mercoledì 8 dicembre 2021

LECTIO: III DOMENICA D'AVVENTO (Anno C)

Lectio divina su Lc 3,10-18
 
Invocare
O Dio, fonte della vita e della gioia, rinnovaci con la potenza del tuo Spirito, perché corriamo sulla via dei tuoi comandamenti e portiamo a tutti gli uomini il lieto annunzio del Salvatore, Gesù Cristo tuo Figlio.
Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
10Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». 13Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». 15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 17Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
18Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Nella tradizione liturgica la terza domenica di Avvento ha un carattere gioioso (domenica Gaudete) che si riflette nell’antifona d’ingresso ricavata da Fil 4,4-5, nelle prime due letture e nel cantico di Isaia. Anche il vangelo, con l’annuncio della buona notizia al popolo da parte di Giovanni Battista, si unisce a questa gioia.
Il testo evangelico proposto dalla liturgia domenicale, Lc 3,10-18, fa parte dell'esposizione lucana della predicazione del Battista come preparazione al ministero di Gesù.
Giovanni Battista annunzia la venuta imminente del giorno del Signore: «Razza di vipere, chi vi ha insegnato a sfuggire all'ira imminente» (v.7). I profeti avevano annunciato la venuta di questo giorno di ira e di salvezza, come pure la venuta di un messaggero riconosciuto come Elia (Sir 48,11), che preparasse la via davanti al Signore (Mal 3,1-5).
Nella tradizione cristiana Giovanni Battista è il messaggero che prepara il giorno della venuta del Signore Gesù, il Messia: «viene uno che è più forte di me» (v.16). Il ministero di Giovanni infatti si svolge in un tempo di grandi aspettative messianiche: «il popolo era in attesa» (v. 15) e chiede al Battista se era lui il Messia. Questa domanda, che sarà confronto con la persona di Gesù (Lc 9,7-9.18-21) che di seguito, rivela la sua identità con la confermazione implicita della professione di fede di Pietro, è anticipata da un’altra domanda posta da tre ceti sociali: che cosa dobbiamo fare?.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 10: Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?».
Da quelle stesse folle che da Giovanni erano state paragonate a delle vipere (v.7), l’annuncio del regno suscita una domanda: cosa dobbiamo fare?
La domanda è una sfida provocatoria da parte delle folle che vengono da lui. «Le folle» hanno capito che la fede è qualcosa di concreto; che le opere sono l’espressione della genuinità della fede. “L’intuizione di questa domanda viene dai rapporti interpersonali che si sono stabiliti. Infatti, se vuoi comprendere quello che un altro sta dicendo, devi assumere che ha ragione e chiedergli di aiutarti a vedere le cose e gli eventi dalla sua prospettiva” (Marianella Sclavi). Queste parole aprono delle prospettive nella vita.
Inoltre, la domanda delle folle è molto importante perché implica un cambiamento totale del nostro modo di agire: è la metànoia, vale a dire fare nuova la mente.
Chiedere a Giovanni cosa dobbiamo fare è un atto di coraggio e vuol dire prendere sul serio la venuta del Figlio dell’uomo. È l’inizio di un cammino di conversione.
v. 11: Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare faccia altrettanto».
Il Battista non dice di avere una sola tunica, né di dividere la propria, ma di dare quella di riserva a chi non ne ha. È la condivisione: far parte agli altri di quello che si ha. Non si può, infatti, essere felici da soli! La felicità chiede di essere raggiunta insieme, condividendo quello che si ha, in semplicità.
Si tratta dunque di un impegno forte che presuppone un vero cambiamento di mentalità. In questo caso la predicazione del Battista si allinea alla tradizione profetica che da questo punto di vista trova la sua espressione migliore in Is 58,6-10.
Gesù proporrà di “lasciare tutto” a chi vorrà seguirlo in modo speciale. Il primo frutto della conversione che viene chiesto da Giovanni è la carità. Si tratta di una vera condivisione delle proprie sostanze, una metà delle quali va data ai poveri.
Giovanni non pretende che i suoi ascoltatori siano degli eroi, ma che inizino a convertirsi dalla relazione, dando il giusto posto all’uomo. Vivano la misericordia, il concreto amore del prossimo, la solidarietà sociale.
vv.12-13: Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?».
Anche i pubblicani pongono la stessa domanda. Essi erano ebrei esattori del denaro “pubblico”, ossia delle tasse destinate all’impero romano. Detestati dagli Ebrei come collaborazionisti, avevano il diritto di esigere qualcosa in più per il lavoro che svolgevano rispetto alle tasse che i romani chiedevano. L’opinione pubblica li associava ai peccatori. Dire pubblicano e dire ladro era in quel tempo la stessa cosa, perciò nell'evangelo si trovano in coppia coi peccatori (Lc 5,30;7,34;15,2;19,7). Anche i pubblicani sono disponibili alla conversione; anzi fin dal principio sembrano i primi disponibili (cfr. 7,29.34;15,1;18,9ss;19,lss).
I pubblicani incarnano la cupidigia del guadagno, la malafede, il tradimento verso il proprio popolo, perché spesso stavano al servizio dei dominatori stranieri. Neppure loro sono esclusi dalla strada verso la salvezza, per questo pongono la stessa domanda.
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Giovanni non esige che abbandonino il loro mestiere di gabellieri, ma che non arricchiscano frodando. Qui il secondo frutto della conversione: la giustizia. Più tardi Gesù tratterà il pubblicano Zaccheo come fa ora Giovanni.
Secondo Giovanni i pubblicani qualche volta avevano agito onestamente e perciò dovevano continuare a non esigere più del fissato.
Giovanni, inoltre, non li vuole distogliere da questa occupazione (condannata senza appello dall’opinione pubblica ebraica) intendendo perciò che anche in quella condizione ci si poteva mantenere onesti.
A Levi, Gesù dirà diversamente: da lui esigerà l’abbandono perché incompatibile con l’essere apostolo del vangelo (cfr. Lc 5,27-28).
v. 14: Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe».
Ancora per una terza volta ritorna la domanda. Questa volta da parte di “alcuni soldati”. Questi erano pagani perché ai giudei era proibito il servizio militare.
Che dei pagani, dei pubblici peccatori vadano da Giovanni e pongono la stessa domanda vuol dire che ogni restrizione è superata, che «Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio» (Lc 3,6).
I peccati consueti del militare sono il latrocinio vessatorio, l'estorsione con false denunce, l'abuso di potere. La radice di questo modo di agire è l'avidità. L'avidità delle ricchezze deve essere sostituita con la soddisfazione dello stipendio guadagnato onestamente. Neanche ai militari viene chiesto di cambiare professione.
La conversione non riguarda tanto il mestiere che uno esercita, ma il cuore. In queste tre categorie di persone: folle, pubblicani, soldati ciò che manca è la relazione con l’altro prima che con Dio. Devono essere capaci di saper dare il giusto posto all’uomo, per poi amare anche Dio fino al desiderio di incontrarlo.
vv. 15-16: Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua;
Al tempo del Battista, il popolo era in attesa delle profezie che erano state fatte ai loro padri: la fine di un mondo antico per un mondo nuovo, umano.
L'evangelista piace far emergere la problematica che investiva la predicazione e l'opera del battista (cfr. Gv 1,25). I toni usati e il contenuto della predicazione di Giovanni e non solo, anche il suo atteggiamento ha fatto sì che la gente pensasse che egli fosse il messia atteso (cfr. Gv 1,19-23). Infatti, in quel tempo era largamente diffusa l'aspettativa messianica (cfr. 17,20-219).
Il Battista, però, preferisce chiarire questo problema contrapponendo il proprio battesimo a quello di Gesù. In altre parole il battista descrive e stabilisce la superiorità di Gesù su di lui. Dice che il battesimo che lui compie con acqua pulisce l’esterno e anticipa quell’acqua che pulisce l’interno, che è linfa di vita: è lo Spirito di Dio.
ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
L’autorevolezza con cui Giovanni parla è garantita da quello che lui dice a proposito di uno che non nomina. Giovanni usa questo termine: viene uno, egli vi battezzerà, egli tiene in mano, egli raccoglierà. Giovanni si rende conto che c’è qualcosa che va oltre lui. Colui che verrà, innanzitutto per il fatto che viene, dice che l’attesa non può essere consumata, non può finire. La sua vita rimanda a qualcuno che viene dopo di lui.
Non siamo noi l’ultima parola di Dio nei riguardi del mondo. Non siamo noi coloro che le persone devono guardare. Dobbiamo meditare molto sul fatto che Giovanni indichi Gesù come il Veniente, colui che ci viene incontro, come qualcuno di cui anche lui non sa esattamente che cosa sarà.
Colui che viene è colui al quale non siamo nemmeno degni di allacciare i lacci; stando bene attenti però: colui al quale non siamo degni di allacciare i lacci è colui che si è fatto indegno. Cioè noi siamo indegni di un indegno. Questo contrasta con tutte quelle cariche che venivano ricordate domenica scorsa. Siamo in un discorso stridente: non c’è tolleranza tra le cariche e la condizione che Giovanni dice di sé e che il Cristo dirà di sé. La venuta del Figlio dell’uomo è la venuta di colui che non possiamo nominare, nel senso che non ci possiamo dire chi sarà. Possiamo dire che è più forte di noi, che viene dopo di noi, che la storia non ha l’ultima parola, che i potenti non hanno l’ultima parola. Ed è colui che verrà e che ci immergerà nello Spirito Santo e nel fuoco.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
In Luca “forte” equivale a un titolo messianico. Gesù è il Forte. La prova di questa sua forza è nel dono che arreca: il battesimo definitivo in Spirito Santo e fuoco, a cui il battesimo di acqua è preparazione provvisoria. Giovanni si qualifica semplicemente come voce che esorta e che indica all’uomo il sentiero da seguire, per diventare terreno pronto ad accogliere i doni del Messia, che sono il perdono e lo Spirito Santo.
Luca oppone il battesimo di acqua amministrato da Giovanni al battesimo in Spirito che sarà inaugurato alla Pentecoste. Lo Spirito, in questo caso, non è uno strumento, ma una presenza attiva. Gesù ci otterrà l’immersione nella vita stessa di Dio, nel suo Spirito.
Il fuoco, in modo meno esteriore dell’acqua simboleggia l’azione purificatrice di Dio. Luca vede certamente in questa parola un annuncio della Pentecoste: la discesa dello Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco. Questa immagine deve significare per lui l’opera purificatrice dello Spirito. Il fuoco tuttavia è anche segno della presenza di Dio (il roveto ardente). Il battesimo in Spirito Santo e fuoco è perciò partecipazione alla vita stessa di Dio.
v. 17: Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».
I profeti hanno sovente annunciato il giudizio di Dio attraverso l’immagine di scene di mietitura. Il giudizio di Dio collegato all’annuncio della buona novella (del versetto successivo) ci fa pensare “all’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. Allora la pula, il nostro peccato, sarà estinto per sempre e “brucerà con fuoco inestinguibile”.
L'autore di questo Vangelo, cioè Luca, è definito da Dante Alighieri “Scriba mansuetudinis Christi”. Colui che ha raccontato lo stupore e la commozione di Gesù. Questo fa capire che Egli conferisce un suo tocco particolare al suo vangelo, tratteggiando un Messia diverso da quello atteso da Giovanni. Non un Messia che viene con il ventilabro, cioè una larga pala di legno usata sull'aia per separare dal grano la pula spargendola al vento. Quindi, non un Messia proteso a pulire e spazzare violentemente via i peccatori come la pula, separandola dal grano; ma un Messia che dichiara all'umanità la bontà di Dio e la sua continua ricerca del peccatore, per riportarlo, come ci insegna la mirabile parabola del figliuolo ritrovato, nell’abbraccio del Padre.
v. 18: Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
Qui abbiamo una conclusione del ministero di Giovanni Battista. L’Evangelista descrive le parole del Battista definendole “esortazioni” e il suo annuncio lo chiama “buona notizia”, il Vangelo. Il Battista annuncia già il Vangelo perché è totale apertura a colui che deve venire per donarci lo Spirito e il fuoco. Ecco il compito principale del Battista: non è quello di annunciare un messia giudice, ma salvatore. Si può dire che nel trattare il ministero e la missione di Gesù, Luca ci fa vedere il perfezionamento della predicazione e dell'annuncio Giovanneo.
Qui si può fare riferimento a ciò che Gesù dirà, nel successivo capitolo, nella sinagoga di Nazareth: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udito con i vostri orecchi» (Lc 4, 21).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Attendo la venuta del Signore, o sono tutto preso dalla vita materiale, e per conseguenza, attaccato disordinatamente a tutto ciò che passa?
Sono attento a vivere la mia specifica vocazione? Mi identifico nei poveri e umili di cuore?
Cosa faccio per preparare la seconda venuta del Signore? Cosa faccio per promuovere la giustizia in un mondo che sembra tirare avanti con strutture di ingiustizia sociale?
Sono consapevole che la gioia vera è legata alla persona di Gesù e al nostro rapporto con Lui, cioè alla conversione, e che più cresce questa, più cresce la gioia?
Chi ci incontra riconosce in noi delle persone felici e capaci di infondere serenità e speranza?
Sono convinto che la gioia e l'amore sono inseparabili e che far felice qualcuno è una forma squisita di carità, fonte anche di gioia per noi stessi?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Ecco, Dio è la mia salvezza;
io avrò fiducia, non avrò timore,
perché mia forza e mio canto è il Signore;
egli è stato la mia salvezza.
 
Attingerete acqua con gioia
alle sorgenti della salvezza.
Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome,
proclamate fra i popoli le sue opere,
fate ricordare che il suo nome è sublime.
 
Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose eccelse,
le conosca tutta la terra.
Canta ed esulta, tu che abiti in Sion,
perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele (Is 12).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Nel silenzio del cuore incontra il Signore e il suo Vangelo, perché possa spazzare tutto ciò che rende infelice.