalla Sacra Scrittura, tende a riproporre la verità della resurrezione di Gesù e la missione affidata ai discepoli e alla Chiesa. L’apparizione di Gesù nel Vangelo di oggi raggruppa due aspetti: i dubbi dei discepoli e la missione di annunciare e perdonare ricevuta da Gesù.
La nostra pericope inizia con il versetto finale dell'episodio dei due discepoli di Emmaus, fornendoci per così dire un riassunto sintetico dell'accaduto. Il versetto pertanto risulta poco comprensibile se non si tiene conto dell'intero brano di Lc 24,13-35.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 35: Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l'avevano riconosciuto nello spezzare il pane.
Il versetto inizia come una sintesi sui “fatti di Emmaus”. I discepoli (di Emmaus) ritornano a Gerusalemme, trovano la Comunità riunita (v. 33) e parlano di Gesù, il Signore (cfr. vv. 15 e 34).
La via di cui si parla è la via di tutti giorni dove l’amore del Signore va testimoniato e annunciato. Ma inizialmente è la via della desolazione ed è in questa stessa via che avviene il cambiamento dalla desolazione alla consolazione. Questo cambiamento nasce dalla forza della risurrezione. Al v. 33, infatti, si dice subito: nella stessa ora – e quella è l’ora decisiva – levatisi – è la parola della resurrezione, cioè, sono risorti – tornano a Gerusalemme – fanno il cammino opposto al precedente. Lì la comunità è riunita. Possiamo pensarla nel nome di Gesù: «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Hanno riconosciuto il maestro nello spezzare il pane. Significativamente il testo greco afferma che è Gesù che si fa riconoscere.
Come in tutti i racconti delle apparizioni, l'iniziativa è del Signore risorto che si mostra a testimoni scelti da lui (cfr. At 2,32; 4, 33; 5,32; 10,40-41; cfr. Gv 14,22) mostrando le ferite della Croce e incaricandoli della sua stessa missione.
v. 36: Mentre essi parlavano di queste cose, Gesù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Il versetto offre la permanenza del Risorto e insieme a questa permanenza, il dono dello shalom. “L’ebraico shalom (comunemente tradotto con pace) significa primariamente completezza e integrità, diciamo una condizione alla quale non manca nulla. […] Non designa anzitutto il tempo della pace in opposizione al tempo della guerra, ma lo stato dell’uomo che vive in armonia con la natura, con se stesso, con Dio” (B. Maggioni, La pace nell’Antico e nel Nuovo testamento, in Vita e pensiero, LXIII, pag.24).
Gesù Risorto offre ai suoi discepoli la pace. In essa troviamo il contenuto dei messaggi messianici annunciati dai profeti: “la pace sia con voi! Non abbiate paura!”. Parole molto significative che sono divenute l’augurio e la promessa di ogni bene, benessere, benedizione che Dio dà al suo popolo sin dall’Antico Testamento.
v. 37: Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma.
La reazione dei discepoli è sia di stupore che di spavento. Essi sono assaliti anche dal turbamento e dal dubbio e credendolo morto, i discepoli si convincono di vedere un fantasma (il senso della parola greca, pneuma, utilizzata da Luca), ossia quello che rimaneva della persona dopo la sua morte.
Possiamo vedere qui una caratteristica della comunità a cui si rivolge l'Evangelista e i primi indizi dell'eresia dei doceti, secondo la quale Gesù era uomo solo in apparenza.
Il corpo risorto di Gesù è certamente altro rispetto a quello della vita terrena (cfr. 1Cor 15,35-50), ma ciò non esclude una profonda continuità personale, che l'evangelista sottolinea nei versetti successivi.
vv. 38-39: Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho».
Il turbamento dei discepoli è puramente umano, comprensibile ma di ostacolo alla fede, creando barriere che non permettono di credere neppure alle testimonianze di chi aveva già fatto esperienza del Risorto. Qualcosa in loro oppone resistenze. Per questo Gesù inizia qui una sua pedagogia che aiuta a tirar fuori le motivazioni più profonde: perché? Guardate, toccate, sono proprio io (v. 39); un modo per rassicurare e far capire che Egli è vivo e reale. È un invito a discernere ciò che provano e a non farsi trascinare da una reazione superficiale.
Con il mostrarsi e il farsi toccare, Gesù non fa altro che mostrare la sua identità con fatti e parole.
v. 40: Dicendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.
L'attenzione di Luca è puntata sulla realtà della resurrezione di Gesù e con insistenza attira il nostro sguardo sul suo corpo per mostrare l'identità del crocifisso (le piaghe lasciate dai chiodi) con il Risorto che ora sta di fronte a loro. Gesù si offre all’osservazione dei suoi amici. Egli mostra i segni nel corpo martoriato dai chiodi della crocifissione; essi sono una prova che quella morte che Egli ha subito non è la morte ultima, definitiva. Ce n’è un’altra ben più temibile (cfr. Ap 20,6.14; 21,8).
Ora, guardare alle sue piaghe è certezza di aver ricevuto la sua misericordia; infatti, per le sue piaghe noi siamo stati guariti (cfr. Is 53,5).
v. 41: Ma poiché per la gioia non credevano ancora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?».
Gesù, il Maestro, suscita nei discepoli un'immensa gioia, ma essi erano in un certo senso "bloccati", perché lo considerano morto. Dei discepoli viene descritto i sentimenti interiori che non aiutano a credere nella risurrezione. Qui possiamo cogliere la difficoltà di capire l’evento Pasqua dei primi discepoli e delle prime comunità cristiane. È l’incredulità e il dubbio che l’uomo porterà sempre, anche ai nostri giorni.
Per rassicurarli ulteriormente, Gesù completa l’opera con un gesto di disarmante fraternità: chiede loro qualcosa da mangiare, non perché ne abbia bisogno, perché solo un corpo vivente può mangiare e non un puro spirito. È ulteriore conferma della realtà della sua resurrezione!
vv. 42-43: Gli offrirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Questi due versetti dimostrano il chiaro riferimento al corpo vivente di Gesù Risorto. La scelta del pesce, a cui alcuni codici aggiungono un favo di miele, ha un riferimento allegorico a Gesù stesso e ai sacramenti dell'Eucarestia e del Battesimo.
Sono soprattutto i cristiani della comunità di Luca (e quelli futuri) a beneficiare di questo particolare, non potendo far esperienza diretta del risorto. I discepoli fanno esperienza diretta del Risorto per poter poi consegnare alle generazioni future dei credenti la loro testimonianza (At 1,21-22).
v. 44: Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Dopo il momento del riconoscimento, l’Evangelista passa a quello della missione introdotto da un riferimento al compimento delle Scritture. Molto interessante il fatto che qui Luca cita le tre parti della Bibbia ebraica: la Legge, i Profeti e i Salmi. Non dimentichiamo che nei Salmi abbiamo quelli che sono considerati messianici e rimandano alla vicenda di Gesù. La Scrittura nella sua globalità è quindi necessaria per comprendere la vicenda di Gesù Cristo come cita san Girolamo: “l’ignoranza delle Scritture, è ignoranza di Cristo” (San Girolamo, Commentarii in Isaiam, Prologus: CCL 73, 1; PL 24, 17). Il verbo “ignorare” non vuol dire non conoscere materialmente, bensì colui che, pur leggendole, le interpreta da pagano o da ebreo e, quindi, non si accorge che Cristo si rivela già nell’Antico Testamento.
Le parole a cui si riferisce Gesù riguardano l’arco di tre anni quando preannunciò ai discepoli la sua passione, morte e resurrezione e ora ci ricorda che la sua presenza in mezzo a noi è cambiata ma non il Vangelo.
v. 45: Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture
Gesù è la chiave di Davide che fa ancora un dono: la comprensione delle Scritture per leggervi la sua vicenda che è come il compimento delle stesse e in cui la Pasqua di Cristo acquista il suo vero senso (cfr. v. 27 e At 16,14). A Nicodemo Gesù aveva detto: Tu che sei maestro in Israele non capisci queste cose? (Gv 3,10). Ora il dono del Risorto fa di semplici uomini illetterati, dottori della scienza divina grazie al dono della Sapienza che permette di comprendere, in modo esperienziale, come Dio ci abbia amato fino a dare il suo Figlio, morto in croce per la nostra salvezza. La Bibbia si adempie in Cristo e in lui acquista il suo pieno significato (A. Poppi). Senza l’azione di Gesù risorto, le Scritture non si possono comprendere. Ecco perché troviamo la prima comunità di Gerusalemme che persevera nell’istruzione degli apostoli (At 2,42-48). Si tratta di un ascolto assiduo della Parola alla luce della Pasqua «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (Dei Verbum, 21; At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).
vv. 46-47: e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme.
È solo nella passione, morte e resurrezione di Gesù che la Scrittura trova il suo compimento, cioè il suo completamento, la sua perfezione e la sua pienezza: “egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per sé stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2Cor 5,15. Cfr. Is 53 e Os 6,2). È nel nome di Gesù che sarà annunciato il kerigma: conversione e perdono dei peccati. Gli apostoli ne hanno il compito di predicare a tutte le nazioni (missione universale), iniziando da Gerusalemme (elemento tipico di Luca in cui la città santa non è solo un luogo geografico ma acquista valore teologico). San Paolo nel suo annuncio dirà: «Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20).
Questa è la predicazione della Chiesa: annunciare e fare misericordia. E questo lo farà fino ai confini del mondo perdonando e invitando al perdono, perché questo è il Vangelo, la buona notizia.
v. 48: Di questo voi siete testimoni.
L’incontro con il Risorto non può che concludersi con il mandato, con la missione. Non c’è incontro con il Risorto senza missione: essere testimoni di lui fino al dono della vita. Questa affermazione è ripetuta negli Atti degli Apostoli (At 1,8; 2,32; 5,32; 10,40-41, cfr. Gv 15,27) ed è resa possibile oltre che dall'esperienza dell'incontro con Gesù risorto, dal dono dello Spirito Santo. Infatti, il v. 49 che chiude l'episodio, ma che non viene proposto dalla liturgia, parla proprio di questo dono, promesso dal Padre. La fede pasquale e la forza dello Spirito Santo fortificheranno gli apostoli “nell’attuare la realizzazione delle promesse divine di un regno di pace e di giustizia, di bene e amore, ormai prossime” (M. Ledrus) e renderà possibile la diffusione della buona novella di Gesù Cristo (cfr. Mt 28,19s; Mc 16,15-20; Gv 20,21-23); forza che sempre ci accompagna e ci ispira nella missione.
Ogni battezzato è chiamato a offrire questa testimonianza e, prima ancora, viverla perché la vita in Cristo è ciò che dà la forza al nostro essere per affrontare la nostra quotidianità per trasfigurarla con la Sua pace il suo perdono.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Durante l’Eucarestia, allo spezzare del pane, riconosco Gesù?
Anche la mia vita è in preda a dubbi, a emozioni, a sentimenti che ci scuotono e ci turbano nell'interno, fino alle radici del mio essere?
Mi lascio aprire il sepolcro della mia mente e del mio cuore per comprendere la volontà di Dio?
Mi metto dinanzi alla Sacra Scrittura per lasciarmi plasmare dalla Parola di Dio?
Quale pace dono? Quale ferite della quotidianità in cui vivo, risano?
Come testimonio la Pasqua e predico la conversione e il perdono?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Quando t'invoco, rispondimi, Dio della mia giustizia!
Nell'angoscia mi hai dato sollievo;
pietà di me, ascolta la mia preghiera.
 
Sappiatelo: il Signore fa prodigi per il suo fedele;
il Signore mi ascolta quando lo invoco.
Molti dicono: «Chi ci farà vedere il bene,
se da noi, Signore, è fuggita la luce del tuo volto?».
 
In pace mi corico e subito mi addormento,
perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare. (Sal 4).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Come i discepoli di Emmaus, anche noi apriamo il nostro cuore al Signore perché aumenti la nostra fede e ci faccia comprendere il mistero della salvezza perché di questo dobbiamo essere testimoni.


martedì 2 aprile 2024

LECTIO: II DOMENICA DI PASQUA (Anno B)

Lectio divina su Gv 20,19-31
 
 
Invocare
O Dio, che in ogni Pasqua domenicale ci fai vivere le meraviglie della salvezza, fa’ che riconosciamo con la grazia dello Spirito il Signore presente nell’assemblea dei fratelli, per rendere testimonianza della sua risurrezione.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
19La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». 20Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». 22Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. 23A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati».
24Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. 25Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
26Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!». 27Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!». 28Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!». 29Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
30Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. 31Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La II domenica di Pasqua è l'antica domenica detta "In deponendis albis", per il fatto che coloro i quali erano stati battezzati nella veglia pasquale, deponevano i loro vestiti bianchi perché si concludeva la settimana della loro iniziazione sacramentale. Diventavano così “fedeli” a tutti gli effetti. Il nostro brano evangelico è identico nei tre anni (A, B e C). Esso narra i fatti che avvennero proprio una settimana dopo la risurrezione e ci aiuta a comprendere il senso della domenica, Pasqua della settimana.
Il tema dominante di questa domenica è la fede nei segni della Risurrezione.
Il vangelo di Giovanni narra l’apparizione del Risorto ai suoi discepoli il giorno stesso di Pasqua. I discepoli si trovano nel cenacolo, con le porte sbarrate “per timore dei giudei”. Viene Gesù in modo misterioso e la paura dei discepoli si trasforma in gioia. Paura e gioia ci fanno pensare subito ad alcune emozioni, a stati d’animo, ma il linguaggio di Giovanni non è psicologico, bensì teologico, non indica stati d’animo ma diverse collocazioni dell’uomo davanti alla realtà. La paura è l’atteggiamento di chi percepisce la realtà e gli altri come ostili; la gioia è piuttosto la fiducia e la pace con cui il credente guarda il mondo intorno a lui.
L'incredulo Tommaso dovette «vedere» per credere; i cristiani che verranno dopo crederanno senza aver visto, sebbene Cristo si accosterà a loro con segni diversi della sua presenza gloriosa; non con segni fisici e corporali, ma con i segni sacramentali: l'Eucaristia, il Battesimo, etc.
Questo brano evangelico, con la figura di Tommaso, chiude il vangelo di Giovanni ed è considerato la “prima conclusione” del quarto vangelo. Poi c’è la postfazione, l’epilogo dell’editore che è pure molto importante perché fa vedere come questo si trasmette a noi che siamo lettori. Lui è il primo redattore che ha letto il testo e poi aggiunge la sua esperienza. Per cui il testo si rivela un testo aperto. Ognuno poi scrive la sua esperienza, la sua maturazione di fede in base a questo.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 19: La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei
Siamo alla sera del primo giorno dopo il sabato, quindi all’inizio di una settimana nuova: l’inizio di un tempo nuovo: è il giorno della resurrezione. Gesù, infatti, ha creato un tempo alternativo e nuovo rispetto al cronos della vita umana. Ha fatto irrompere nel tempo l’eternità di Dio, e ha fatto entrare nell’eternità il tempo dell’uomo. Quindi siamo davvero davanti ad un mondo nuovo che inizia, che si manifesta.
I discepoli sono in un luogo chiuso, forse si tratta dello stesso Cenacolo (cfr. Lc 22,12; At 1,13). Essi sono spaventati, quasi ossessionati dalla paura dei Giudei. Infatti, per i fatti accaduti in quei giorni era pericoloso dichiararsi seguaci di Gesù.
La “paura” è la condizione del discepolo nel mondo, dove è un estraneo, perché pur vivendo nel mondo non appartiene al mondo, e proprio per questo subisce nel mondo una emarginazione che può diventare anche persecuzione e rifiuto violento.
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
I discepoli spaventati sono rassicurati da presenza di Gesù; non come un tempo dicendo: «Sono io» (6,20), perché la sua presenza è ormai di un altro ordine, ma dicendo: «Pace a voi» che non si tratta del consueto saluto ebraico, ma è l'adempimento della promessa fatta nell'ultima cena (cfr. 14,18-19.27-28; 16,16-23).
La pace dei tempi messianici è il dono supremo di Dio annunciato dai profeti (cfr. Is 53,5), implica tutto il benessere di vivere (cfr. Ef 2,14). È la pace che li renderà capaci di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita. Cosa importante da notare è che il saluto è ripetuto due volte.
Questo saluto è accompagnato da due verbi importanti: “venne” e “stette”. Il primo è lo stesso verbo che Gesù ha utilizzato per la promessa fatta durante il primo discorso di addio ai suoi (14,18.28). Egli realizza dunque la sua promessa. È addirittura la parafrasi del nome di Dio che si trova nell’Apocalisse (Ap 4, 8): «Colui che era, che è, che viene!»: è una presenza dinamica, ricca di salvezza, di consolazione, di speranza.
Il secondo indicando il rimanere ritto in piedi, evoca il trionfo sullo stato del giacere della morte. Indica la resurrezione.
v. 20: Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.
Gesù si fa riconoscere. Ciò sta ad indicare la continuità tra il Gesù della croce e il Risorto. Il mistero della croce è insieme mistero di morte, certo, ma che inevitabilmente richiama il mistero della resurrezione. Non si capisce il mistero della croce se non si comprende il mistero della resurrezione e viceversa. C’è questa unità. Giovanni sottolinea con forza che il Cristo che appare e che sta in mezzo ai discepoli è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio.
Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l'aveva menzionata come densa di significato per il sangue e acqua che ne uscirono (19,34-35). Luca non parla di costato perché nel racconto della passione questo episodio non è citato. Ma con tutto questo, fra il modo di essere del Gesù di prima e del Cristo di ora, c'è una profonda differenza: egli entra improvvisamente, a porte chiuse.
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
I discepoli vedono il loro maestro nella pienezza della fede (cfr. 16,22.24). La loro gioia è legata alla gioia del Signore. Ma è una gioia incontenibile, che chiede di essere condivisa con generosità sincera. Il Cristo risorto è sorgente efficace di perdono, è “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. I discepoli dovranno annunciare a tutti gli uomini questa possibilità di vita che viene loro offerta.
v. 21: Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Si ripete per la seconda volta il dono di Pasqua: “Pace a voi”. Essa è liberazione dall’angoscia della morte che turbava il cuore dei discepoli e li teneva prigionieri della paura. Ma non esiste liberazione senza un mandato, per rendere presente la Parola, l’amore, la misericordia, il progetto e le promesse di Colui che lo ha mandato.
Lui è stato inviato dal Padre a rivelare l’amore del Padre verso gli uomini. E noi diventiamo come Lui, siamo figli che rivelano l’amore del Padre ai fratelli.
Questa missione non è proporzionata alle nostre forze, ma è proporzionata all’amore del Signore, quindi al suo dono. Perché il dono del Signore è esattamente questo: lo Spirito. Nel nostro brano è dono del Signore la pace, ed è dono del Signore lo Spirito.
Questo mandato non è riservato agli apostoli ma tutti i discepoli, quelli presenti alla sua apparizione, ma anche quelli futuri di tutte le epoche e le zone geografiche. L’amore è sempre missione, ti manda verso l’altro, ti
porta fuori di te. E l’uomo è missione, è rivolto all’altro, altrimenti è “non uomo” ed è chiuso nella tomba.
vv. 22-23: Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo.
Giovanni segna il dono dello Spirito Santo lo stesso giorno di Pasqua e non cinquanta giorni dopo.
Il verbo utilizzato da Giovanni (emphysao) è usato solo in Genesi e in Sapienza. Il soffio sui discepoli da parte di Gesù evoca il gesto creativo di Dio. Nel libro della Genesi (2,7) c’è questo soffiare, l’alitare di Dio sull’uomo per cui l’uomo divenne un essere vivente, come pure la grande visione di Ezechiele (37,9). Soltanto lo Spirito di Dio è capace di ricreare l'uomo e strapparlo al peccato (Ez 36,26-27; Sal 50,12-13; 1Re 17,21).
Gesù glorificato comunica lo Spirito che fa rinascere l'uomo, concedendogli di condividere la comunione con Dio. Così si compie la profezia di Giovanni Battista: Gesù ha battezzato nello Spirito Santo (1,32-33), l'attesa si è compiuta nel giorno di Pasqua. Questo dono dello Spirito mette in evidenza che ora i discepoli partecipano alla vita di Cristo glorificato (cfr. 1Gv 4,13; 3,24)
Nel soffio di Gesù, che è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4), Egli dichiara la sua divinità, indicando, nel dono dello Spirito, la vera vita a cui la chiesa deve attingere, una vita che spinge la chiesa alla remissione dei peccati, che è il gesto stesso di Dio.
Il secondo dono pasquale è lo Spirito Santo, che Gesù ha promesso come Consolatore e Spirito che li introduce nella pienezza della verità. Lo Spirito è il dono del Cristo, viene dal «soffio» del Cristo Risorto; in ebraico il termine «spirito» e «soffio» coincidono, ricorda Gv 19,30.
La missione, il dono dello Spirito, il potere di rimettere i peccati sono dati all'intera comunità, che però si esprime attraverso coloro che detengono il ministero apostolico. Il dono dello Spirito sancisce l’incarico di missione. I discepoli, infatti, prolungano la missione che Gesù ha ricevuto dal Padre.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.
Per capire il versetto, bisogna risalire all’ultima cena: «Questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati» (Mt 26,28) realizzato sulla croce in riscatto per molti (Mc 10,45), per cui i credenti possono ben dire di essere stati acquistati da Dio, «sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro” sono “stati riscattati dal vano modo di vivere … ma con il prezioso sangue di Cristo» (1Pt 1,18-19). «Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2).
Ora l’Evangelista riprende la stessa missione di Gesù: misericordia e perdono costituiscono ciò che la Chiesa è invitata a compiere. La parola di Gesù sul potere di rimettere i peccati accompagna il gesto col quale egli mostrava le piaghe della passione. Il ministero del perdono è ogni giorno attualizzazione del sacrificio di Cristo.
v. 24: Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Il brano cambia tonalità e segna col v. 24 l’assenza di Tommaso che significa Didimo, cioè “gemello”. Tommaso è gemello di chi vive fuori della comunità, nella solitudine. È gemello di chi vive il suo limite, come luogo di divisione dagli altri.
La prima volta incontriamo questo personaggio al capitolo 11, nella preparazione del segno di Betania, la rianimazione dell’amico Lazzaro. Non essendo con gli altri Tommaso non riceve con loro la visita del Risorto e non accogliendo prontamente l’annuncio evangelico della risurrezione che gli viene dato, ma ricercando altre conferme, si preclude la gioia della comunione che viene dallo Spirito Santo ed è donata ai "piccoli" (cfr. Mt 11,25 e 1Cor 1,21).
Quindi rappresenta un po’ tutti noi che non c’eravamo e giungiamo alla fede, rappresenta quindi il nostro travaglio per giungere alla fede.
Tommaso è gemello anche di Gesù. È la sua anima gemella, il suo alter ego. Di fatti è disposto a morire a fianco di Gesù, l’unico: quando Gesù va a Gerusalemme per far resuscitare Lazzaro e gli dicono: «Ma lì ti vogliono uccidere» (Gv 11,8), e lui risponde agli altri: «Andiamo anche noi a morire al suo fianco» (Gv 11,16). È coraggioso.
v. 25: Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
I discepoli usano la stessa frase che aveva detto Maria di Màgdala; anche loro, fatta l’esperienza, la comunicano. Comunicare l’esperienza, “abbiamo visto il Signore” significa che la loro vita è cambiata radicalmente.
Siamo davanti alla prima testimonianza ecclesiale e al suo primo insuccesso; Tommaso non crede. Egli non crede, per principio, né alla Comunità, né alla novità di esperienza, né alla possibilità di una vita nella riconciliazione, nella gioia, nell’amore, nel perdono; dice: “io non ci credo!”. Quindi non è solo che non crede alle parole, non crede a ciò a cui corrispondono le parole, cioè la Comunità che vive la vita.
C’è uno status fatto di separazione, di distinzione e, di fronte alla testimonianza degli apostoli, Tommaso pone la necessità di vedere.
La fase riprende quella che Gesù aveva detto al funzionario regio: «Se non vedete segni e prodigi voi non credete» (Gv 4,48). Adesso Tommaso fa memoria di quella parola e la applica: vuole vedere il segno delle piaghe di Gesù, cioè i segni della sua passione. La sua non è curiosità, è segno di incredulità, perché dice “voglio toccare e vedere di persona”, ma è anche desiderio di comunione profonda, è immergersi, battezzarsi nel Cristo risorto. È da questa ferita che nasciamo ed è entrando lì che trovi l’amore di Dio che è principio della vita. Ed è lì che respiri la vita! Quindi è giusta la sua esigenza.
vv. 26-27: Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Il rituale è lo stesso della prima apparizione. È importante quel numero otto; al sei insistente del periodo precedente, adesso subentra l’otto della pienezza, della totalità, del giorno senza tramonto.
Otto giorni dopo indica la domenica seguente e c’è una intenzione di fondamento liturgico nel racconto di Giovanni, per mostrare l’origine della domenica come l’occasione della riunione apostolica in mezzo alla quale è presente il Cristo risorto, l’occasione per vivere la Pasqua del Signore.
Gesù accoglie la richiesta di Tommaso, non privatamente, perché gli altri discepoli sono presenti.
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gesù senza attendere risposte và da Tommaso e gli fa constatare la sua identità, calma le sue apprensioni e lo invita a non comportarsi da incredulo. Lo chiama ad approfondire la sua fede di prima, a rafforzarla, a farla crescere. Egli non deve limitarsi alla fede nel Messia, deve credere al Figlio dell'uomo glorificato nella sua morte.
Il Signore risorto si concede a Tommaso e non lascia a Tommaso nessuna replica.
I verbi che accompagnano questo gesto di Gesù sono “metti” e “tendi” è ciò che Gesù dice al Tommaso di ogni epoca: agire da vero credente!
Questo è quello che dobbiamo dire al mondo: che le piaghe del mondo, la sofferenza del mondo non sono il segno di un Cristo sconfitto, ma sono il segno di un Cristo glorioso, perché Cristo ha fatto della sua morte il segno della sua risurrezione.
Gesù invita Tommaso a diventare credente. Il testo greco non usa il verbo essere ma il verbo diventare nella forma di imperativo presente che indica qualcosa di continuativo quasi a dire: “non diventare incredulo, ma diventa credente” (cfr. Sal 1: “le due vie”. Cfr. anche Mt 7,24-27).
vv. 28-29: Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
L’Evangelista non dice che Tommaso toccò i segni della passione, anche se Gesù gli offrì la possibilità a differenza della Maddalena (cfr. 20,17).
La risposta di Tommaso pone finalmente fine a una fede per sentito dire facendo il passaggio fino a proferire la più alta professione di fede. In nessun punto del Vangelo Giovanneo c'è una professione di fede così decisa e chiara. Tommaso è l’apostolo che ha formulato la fede più matura; è l’unica volta in cui Gesù viene riconosciuto sia Signore che Dio. In greco i due termini: “Signore” e “Dio” sono entrambi preceduti dall’articolo determinativo che ne indica per l’apostolo l’esclusività. Non è semplicemente la formula astratta: “Tu sei Dio”, ma “Tu sei il mio Dio”. È un coinvolgimento personale, di adesione totale.
Per due volte Tommaso ripete l'aggettivo “mio”, che cambia tutto, che viene dal Cantico dei Cantici: «Il mio amato è per me e io per lui» (6,3), che non indica possesso geloso, ma ciò che mi ha rubato il cuore; designa ciò che mi fa vivere, la parte migliore di me, le cose care che fanno la mia identità e la mia gioia. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. E, senza, non vivrei.
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Il verbo vedere ha un rilievo particolare nel racconto giovanneo dell’incontro del Cristo con i discepoli la sera di Pasqua. L’evangelista Giovanni usa due verbi greci diversi per indicare questa “visione”, ideìn e horàn. Si va da un vedere esteriore a un vedere più intimo che conduce alla fede. Anzi, come dice oggi il Risorto, allora non sarà più necessario il vedere diretto perché la comunione avverrà su un altro canale di conoscenza, sarà la visione in un senso perfetto e pieno. A Tommaso Gesù concede la possibilità di una percezione diretta della sua nuova presenza in mezzo a noi.
Il versetto termina con una beatitudine, che non riguarda Tommaso, ma i discepoli futuri: l'evangelista si rivolge alla comunità già lontana dalle origini. La comunità non deve rimpiangere il fatto di non aver vissuto al tempo di Gesù. Anche se il suo modo di accesso alla fede non è lo stesso, sono beati coloro che nel corso dei tempi avranno creduto senza vedere.
vv. 30-31: Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Questi ultimi versetti, pur essendo la conclusione dell'intero Vangelo sono particolarmente collegati al racconto dell'apparizione Tommaso e alla beatitudine della fede. Sono il passaggio al tempo dello Spirito, al tempo della Chiesa, al tempo della Testimonianza, al nostro tempo scandito dal silenzio operoso fatto di testimoni del risorto.
L’autore dice che Gesù ha fatto molti altri segni, il che vuol dire che lui conosce gli altri Vangeli, altre tradizioni.
I prodigi operati da Gesù per Giovanni sono dei segni medianti i quali il Verbo incarnato rivela la sua natura divina e la sua carità immensa per i suoi fratelli, poveri e peccatori. Ma lo scopo della rivelazione del Cristo consiste nel suscitare la fede nella sua persona divina.
La lettura e la meditazione dei segni operati dal Cristo devono alimentare la vita spirituale, per favorire l’adesione personale al Signore Gesù. Quindi tutti i cristiani devono impegnarsi ad approfondire la conoscenza dei Vangeli, per nutrirsi abbondantemente di questo cibo divino. E questo cibo ormai il cielo aperto sulla terra e credendo abbiamo la vita. Aderendo a Gesù il Figlio, il Verbo creatore del Padre che ha dato la vita per noi, abbiamo la vita stessa di Dio, che è amore più forte della morte, che è comunione eterna col Padre ed è una comunione progressiva con tutti i fratelli.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Quanti dubbi e incertezze ci sono dentro di me?
Trovo dentro di me la pace del Risorto o mi scontro quotidianamente con i miei limiti e con le cattiverie del mio prossimo?
Come posso credere che Cristo è vivente nella sua Chiesa, quando quest'ultima mi mostra un volto di potere che non sembra affatto quello di Gesù?
Gesù mi chiede di diventare credente non incredulo, quale percorso faccio?
Tommaso è diventato il gemello spirituale di Gesù e io?
Maturo la mia fede in Gesù per vivere la comunione col Padre e coi fratelli?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Dica Israele:
«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».
 
La destra del Signore si è innalzata,
la destra del Signore ha fatto prodezze.
Non morirò, ma resterò in vita
e annuncerò le opere del Signore.
Il Signore mi ha castigato duramente,
ma non mi ha consegnato alla morte.
 
La pietra scartata dai costruttori
è divenuta la pietra d'angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo! (Sal 117).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Proviamo a immergerci nell'esperienza di Tommaso, ripercorrendone le tappe: dall'incredulità che segna anche la nostra vita, a un'adesione di fede sempre più limpida e forte, che pure desideriamo. Proviamo anche noi a diventare gemelli spirituali di Gesù!