Lectio divina su Mt 16,13-9
O Dio, che ci doni la grande gioia di celebrare in questo giorno la solennità dei santi Pietro e Paolo, fa’ che la tua Chiesa segua sempre l’insegnamento degli apostoli, dai quali ha ricevuto il primo annuncio della fede.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Oggi la Chiesa celebra, in un'unica solennità, i santi Pietro e Paolo, due colonne che hanno contribuito alla crescita delle prime comunità cristiane. Pietro e Paolo erano molto diversi, tanto da non farsi mancare tra loro accese discussioni, ma che alla fine hanno dato la loro vita per Cristo Gesù. Il brano posto alla nostra meditazione riguarda la fede e la missione di Pietro.
Nella sezione che intercorre tra il terzo e il quarto dei discorsi di Gesù tipici del suo vangelo (cc. 14-17), Matteo riporta la sezione marciana che va dalla visita di Gesù a Nazareth fino al secondo annunzio della passione (Mc 6,1-9,32). Dalla terza parte della sezione di Matteo (16,13-17,27), di carattere più esplicitamente ecclesiologico, la liturgia riprende anzitutto, con qualche ritocco, il brano iniziale, cioè la professione di fede di Pietro.
In Matteo, diversamente da Marco, questo brano occupa un posto centrale, in quanto egli ha scritto il vangelo con lo scopo di proclamare la messianicità di Gesù. Infatti, l’episodio di Cesarea di Filippo rappresenta una delle grandi svolte del racconto di Matteo.
Gesù sta gettando le fondamenta della Chiesa, la realtà che continuerà a renderlo presente e operante nel mondo dopo la sua morte, risurrezione e ascensione al cielo e l’Evangelista mette in risalto la figura di Pietro, come colui sul quale si fonda la Chiesa di Cristo.
Nel brano possiamo cogliere un’esperienza di conoscenza e di fede sul mistero della persona di Gesù. Due elementi del cammino che non si conquistano con i meriti né con i ragionamenti. La fede è dono di Dio Padre. Questa stessa fede ha accompagnato quei personaggi che la storia biblica ci ricorda ancora oggi e che si ricongiunge all'apice nel Figlio di Dio.
Ancora oggi, anche noi, possiamo rivivere questa stessa esperienza!
vv. 13-14: Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell'uomo?».
Siamo a Cesarea detta “di Filippo” (per distinguerla da "Cesarea marittima"), sulle pendici meridionali del Monte Ermon, presso una delle sorgenti del fiume Giordano, luogo importante per Gesù in quanto è uno dei vertici del mistero evangelico. Questa Cesarea era chiamata anche Paneas - oggi Banyas - per la sua prossimità al Panèion, cioè al santuario di Pan, il dio pagano della natura.
Siamo a una svolta del Vangelo e Gesù ha preso la decisione e darà il via al suo cammino doloroso, che lo porterà sula croce. Lui ha chiara la sua identità ma ha bisogno che anche i suoi la riconoscano e sceglie ancora una volta un luogo pagano.
Il giungere di Gesù indica che questa è l''ora in cui la fede deve svegliarsi. «Perciò anche voi tenetevi pronti perché, nell'ora che non immaginate, viene il Figlio dell'uomo» (Mt 24,44). Scrivendo ai Corinti, Paolo raccomandò «Vigilate, state saldi nella fede, comportatevi in modo virile, siate forti» (1Cor 16,13). Stare svegli ha dunque relazione col rimanere fermi nella fede cristiana. Quindi, è il tempo delle domande decisive per la fede dei discepoli in Lui, nella sua identità reale. Proprio una domanda simile era stata posta a Lui dai discepoli del Battista (Mt 11,2-3). Gesù aveva rimandato allora alle opere messianiche ed alla beatitudine di chi non avrebbe subito scandalo da Lui (cf. Mt 11,6).
L’espressione greca “il Figlio dell'uomo”, traduce due espressioni diverse fra loro di significato. La prima (bar-adam) indica l'uomo in quanto creatura, debole; la seconda (bar nash) indica il principe ereditario e colui che è cittadino di pieno diritto, libero. Con Daniele quest'ultima espressione passò ad indicare il capo del popolo di Dio, diventando così un titolo specificatamente messianico (cf. Dn 7,9-10).
Ora Gesù fa una domanda che si colloca tra fede e rifiuto o tra vigilanza e sonno. La folla è facile agli entusiasmi, ma la loro adesione di fede è minacciata dalla superficialità. Ecco che nasce la domanda: l’umano che io incarno, la gente che ne dice, a chi somiglia? È un interrogatorio trepidante per capire qualcosa di Colui che ha fatto il primo passo, che ha amato per primo (cf. 1Gv 4,19); se l’amore di Dio è entrato nei cuori. La risposta, infatti, dovrebbe essere di fede perché colloca la propria vita su un terreno solido: Gesù.
Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti».
Le risposte di diversa provenienza sono varie, vaghe, di diversa prospettiva che ritroviamo nel Vangelo di Marco (cf. Mc 8,28). Gli interlocutori partono dal basso citando personaggi biblici che hanno avuto una funzione liberatrice a favore del popolo. Risposte tipiche di brave persone religiose che si rifanno a un sapere antico: Gesù assomiglia a Giovanni il Battista, perché Gesù non si piega come le canne sbattute dal vento (cf. Mt 11,7); assomiglia a Geremia che ha contestato i riti al tempio la cui adesione a Dio non parte dal cuore (cf. Ger 7,1-20); poi assomiglia ad Elia colui che ha rifiutato ogni compromesso con gli idoli. Visto anche atteso precursore del Messia (cf. Mt 3,23) rapito, poi, al cielo in modo miracoloso e sarebbe ritornato all'arrivo del futuro messia.
Nelle varie risposte date si ha una definizione di Gesù che tenta di avvicinarsi alla sua identità. Tra le risposte però, nessuno considera Gesù come Colui che adempie la promessa o che è la promessa del Padre. Nessuno accoglie (o coglie) la sua originalità! Occorre trovare il giusto modo di stare davanti al Signore per dare la giusta risposta. Occorre fare il passaggio dal sapere al vero incontro.
v. 15: Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?».
Il nostro rapporto con Gesù inizia con questo rivolgersi di Gesù direttamente ai discepoli: «voi». “Dopo 16 capitoli” Gesù cambia gioco e pone una domanda diretta. Questa domanda, accompagnata dalla particella «ma» supera ogni sapere umano, culturale. È una domanda che ti mette in gioco, dove riscoprire il senso della fede. Una domanda fondamentale della fede cristiana che si fa relazione con Gesù. È una domanda per l’uomo maturo e ognuno dà la sua risposta; ognuno matura l’amore che Dio gli ha versato nel cuore. È un amore che si fa “consegna”, perché Gesù si “consegna” e chiede di riconoscerlo attraverso una “consegna” di lui a noi.
Qui troviamo il senso della fede che non si basa su uno schedario storico ma sulla propria maturazione, su cosa significa Lui per me, per la mia vita.
v. 16: Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».
I discepoli alla domanda non rispondo. È Simon Pietro che prende la parola, forse facendosi portavoce degli altri, dando una comune risposta che troviamo nei Sinottici: Gesù è il Messia (cf. Mc 8,29; Lc 9,20). Gesù è l’Unto di Dio, il Cristo di Dio, l’inviato da Dio dopo tutti i profeti. La sua parola è l'ultima parola di Dio, la quale, secondo la credenza dei rabbini, è la spiegazione definitiva della Torah. Il segno grande e conclusivo che Dio pone nel mondo.
Nel dire “Tu sei il Cristo”, Pietro riconosce in Gesù quel compimento di Dio, la speranza, l’atteso, il Messia, la salvezza. Nel dire “Figlio del Dio vivente”, Pietro supera la prima parte della risposta: “Tu sei Dio stesso” (la caratteristica di “vivente” è propria di Dio) che si dona all’uomo.
Questo è Gesù per Pietro. Questa è la fede di Pietro e la fede della Chiesa, che non è solo un’affermazione dogmatica, è qualcosa di molto di più. Solo nella relazione con Lui si può capire questo, si può capire che Gesù è il Cristo il Figlio di Dio, è il mio Signore, l’atteso. È la mia speranza, la mia salvezza, tutto.
Questa confessione di Pietro non è nuova. Prima, dopo aver camminato sulle acque, gli altri discepoli avevano già fatto la stessa professione di fede: “Veramente, tu sei il figlio di Dio!” (Mt 14,33).
Nel Vangelo di Giovanni, questa stessa professione di Pietro la fa Marta: “Tu sei il Cristo, il figlio di Dio venuto nel mondo!” (Gv 11,27).
La confessione di fede comporta un cambiamento di mentalità e l’impegno della sequela. Il riconoscimento di Gesù Messia non è un impegno verbale, ma accoglienza del Messia servo sofferente, che attraverso la croce realizza la volontà del Padre. Chi pronuncia il credo con le labbra chiama in causa la propria vita, si compromette con la croce. Credere non è una convinzione religiosa ma è partecipazione della vita di Gesù, del suo stile, della sua obbedienza filiale al Padre. Non vi può essere confessione autentica di fede senza un autentico coinvolgimento di se stessi e della propria vita.
v. 17: E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli.
Gesù risponde a Simon Pietro proclamandolo “Beato”, perché non può giungere da solo, con i suoi soli sforzi umani a riconoscere in Gesù il Messia, la realizzazione piena del regno di Dio, di Dio stesso che regna, è una rivelazione da parte del Padre. Per questo gli dice “beato” perché possiede la somma di tutte le beatitudini.
Nei capitoli precedenti è contenuta già questa risposta. Gesù aveva fatto un’identica proclamazione di felicità ai discepoli per aver visto e udito cose che prima nessuno sapeva (Mt 13,16), ed aveva lodato il Padre per aver rivelato il Figlio ai piccoli e non ai sapienti (Mt 11,25). Simone è uno di questi piccoli a cui il Padre si rivela. E di questa conoscenza Pietro ne è partecipe.
Gesù chiama Simone figlio di Giona. Nella cultura ebraica, il termine “figlio”, non indica soltanto chi è nato da qualcuno, ma chi gli assomiglia nel comportamento. Gesù dicendo a Simone figlio di Giona, richiama il profeta Giona che fece tutto il contrario di quanto Dio gli aveva detto di fare, e che, nella sua infedeltà riscopre la Parola di Dio attraverso il naufragio del mare.
Gesù applica a sé stesso il segno di Giona come passaggio attraverso la morte. A sua volta, anche Simone dovrà fare il suo passaggio attraverso la morte per risorgere con Cristo (cf. Mt 14,30-31), essere consacrato discepolo e divenire con Gesù figlio del Padre.
vv. 18-19: E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.
Alla fede di Simone, figlio di Giona, Gesù consegna un nome nuovo che è Kefa, nome che fu poi tradotto in greco Petros, in latino Petrus. Il nome fu tradotto in quanto non era solo un semplice nome, era in pratica un “mandato” che Petrus riceveva in quel modo dal Signore. Da quel momento questo nuovo nome soppianterà il nome originario Simone.
Kefa, che vuol dire Pietra, è un segno classico dell’Antico Testamento per indicare che Dio aveva scelto fra tutte una roccia e una costruzione: il monte Sion e il suo santo tempio, per porvi la sua abitazione e stare vicino al suo popolo (cf. Am 9,11; Sal 127,1; 68,17). È il segno di quella fiducia che solo Dio può dare in modo incrollabile ed è per questo che il Salmista canta: «Ti amo, Signore, mia forza, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore, mia rupe in cui mi rifugio» (Sal 18,1-2). Questa è la motivazione per cui Simone è chiamato Pietro.
Nel Nuovo Testamento la pietra fondante è un simbolo applicato solo a Cristo e a Pietro. Gesù sta costruendo la chiesa, e certo sarà lui “la pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1Pt 2,4), ma di questa costruzione Pietro è la prima pietra, cioè, deve essere fondamento sicuro per la Chiesa e parteciperà per grazia alla saldezza della Roccia che è Dio (cf. Sal 17,3.32; 18,15; 27,1, ecc.). Anche Gesù è Roccia. E anche Pietro, per divina disposizione, è roccia, pietra, in Cristo pietra viva.
La Chiesa appartiene a Cristo, la Roccia su cui fonda la sua chiesa. E poi se ne sottolinea la perenne stabilità: la Chiesa è come una casa costruita sulla roccia, anche se poggia apparentemente sulla fragilità degli uomini: “le porte degli inferi non prevarranno contro di essa”. Una stabilità sicura, ma tormentata. Il destino della Chiesa è come quello di Gesù: un cammino tra le contraddizioni.
A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli.
Per il mandato a Pietro, Gesù usa delle immagini. Anzitutto egli sarà il fondamento roccioso su cui poggerà l’edificio della Chiesa. Poi avrà le chiavi del Regno dei cieli, cioè, riceve un potere per aprire e chiudere a chi gli sembrerà giusto. Il simbolo delle chiavi nella tradizione biblica indica autorità e responsabilità. La frase riecheggia Is 22,22 dove Sebna riceve le chiavi del palazzo reale (cf. Ap 3,7). Concedere le chiavi a qualcuno significava ritenerlo responsabile della sicurezza di quelli che stavano dentro. Gesù non dà a Pietro le chiavi per l’accesso all’aldilà, non lo incarica di aprire o chiudere il Paradiso, ma lo ritiene amministratore responsabile di quelli che sono all’interno di questo Regno. Egli, inoltre, potrà legare o sciogliere nel senso che potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa, che è e resta di Cristo e non di Pietro. I termini legare e sciogliere sono proprie del linguaggio rabbinico e significano che uno ha l'autorità di dichiarare giusta o falsa una dottrina (cf. Mt 23,4.13). Contiene anche un linguaggio teologico in riferimento alla dottrina, al disegno di Dio manifestato attraverso le Scritture. A Pietro è affidata la dottrina, la Torà come spiegata da Gesù, quella “giustizia più grande” (cf. Mt 5,17-20) che lui esigeva, con cui dovrà insegnare e guidare, trasmettere e spiegare con autorità nella comunità. Lo stesso potere verrà dato anche alla comunità dei discepoli ma subordinati a colui che è “pietra” (cf. Mt 18,18).
Il “Legare” e “sciogliere” è connesso anche al perdóno dei peccati. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù è risorto e si presenta agli Undici dicendo: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati»” (Gv 20,20-23). Un potere per riconciliare le persone tra di loro e con Dio (cf. CCC 1444-1445).
Il potere delle chiavi, tuttavia, è strettamente legato alla Croce. A Pietro è consegnato lo stesso potere che ha esercitato Gesù in terra, il potere della croce, il potere di offrire la sua vita: è il servizio nella fede, nella verità, nell'amore, nella carità, nell'unione. Questo resta ed è il fondamento della Chiesa.
La promessa fatta a Pietro si concretizza dopo la risurrezione con il mandato di «Pasci i miei agnelli». «Pascola le mie pecore». «Pasci le mie pecore (Gv 21,15ss).
Che esperienza di fede percorro ogni giorno? Sono ancora in cerca di idoli o mi basta il Dio vivente?
Chi è per me il “Figlio dell’uomo” Gesù? Ho mai valutato criticamente le idee che mi faccio di Lui?
Accetto l’autorità della Chiesa nella persona del Papa che mi fa crescere? O mi chiudo, mi difendo, contestandola?
La mia vita è costruita sulla Roccia che è Cristo oppure è un dire "Signore, Signore"?
Sono pronto a intraprendere il cammino della croce con Gesù così come fecero Pietro e Paolo?
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce.
attorno a quelli che lo temono, e li libera.
Gustate e vedete com’è buono il Signore;
beato l’uomo che in lui si rifugia. (Sal 33).