mercoledì 10 luglio 2019

LECTIO: XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (anno C)


Lectio divina su Lc 10,25-37

Invocare
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Leggere
25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».

Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato

Dentro il Testo
La parabola del buon Samaritano l’abbiamo sentito spesso. Il brano evangelico mette al centro il verbo amare unito alle due direzioni fondamentali della vita: quella verticale - amare Dio - e quella orizzontale - amare i fratelli -. Qualcuno ha scritto che queste due direzioni ci vengono continuamente richiamate dai due bracci della croce di Gesù... è lui che, con tutta intera la sua vita, ci insegna ad amare.
L’evangelista Luca racconta, all’interno di circa dieci capitoli, l’esperienza di Gesù che si dirige a Gerusalemme. Qui vivrà i giorni della sua passione, morte e risurrezione. Gesù dunque è in viaggio e lungo il suo cammino racconta questa parabola. In particolare in Lc 9,51 si dice che Gerusalemme è la città verso la quale Gesù «si diresse decisamente». Gesù inizia a seguire con più decisione e consapevolezza il progetto del Padre e questo chiede anche ai discepoli e a quelli che vogliono “ereditare la vita eterna”.
Il contesto più immediato è quello della missione dei 72 discepoli e del loro ritorno da Gesù (10,1-20) con il canto di lode di Gesù al Padre. All’amore del Padre che scende sulla terra (e ai prodigi che compie nella missione dei discepoli) risponde l’amore dei figli e fratelli che si innalza fino al cielo. 
In questo contesto si innesta la parabola del buon samaritano, sintesi del discorso della pianura: "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (6,36).
La misericordia non ha bisogno di un codice di leggi per manifestarsi; dipende solo dalla sensibilità delle persone in relazione alla vita, soprattutto quella dei bisognosi.
La parabola del buon samaritano “riassume una storia ed un’esperienza di amore infinito, tuttora in atto: la storia di Cristo, che per tutti noi si è fatto Samaritano misericordioso e perdonante (Gv 8,48)” (S. Cipriani).

Meditare   
v. 25: Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
C’è un preciso istante della vita, un preciso istante per chiarire ma anche per creare disordine. In questo preciso istante, un dottore della legge, cioè un esperto della Torah e di questioni teologiche mette alla prova Gesù, crea disordine con chi è l’ordine per eccellenza.
Davanti abbiamo la parabola della vita. Essa è provocata da questa domanda che viene rivolta a Gesù circa la vita eterna: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
Quanti dubbi dietro a questa domanda. L’esperto o chi crede di essere a posto, pone la domanda che ogni uomo si pone quando è posto dinanzi al senso del proprio esistere nel mondo: cosa bisogna fare per avere la vita in pienezza? Il suo problema è ereditare la vita, entrare nella vita. Ereditare è il verbo che normalmente viene usato per parlare del rapporto con la terra promessa, la terra nella quale si entra.
La parabola è quindi rivolta ad ogni uomo, la parabola è rivolta a ciascuno di noi.
vv. 26-28: Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
Gesù mostra apprezzamento nei confronti del dottore della legge, e questo è importante. Egli non risponde alla domanda, ma stimola il dottore della legge a riandare alle conoscenze che gli appartengono e lo contraddistinguono; lo rimanda alla Legge, rimanda l’ascoltatore alla conoscenza della volontà di Dio che si manifesta nel suo comandamento. Lo rimanda ad esprimersi in prima persona. Essa, la Torah, contiene gli elementi sufficienti per poter sciogliere ogni dubbio. Ascoltali bene, ascoltali col cuore.
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso»
L’esperto risponde citando subito il grande comandamento: “Shema Israel” che ogni pio ebreo conosce a memoria aggiungendo il comandamento dell’amore del prossimo; in poche parole la sua risposta è amore di Dio e amore del prossimo.
La risposta è la saldatura di due passi biblici (Dt 6,5 e Lv 19,18). Essa è solida e forma un solo comandamento, la cui osservanza assicura la vita eterna.
Avere la vita eterna è fare il bene, lasciando però che sia Dio a determinare il senso delle nostre relazioni. Se non abbiamo la coscienza che la carità "c’entra" col nostro rapporto con Dio e con gli altri, essa rimane un qualcosa per il tempo libero. Essa invece è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo.
«Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Gesù conferma il comandamento e invita quotidianamente a viverlo. Ma questa conferma è esplicitata da un “fare”, quasi a dire come se non si osservasse appieno questo precetto, come se si dimenticasse che la carità è il senso e la méta di ogni giorno.
La parola di Gesù è inequivocabile. Ci invita ad abbattere le barriere e gli steccati che frapponiamo tra noi e tanti altri che secondo i nostri gretti giudizi non meritano di stare a contatto con noi o di essere aiutati da noi. L’amore verso il prossimo non ha confini e non deve essere grettamente calcolato secondo i nostri parametri umani. Altrimenti, anche se crediamo di essere cristiani, non lo siamo per niente.
v. 29: Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
Cerchiamo sempre giustificazioni, anche dinanzi a Gesù. Si vive fuori dalla realtà, tra le nuvole e non sappiamo da chi siamo circondati. E facciamo domande. Quale senso ha questa domanda?
In greco è usata una parola che vuol dire “vicino” Vicino può essere un avverbio; con davanti l’articolo diventa un sostantivo: “il vicino”, “il prossimo”. Se non ha l’articolo può diventare preposizione, per esempio: “vicino ad uno”, “vicino a”. Il dottore della legge dice: “chi è vicino a me”? Continua ad essere una domanda priva di senso. Si conosce che bisogna amare Dio, amare il prossimo ma non si conosce non solo il prossimo ma anche Dio: “Chi non ama il fratello che vede come può amare Dio che non vede?”(1Gv 4,20).
v. 30: Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico
Gesù non risponde alla domanda perché il prossimo non si può racchiudere in una risposta. Egli racconta una parabola. Nel raccontare, Gesù narra se stesso come parabola perché nessuno possa dire: non lo sapevo. Noi pensiamo: “a me chi è vicino? A me chi pensa? Di me chi si prende cura? Chi mi sta dietro”? È questo il problema; la parabola, infatti, va proprio in questa direzione: chi si è avvicinato? Chi è vicino a me?
Se il comandamento di Dio può apparire come una legge esterna, la storia di Gesù lo precisa in una figura personale.
Abbiamo un uomo, un viandante. Di lui non sappiamo nulla. Non abbiamo nessun identikit. Davanti a Dio siamo tutti uguali, non occorre descrivere l’identità o il ruolo.
Si racconta qui la vicenda di ogni uomo e donna che camminano in questo mondo. Si racconta l’umanità. Ognuno, infatti, è portatore di un bisogno, è destinatario della nostra azione.
Di questa umanità sappiamo solamente che stava tornando da Gerusalemme ed era diretta a Gerico. Sembra però che ci sia un cammino a ritroso.
Ricordiamo che Gesù sta andando a Gerusalemme, perché l’uomo va nella direzione opposta? Egli è un uomo che ha sbagliato strada.  
e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Viene detto della sua disavventura fino ad essere “mezzo morto”. L’espressione vuol dire evidentemente nel crinale tra la vita e la morte. Forse può vivere, forse morirà, è lì a metà; vive ma non possiede una vita sicura, chiara; rischia di morire ma non è morto, c’è ancora speranza, è in quella sottile linea di divisione tra vita e morte.
Quest’uomo è il dottore della legge – guarda, questo sei tu –; Gesù sta parlando di lui, sta rispondendo a lui. – Vedi, tu ti trovi in questa condizione, sei quel tale che ha sbagliato strada, ma non è per forza colpa tua: ci sono i briganti in giro per il mondo, e poi comunque è così, poi scivoli, poi ti ammali, ti trovi imbrigliato in situazioni insopportabili e non ti puoi più sollevare.
vv. 31-32: Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Di fronte alla carità a volte anche noi ci facciamo dei falsi alibi, persino rivestiti di una giustificazione religiosa, come è successo al sacerdote e al levita: essi contrappongono il loro servizio religioso e il culto all’esercizio della carità. Non si accorgono che il culto a Dio è riferito alla comunione con Dio e con gli uomini: culto e carità sono un segno, che in modo diverso costruisce l’unica comunione.
I due evitano il ferito; non si sa il motivo, l’evangelista non lo descrive forse addirittura per obbedienza alla Legge: se infatti il ferito fosse già morto, toccarlo significherebbe cadere in una forma di impurità che la Legge ebraica vietava.
Non giudichiamo troppo severamente il sacerdote, perché lui è un sacerdote e deve mantenere uno stato di purità, ha i suoi doveri, le sue responsabilità.
La parabola contesta le false alternative tra Dio e l’uomo, tra azione e contemplazione, tra preghiera e impegno. Pur nella diversità delle vocazioni l’armonia tra parola e gesto deve sempre essere presente. Ci deve essere equilibrio tra il momento in cui si riconosce la priorità e l’assolutezza di Dio nel culto e nella contemplazione orante e il momento in cui questa assolutezza si fa carne e storia nel riconoscimento dell’altro.
Anche noi "passiamo oltre" quando la necessità della vita cristiana è solo un ripiegamento su di sé, o la religione è solo uno strumento di affermazione, o ancora quando il nostro servizio è solo una forma di gratificazione che non ha stabilità, che è solo efficientismo.
Proseguendo sulla nostra strada evitiamo la sfida della carità che chiede di istruirci sul mistero di Dio e sul nostro rapporto con gli altri.
vv. 33-34: Invece un Samaritano, che era in viaggio
Qui inizia la svolta della parabola: è passato un sacerdote, è passato un levita, ora passa un terzo personaggio e uno istintivamente si aspetterebbe un’altra persona religiosa o appartenente a qualche congrega, e invece tocca a uno straniero. Un samaritano, uno di fede imperfetta (impuro, scismatico, eretico), se non addirittura un nemico. I samaritani non appartenevano neppure pienamente al popolo di Dio: eppure proprio un samaritano riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui.  
Il Samaritano era in viaggio: questo è il viaggio nel senso forte del termine. Il salmo 84 dice: “..il santo viaggio. Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio”. È il viaggio della salita a Gerusalemme. E qui c’è un samaritano, unico, che va controcorrente, che sale. Il Samaritano rappresenta Gesù, è lui il viandante che sale a Gerusalemme. È lui il custode (= Samaritano) di Israele (Sal 121,4).
passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
In greco, il verbo “si commosse” è il medesimo con cui si indica la commozione profonda di Gesù a Nain o quella del padre del figlio prodigo nel vedere il figlio tornare a casa. Ecco l’essenziale: chi soccorre il povero si è identificato con l’atteggiamento di Gesù e di Dio, ha capito chi è Dio.
Il Samaritano gli si fece vicino. “Chi viene vicino a me?” dicevamo prima. Solo chi è capace di “fare misericordia” si fa vicino.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 
Sono i gesti di compassione e di vicinanza del samaritano. Il provare profonda emozione, il chinarsi, il portare in braccio, il curare e fasciare le ferite ricordano alcuni indimenticabili passi di Osea sull’amore di Dio verso Israele. L’amore di Dio è il cuore della legge, ma amarlo vuol dire lasciarsi plasmare da Lui fino a far diventare la propria vita una trasparente immagine del chinarsi misericordioso di Dio sulle sue creature.
v. 35: Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
Anche in questo versetto ricordiamo i gesti dell’azione divina. C’è un sovrappiù della carità di Gesù: egli pensa anche al dopo. C’è una caparra e c’è una promessa. Si apre lo spazio e il tempo della nostra libertà in attesa del suo ritorno. È questo il tempo della nostra carità, della possibilità che ci è data di ritrascrivere la figura del buon samaritano. Il riferimento è alla carità pasquale di Gesù, nella consapevolezza che la "differenza" della carità di Gesù non è un freno ma è la sorgente della nostra missione.
Tutte le forme, piccole o grandi, in cui molti esprimono la loro dedizione, sia nel gesto volontario, sia nella dedizione con cui svolgono il loro lavoro quotidiano, sono frammenti preziosi che alludono all’insuperabile ricchezza del gesto pasquale. Bisogna quindi saper guardare con gli occhi e il cuore di Dio per riconoscere il bisogno e il bisognoso, e fermarsi per servirli. Siamo chiamati a riconoscere l’origine del nostro agire: il nostro operare si fonda nella carità di Dio, che vuole che ogni uomo viva una vita piena. Per questo occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno e sia posto nella condizione di scegliere liberamente per il bene.
v. 36: Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».  
Gesù ha capovolto dunque la domanda iniziale: la questione vera non è chi è il prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Spinge il dottore della legge a partire da un preciso punto di osservazione: a partire dalla situazione dello sventurato. La prossimità non è una situazione, una persona, un fatto ma è una relazione da istituire. Trovare il prossimo significa farsi prossimo, leggere e scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità.
Il dottore della legge viene invitato a prendere posizione a sua volta, ma non dalla parte di chi può fare del bene, bensì di chi è nella sventura.
Solo dopo potrà operare da prossimo. Solo così ci si introduce seriamente nel concetto di prossimità. Non si può definire il prossimo a partire da se stessi. Gesù fa notare che la carità non è solo un fare ma è un capire, è scegliere: ci vuole una intelligenza della carità.
La carità chiede testa e cuore, chiede di comprendere le cause senza fermarsi solo a tamponare gli effetti.
Ci vuole quindi una carità che comprende, che non dà tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.
v. 37: Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».
La parola compassione (patire con) non è l'elemosina di chi è qualcosa verso chi non è nessuno, ma è il vivere insieme la passione per la vita. Infatti, la sua etimologia ci spinge a sentire dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi.
Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
L’esperto della Legge questo l’ha inteso bene! Gesù quindi conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione, è invio, è un riprendere le orme di Cristo Gesù nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede tempo, vuole disponibilità totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in un stabilità di vita. Questa è la vita eterna: fare lo stesso tragitto che ha scritto Gesù, abitare il luogo della nostra infermità.

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato

La Parola illumina la vita e la interpella
Rileggendo questa Parola, dove mi colloco?
Sono alla ricerca della vita eterna? Come la ricerco?
Faccio il cammino a ritroso o con Gesù verso Gerusalemme?
Sento anche io passione per la vita avendo lo sguardo di Gesù che supera ogni confine?

Pregare Rispondi a Dio con le sue stesse parole
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.

I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.

Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.

Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante (Sal 18).

Contemplare-agire  L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità…
Abbandoniamoci all’azione dello Spirito Santo  per aderire col cuore e la mente al Signore che con la sua Parola ci trasforma in persone nuove che compiono sempre il suo volere. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" (Gv 13, 17).