mercoledì 30 ottobre 2024

LECTIO: XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno B)

Lectio divina su Mc 12,28-34

 
Invocare
O Dio, tu sei l'unico Signore e non c'è altro Dio all'infuori di te; donaci la grazia dell'ascolto, perché i cuori, i sensi e le menti si aprano alla sola parola che salva, il Vangelo del tuo Figlio, nostro sommo ed eterno sacerdote. Egli è Dio, e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
28Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». 29Gesù rispose: «Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; 30amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. 31Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi». 32Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; 33amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici». 34Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Abbiamo lasciato la volta scorsa Gesù a Gerico che andava verso Gerusalemme. Adesso lo troviamo da tre giorni a Gerusalemme ove ha operato guarigioni facendo nascere discussioni e minacce di morte.
Il brano appartiene al cosiddetto «libretto delle controversie di Gerusalemme» (Mc 11,27-12,34), ossia a quella serie di confronti aspri che Gesù dovette sostenere nella Città Santa verso la fine della sua vita.
Oggi Gesù affronta la quinta controversia che ha con le autorità religiose. Prima c’è stata la parabola dei vignaioli omicidi (vv. 1-12), poi la controversia con farisei ed erodiani sul tributo a Cesare (vv. 13-17) e infine quella con i sadducei sulla risurrezione dei morti (vv. 18-27). Proprio a questo punto uno degli scribi, visto che Gesù aveva risposto bene, gli fa una domanda sul comandamento più grande, senza cattive intenzioni.
Nella narrazione degli evangelisti Matteo e Luca, lo scriba è qualificato come “dottore della legge”. In Marco l’uomo rimane anonimo e non è mosso dalla volontà di sconfessare il Maestro tanto che, caso unico nei sinottici, sarà lodato per le sue risposte.  
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 28: Allora si avvicinò a lui uno degli scribi che li aveva uditi discutere e, visto come aveva ben risposto a loro, gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?».
Uno scriba che ha assistito fino adesso alle controversie, interviene e gli fa una domanda sul comandamento più grande, senza cattive intenzioni. In quest’uomo appare il desiderio di conoscere e comprendere meglio l'insegnamento della Torah. Allora si avvicina, lo ascolta e gli domanda. Un movimento pieno di verbi che scaturiscono nei precetti del Signore.
I precetti del Signore contenuti nella Torah erano 613, suddivisi in 365 negativi e 248 positivi. Vi era anche una distinzione tra precetti facili e difficili, ma i rabbini raccomandavano di osservarli tutti. Stabilire quale fosse il primo di tutti i comandamenti significava trovare l'essenza di tutta la Legge.
Cosa chiede l’uomo? Non un elenco cronologico dei precetti ma quale è il primo in assoluto o al di sopra di tutti. Non li chiede tutti, perché vuol dire che tutti gli altri sono da interpretare alla luce di questo. Lo scriba desidera sapere quel precetto che risponde a tutta la Legge. Cerca il criterio ispiratore e unificatore per non cadere in un legalismo vuoto e che non da senso all’esistenza.
vv. 29-30: Gesù rispose
La vita dell’uomo dipende dall’obbedienza alla Parola di Dio (Dt 30,15ss) e Gesù risponde all’uomo che è in ricerca partire da quanto è scritto in Dt 6, 4-5 a Lv 19, 18 sottolineando l’unità tra l’amore verso Dio e verso il prossimo. 
Il primo è: Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore
Nei vv. 29-30 abbiamo la prima citazione. Anzitutto il primo invito non riguarda il fare ma l’ascolto. Cioè, non si è chiamati a fare immediatamente delle cose ma a riconoscere la verità propria e la verità del Signore.
Qui viene sottolineato il fondamento della fede ebraica, il “piccolo credo d’Israele” che esprime la devozione e la religiosità ebraica. Davanti abbiamo una preghiera che al tempo di Gesù, veniva recitata al mattino, a mezzogiorno ed alla sera: “Shemà Israel”.
La preghiera è composta da tre testi biblici: Dt 6,4-9 (la fede nell'unico Dio e il precetto di amarlo); Dt 11,13-21 (il principio della retribuzione); Nm 15,37-41 (l'ordine di portare i fiocchi al mantello per ricordarsi di osservare tutti i precetti del Signore). Questa preghiera era anche contenuta nelle capsule dei filatteri, le scatolette che i giudei appendevano alle braccia o alla fronte e che contenevano le parole essenziali della Torah.
Essa dice che la preghiera è anzitutto ascolto, ascolto di un Dio che è unico Signore e che Israele ha il dovere di amarlo con totale dedizione, essendo stato da lui scelto fra tutti i popoli della terra. Il richiamo all’ascolto si fa più necessario in quanto possiamo amare Dio solo nella misura in cui lo ascoltiamo. Ora quest’amore non è rivolto agli idoli ma all’unico Dio e Signore della nostra vita e della nostra storia.
amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza.
Il testo del Deuteronomio parlava di cuore, anima, forza. Marco aggiunge anche la mente (dianoia), cioè la forza dell'intelletto, mentre il termine che Marco usa per forza (ischys), indica la forza dell'anima. In questo versetto il comando è l’invito stesso di Dio ad amarlo, quasi a mettersi in ginocchio, perché è innamorato.
Amare porta in seno altri verbi come: lodare, riverire e servire. La lode non è una semplice preghiera fatta di battiti di mani e tamburi, qui è vista come il contrario di invidiare in quanto gioire per il bene dell’amato. Il riverire richiama al rispetto ma anche a quella paura di perderlo. Servire è dare se stessi così come siamo.
Segue al centro del precetto “con tutto il cuore” da cui scaturisce ogni azione. Che significa: in ogni cosa non mettere Dio a secondo posto. Lui vale più della propria vita (“con tutta la tua anima”) per questo la metto al suo servizio.
L’amore ama conoscere per amare (“con tutta la tua mente”): l’intelligenza è l’occhio del cuore che penetra in profondità. Questo lo faccio “con tutte le mie forze”, perché mi porta a Lui, ad essere simile a Lui che è l’Amore.
v. 31: Il secondo è questo: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Non c'è altro comandamento più grande di questi.
Qui abbiamo la seconda citazione presa da Lv 19,18: l'amore del prossimo. Questa seconda citazione non vuole indicare nessuna alternativa e non si intende neanche un fatto aritmetico ma come conseguenza al primo; è una questione teologica poiché «chi ama Dio, ami anche il fratello» (1Gv 4,21).
Il precetto parla di amare e contiene la sua similitudine, come sottolinea l’evangelista Matteo: “il secondo [comandamento] è simile al primo” (Mt 22,39).
Qui abbiamo il fondamento della Legge: la relazione tra l’uomo e Dio e con il prossimo. È nella relazione col prossimo che l’uomo si avvicina a Dio, ed è nella relazione con Dio che trova il fondamento del suo stare col prossimo.
Non si tratta di fare agli altri ciò che si fa per sé, ma di andare verso gli altri con lo stesso amore che ognuno ha verso se stesso, trovando la sua fonte d’amore in Dio. Paolo scrivendo ai Romani dice che “pieno compimento della legge è l’amore” (Rm 13,10).
vv. 32-33: Lo scriba gli disse: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che Egli è unico e non vi è altri all'infuori di lui; amarlo con tutto il cuore, con tutta l'intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici».
Un particolare che emerge subito è che la prima volta lo scriba, rivolgendosi a Gesù, lo chiama Maestro. Ciò vuole indicare come lo scriba è aperto alla novità dello Spirito e all’insegnamento di Gesù. Lo scriba inizia ad entrare nella logica del Signore: dire bene dell'altro, riconoscere il bene dell'altro. Egli ha compiuto un cammino non da poco: riconosce il bene che viene da Gesù. Ed è uno scriba che ascolta bene, perché non parte dal comandamento che intendiamo noi, l'amare Gesù, ma egli è l'unico, e non ce n'è altri se non lui. Ha ascoltato tutto quello che Gesù ha detto, e la prima cosa che ascolta, non è il comandamento, è il dono. Questo perché il comandamento ha senso a partire dal dono; ha senso a partire dal donatore. Se non c'è questa adesione personale al Signore, non ha senso nemmeno il resto. Da qui si evince che lo scriba accoglie nel suo cuore le parole di Gesù e le accosta a quanto già il Signore aveva annunciato attraverso i Profeti: Is 45,21-22; 1Sam 15,22 e Os 6,6, dove si esalta la fedeltà e l'obbedienza al di sopra degli atti di culto.
Il vero culto a Dio, allora, è l'amore del prossimo, perché mi sento amato, ed è l'amore di se stessi. È la capacità di costruire relazioni fra le persone: questo da' culto a Dio.
v. 34: Vedendo che egli aveva risposto saggiamente, Gesù gli disse: «Non sei lontano dal regno di Dio». E nessuno aveva più il coraggio di interrogarlo.
È il primo scriba che Gesù loda grandemente perché è saggio. Infatti, ha compreso l’importanza per cui siamo stati creati. Da vero Maestro egli dichiara che lo scriba non è lontano dal Regno di Dio. In questo caso il Regno è una realtà presente: è Gesù stesso. L’uomo “non lontano dal regno di Dio” è colui che, amando Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutte le forze sa amare il prossimo come se stesso. E il prossimo è colui al quale ci facciamo prossimi, vicini, come Gesù ha affermato a commento della parabola del samaritano (cfr. Lc 10,36-37).
Qualcosa però gli manca: la conversione. Gesù ha detto: «Il regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). A questo particolare, l’Evangelista non aggiunge nulla, lo lascia aperto alla nuova realtà. Il cammino da percorre è lungo, difficile. Al giovane ricco, Gesù rispose che una sola cosa gli mancava per entrare nel regno: lasciare ogni cosa per seguire lui (10,17-21).  Forse anche lo scriba ha ricevuto lo stesso invito, purtroppo in questo momento si trova di fronte a un bivio: il cuore e l’intelletto. Forse seguirà quest’ultimo perché è un esperto tecnico e nient’altro. È stato afferrato da Cristo ma solo intellettualmente diversamente da san Paolo: «Proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù» (Fil 3,12). Rimane entrare nella logica dell’amore: capire l’amore di Dio per lui, e saprà amare come è amato.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Come mi accosto alla Parola di Dio: con l’arroganza del “sapere già” o con umiltà?
Vivo la Parola nella forma intellettuale o la faccio entrare nella mia vita?
Cosa significa per me amare Dio con tutto il cuore, con tutta la mente e con tutta la forza?
Quali difficoltà incontro nell'amare il prossimo?
Quale il comandamento da cui pendono i vari comportamenti che assumo nella vita?
In cosa consiste per me l'essenza del cristianesimo?
Anch’io come Paolo “Proseguo il cammino per cercare di afferrare ciò per cui sono anche stato afferrato da Cristo Gesù”?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Ti amo, Signore, mia forza,
Signore, mia roccia,
mia fortezza, mio liberatore.
 
Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio;
mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo.
Invoco il Signore, degno di lode,
e sarò salvato dai miei nemici.
 
Viva il Signore e benedetta la mia roccia,
sia esaltato il Dio della mia salvezza.
Egli concede al suo re grandi vittorie,
si mostra fedele al suo consacrato. (Sal 17).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
L’amore concreto e quotidiano per i fratelli e le sorelle è il segno da cui si riconoscono i discepoli di Gesù Cristo, i cristiani, come ha indicato una volta per tutte Gesù stesso: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35).


lunedì 28 ottobre 2024

LECTIO: TUTTI I SANTI (Anno B)

Lectio divina su Mt 5,1-12
 
 
Invocare
Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Leggere
1 Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. 2Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
3 «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così, infatti, perseguitarono i profeti che furono prima di voi.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
In questa solennità in cui si ricordano tutti i Santi, puntualmente siamo chiamati a riflettere sulle Beatitudini, quasi a dire che la prima bella notizia che il Signore Gesù ci dona è la felicità.
Il vangelo delle Beatitudini costituisce la prima parte del “discorso della montagna”. Il monte è il luogo della rivelazione, sia per la trasfigurazione gloriosa di Gesù, sia per la sua parola; il monte ha inoltre un significato più specifico: esso vuol ricordarci il Sinai, il monte della promulgazione della legge e della conclusione dell’alleanza.
Matteo propone Gesù come il nuovo Mosè e la sua parola è parola di vita, è Legge nuova (l’espressione: “ma io vi dico” indica proprio la Legge nuova) che non abolisce l’antica ma la porta a compimento. Tutto il grande Discorso della Montagna traccia la via del discepolo sulle orme del Regno.
Le Beatitudini ne costituiscono il punto di partenza sorprendente, "scandaloso", ma anche consolante. Mentre noi ci chiediamo cosa dobbiamo fare, Gesù ci mostra in primo luogo ciò che fa Dio, ci invita ad aprire gli occhi, per contemplare il Regno dei cieli in arrivo e lasciarci sorprendere dalla sua venuta.
Possiamo leggere le Beatitudini come impegni che ci sono chiesti, ma innanzitutto come elementi del ritratto spirituale di Gesù Cristo, di Gesù di Nazareth. È una lettura antica nella tradizione cristiana, perché risale perlomeno a Origene che dice: “Le Beatitudini sono immagine di Gesù, altrettante icone della figura spirituale di Gesù”. Quindi, se uno vuole capire chi è Gesù può leggere tutto il Vangelo, può guardare il suo volto a partire da queste prospettive; quello che Gesù è stato, viene comunicato al credente perché a sua volta lo viva egli stesso. Dio ha preso l'iniziativa di instaurare il suo Regno: prima di agire, siamo chiamati ad accoglierlo.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 1-2: Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro
Questo incipit racchiuso in due versetti, introducono il discorso delle Beatitudini riallacciandosi ai fatti precedenti, in cui si parla delle folle che accorrevano a Gesù da tutte le regioni circostanti la Galilea. La folla rappresenta l’intero Israele (4,25) mentre i discepoli sono coloro che per primi si mettono in ascolto della Parola.
L'accenno alle folle all'inizio (5,1) e al termine (7,28-29) del discorso fa da cornice all'insegnamento impartito da Gesù a Israele. Ciò vuole indicare una moltitudine potenziale dei discepoli, ai quali la chiesa è mandata in missione a portare l'insegnamento di Gesù (cfr Mt 28,19-29). Infatti, l’insegnamento del discorso non è inteso solo per il ristretto gruppo dei discepoli, che in ogni caso non sono necessariamente i «dodici apostoli».
Il discorso è collocato su di un monte a differenza di Luca che l’ambienta in una pianura (Lc 6,20-38). Il luogo di cui si parla nel brano è un monte. Il monte nella Bibbia è il luogo dove Dio si rivela e fa udire la sua voce. Il libro del Deuteronomio ci ricorda quest’esperienza: «Il Signore vi parlò dal fuoco; voi udivate il suono delle parole ma non vedevate alcuna figura; vi era soltanto una voce.» (Dt 4,12). Ora, da quel luogo Gesù si mostra a tutti con il suo parlare e insegnare. Esso ha una valenza più teologica che topografica come fa Luca.
Il monte delle Beatitudini è l'eco e la pienezza del monte Sinai; sul monte Dio non soltanto si rivela ma passa dalla nostra esistenza e quindi il monte è il luogo dell’intimità di Dio.
Su questo monte Gesù si siede. È la posizione del maestro e la sua parola ha un timbro autorevole. Gesù insegna su questo monte. Il suo insegnamento è trasmissione di vita e nasce da un vissuto, cioè lo ha rivissuto interiormente, pensato e posto dinanzi a Dio e adesso e lo comunica.
Il verbo «insegnare» (edidasken) in Matteo è usato esclusivamente in questo discorso e in 7,29. Le Beatitudini vengono presentate come un insegnamento e insegnare è una via da percorrere. Egli insegna una verità che viene da Dio che lo ha mandato.
v. 3: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
La prima beatitudine riecheggia la povertà. Del resto, la classe povera costituiva la grande maggioranza della popolazione del mondo ellenistico. Il “povero in spirito” di Matteo pone l’accento più che sulla mancanza letterale di ricchezze, sulla bassa condizione dei poveri: la loro povertà non permetteva l’arroganza tipica delle persone ricche, ma imponeva loro un rispetto servile. Pensiamo allora a questa prima beatitudine come atteggiamento fondamentale per accogliere il Regno.
In questo versetto abbiamo un esempio di come rapportarsi con Dio. Ce lo fa comprendere meglio la Bibbia interconfessionale: “Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio”, indicando così coloro che nella vita hanno imparato a contare solo su Dio. Questa “sapienza” della vita, san Paolo ce l’ha donata in riferimento a Cristo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù: egli, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò sé stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini» (Fil 2,5-7). Sentimenti di “amore e compassione”, che nella persona di Cristo si esprimono in pienezza come modelli da seguire.
L’aggettivo greco ptochós (povero) non significa solamente ciò che è materiale, ma vuol dire anche “mendicante”, un termine di rimando a quelle persone che davanti a Dio si collocano come dei mendicanti. Qui possiamo riprendere il concetto ebraico di anawim, i “poveri di Iahweh”, che espriem umiltà, consapevolezza dei propri limiti, della propria condizione esistenziale di povertà. Gli anawim si fidano del Signore, sanno di dipendere interamente da Lui.
Povero in spirito allora è l’atteggiamento della fede che non è un fare qualche cosa, ma è la disponibilità a ricevere qualche cosa; è un mettere come primato della propria vita l’iniziativa di Dio e non le nostre capacità; non è l’affermazione di noi stessi, nemmeno come affermazione spirituale, ma è invece la disponibilità a ricevere la grazia, a ricevere il dono di Dio e a goderne (di essi è il Regno dei cieli).
Il regno dei cieli è tema dominante del Vangelo, in quanto Gesù stesso è il Regno dei cieli, Egli è l’Emmanuele che si fa dono e promessa. Per questo continuiamo a pregare “venga il tuo regno”.
v. 4: Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
Il termine greco indica specificatamente coloro che sono in lutto, afflitti. Lo sfondo di questo versetto è Is 61,2-3, dove la missione del profeta è quella di confortare tutti coloro che piangono in Sion. A questi Gesù promette consolazione (cfr. Lc 2,25), anzi Egli stesso asciugherà le loro lacrime (cfr. Ap 7,17, che cita Is 25,8; Ap 21,4). I piangenti, sono anzitutto coloro che soffrono per gli ostacoli posti dal mondo all'adempimento della volontà divina di salvezza (cfr. Lc 4,16-22; Is 61,1-6); quindi un atteggiamento che l’uomo stesso sceglie davanti alla realtà della società e del mondo, dove Cristo, Dio, la giustizia di Dio e l’amore che viene da Cristo fanno la figura dei grandi assenti. Non è possibile per il discepolo gioire quando ci sono ingiustizie, oppressioni, falsità e ipocrisie e quando sembra che Dio sia escluso dalla convivenza umana e dai valori che la costruiscono. Non è possibile per il discepolo gioire quando è nel peccato, quando il cuore sanguina per il dolore di avere offeso Dio e il prossimo. Piangere per il proprio peccato ci conduce a un cuore rinnovato, purificato. “meglio una vergogna sul viso che una macchia sul cuore” diceva Miguel De Cervantes. “Saggio e beato è colui che accoglie il dolore legato all’amore, perché riceverà la consolazione dello Spirito Santo che è la tenerezza di Dio che perdona e corregge” (Papa Francesco).
v. 5: Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
Il termine “mite” qui utilizzato vuol dire letteralmente dolce, mansueto, gentile, privo di violenza. La mitezza si manifesta nei momenti di conflitto, si vede da come si reagisce ad una situazione ostile.
Questa beatitudine è presa dai Salmi: «I miti invece possederanno la terra e godranno di una grande prosperità [pace]» (Sal 37,11). Il termine ebraico di “miti” è 'anawìm, un po’ riprende il v. 3. Questi non sono i timorosi, ma gli stessi poveri di spirito che accettano senza amarezza o rancore la loro condizione e trovano la forza nella serenità ed in una coraggiosa sopportazione (cfr. Sal 37,7-9.11.29.40).
Nel linguaggio e nel contesto evangelico, la terra indica la terra promessa. Però la parola "terra" significa ormai il regno dei cieli, ovvero il nuovo modo di vivere, secondo lo spirito di Dio, che Gesù annuncia e inaugura.
La terra, che è sempre di Dio, deve essere vissuta come un dono condiviso e amministrato nella giustizia e nella fraternità, dono di Dio ai popoli, da abitare senza violenza, in mitezza, in pace e ospitalità reciproca. Questo è l'unico modo per possederla con sicurezza e frutto, nella pace. Il violento non possiede davvero la terra, perché la sua minaccia ritorna su di lui e gli nega la sicurezza.
I miti non solo possono "ereditare" la terra, starvi sicuri senza far violenza, ma sono i soli in grado di trasmettere a loro volta in eredità la terra ricevuta. Il mite “è il discepolo di Cristo che ha imparato a difendere ben altra terra. Lui difende la sua pace, difende il suo rapporto con Dio, difende i suoi doni, i doni di Dio, custodendo la misericordia, la fraternità, la fiducia, la speranza. Perché le persone miti sono persone misericordiose, fraterne, fiduciose e persone con speranza” (Papa Francesco).
v. 6: Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
La fame e la sete, nella Bibbia (Is 55,1-2; Sal 42,2-3), indicano la tendenza a Dio, la nostalgia di Lui, il saziarsi e dissetarsi di Lui. I due verbi in senso metaforico possono esprimere un forte desiderio di Dio e della sua Parola: «l'anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente...» (Sal 42,3); «O Dio, tu sei il mio Dio, all'aurora ti cerco, di te ha sete l'anima mia, a te anela la mia carne, come terra deserta, arida, senz'acqua» (Sal 63,2); «Ecco verranno giorni -dice il Signore - in cui manderò la fame nel paese, non fame di pane, né sete di acqua, ma d'ascoltare la parola del Signore» (Am 8,11 ).
Il Salmista descrive (Sal 107,5.8-9) come Dio abbia soddisfatto la fame e la sete degli Israeliti. Matteo ha ampliato la fonte Q (Lc 6,21) aggiungendo la «sete» (in conformità al Salmo 107) e «della giustizia» (per chiarire la natura della fame e della sete).
La giustizia non vuol dire vendetta, si riferisce in primo luogo alla giustizia di Dio, ma anche ai rapporti umani e alla condotta. Infatti, le ingiustizie feriscono l’umanità; la società umana ha urgenza di equità, di verità e di giustizia sociale In un contesto apocalittico la giustizia si riferisce alla rivendicazione dei giusti nel giudizio finale.
Nel Discorso della Montagna fare la giustizia - fare la volontà del Padre (Mt 7,21) - fare queste mie parole (Mt 7,24), designano la stessa realtà, cioè l'agire umano necessario per entrare nel Regno dei cieli. Tale agire deve seguire le norme giuste (fare la giustizia), che sono determinate da Dio (fare la volontà del Padre) e che vengono autorevolmente comunicate da Gesù (fare queste mie parole). L'ultimo passo del Discorso della Montagna in cui si parla di «giustizia» è Mt 6,33: «Cercate prima il Regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta»: si oppone alla ricerca ansiosa del cibo, della bevanda e del vestito, la preoccupazione necessaria ed essenziale: il Regno di Dio! Il Regno di Dio dev’essere il bene più alto, mentre il giusto agire (la giustizia) costituisce la condizione indispensabile per l'ingresso in quel Regno.
v. 7: Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
Il termine misericordioso non esiste nell'AT al plurale, giacché viene utilizzato solo per indicare il Signore, in quanto la “misericordia” è una caratteristica propria di Dio, è il cuore stesso di Dio. Gesù ci ha detto: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).
I misericordiosi in greco fa hoi eleèmones, cioè, coloro che imitando Dio sanno comprendere e perdonare il prossimo secondo l'impegno evangelico che ripetiamo con la preghiera del Padre nostro (cfr. Mt 6,11-12.14-15). Lo sfondo è Prov 14,21; 17,5 (LXX), dove la «benedizione» è il premio per la gentilezza mostrata ai poveri.
Questa “misericordia” attribuita a Dio comprende il perdono delle mancanze, il perdono dei peccati, che a sua volta desidera – Dio - di vedere la misericordia praticata dagli uomini. Quanto più si accoglie l’amore del Padre, tanto più si ama. Per questo la misericordia è il centro della vita cristiana. Un cristianesimo senza misericordia è un cristianesimo senza Dio. Con Dio possiamo percorrere questo cammino spirituale, ove troveremo in questa beatitudine la causa e il frutto che coincidono.
v. 8: Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
Nella Bibbia il cuore non è solo il “luogo” dei sentimenti, ma indica le decisioni, la vita. Lì ognuno ritrova se stesso e la propria identità, lì ogni persona decide di sé, del suo rapporto con gli altri, col mondo e con Dio. Il cuore buono rende buono tutto l'uomo, il cuore cattivo lo rende cattivo.
L'espressione «cuore puro» non è né un riferimento alla purità sessuale-rituale, né alla sincerità, ma caratterizza le persone oneste la cui integrità morale si estende al loro essere interiore e le cui azioni sono coerenti con le intenzioni.
La purezza di cuore è la purezza interiore con cui la persona prende delle decisioni che sono corrette e non falsate dal suo interesse o dal suo capriccio o dalla sua superficialità.
Ciò che corrompe e rende impuri, non sono le cose materiali, ma il peccato; non è ciò che viene a contatto con l'uomo dal di fuori, ma ciò che dall'interno determina i comportamenti personali di ciascuno. «Tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo», perché gli entra nello stomaco, non nell'anima. «Ciò che esce dall'uomo, questo contamina l'uomo. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono le intenzioni cattive: fornicazioni, furti, omicidi, adultèri, cupidigie, malvagità, inganno, impudicizia, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l'uomo» (Mc 7,18.20-22).
Dalla dimensione interiore e spirituale dell'uomo, dalla sua anima e dal suo cuore derivano i desideri e le azioni buone o cattive. Se sono cattive corrompono tutto l'uomo: infatti è cattivo all'interno, dove ha pensato e desiderato il male; ed è cattivo all'esterno, dove si comporta male e fa male agli altri. Così il cuore, centro della persona, qualifica in senso positivo o negativo tutta la persona. Lo stesso Vangelo di Matteo dice: «Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (6,23). Questa “luce” è lo sguardo del cuore, la prospettiva, la sintesi, il punto da cui si legge la realtà (cfr. Evangelii gaudium, 143).
v. 9: Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
Insieme con quella dei misericordiosi, questa è l’unica beatitudine che non dice tanto come bisogna “essere” (poveri, afflitti, miti, puri di cuore), quanto cosa si deve “fare”.
Il termine proviene dall'AT (Is 27,5) e in greco significa “coloro che lavorano per la pace”, che “fanno pace”. Non tanto, però, nel senso che si riconciliano con i propri nemici, quanto nel senso che aiutano i nemici a riconciliarsi. “Si tratta di persone che amano molto la pace, tanto da non temere di compromettere la propria pace personale intervenendo nei conflitti al fine di procurare la pace tra quanti sono divisi” (Jacques Dupont). Questi non sono gli amanti del quieto vivere, ma gli attivi operatori di pace, che agiscono come Dio stesso, perché Dio è il Dio della pace (Rm 16,20).
Ricordiamo qui che il Signore intende la sua pace diversa da quella umana, da quella del mondo, quando dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi» (Gv 14,27). Come Gesù dona la sua pace? Annullando l’inimicizia e riconciliando (cfr. Ef 2,14-16).
Il vero «operatore di pace» è Dio stesso. Per questo quelli che si adoperano per la pace come fa Dio, sono chiamati «figli di Dio»: perché somigliano a Lui, Lo imitano e fanno quello che fa Lui.
v. 10: Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
Questo versetto si ricollega alla quarta beatitudine. I perseguitati per la giustizia sono i perseguitati per Gesù, per il nome di Gesù, per la causa del Vangelo. Pensiamo alle prime persecuzioni che si sono scatenate nei riguardi degli apostoli. Queste sono persecuzioni per causa del Vangelo. Ma dobbiamo stare attenti a non leggere questa beatitudine in chiave vittimistica, auto commiserativa. Infatti, non sempre il disprezzo degli uomini è sinonimo di persecuzione. Più avanti, infatti, Gesù stesso dice ai discepoli, ai cristiani di ogni tempo che sono il «sale della terra», e mette in guardia dal pericolo di “perdere il sapore”, altrimenti il sale «a null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dalla gente» (Mt 5,13). Dunque, c’è anche un disprezzo che è colpa nostra, quando perdiamo il sapore di Cristo e del Vangelo.
Anche la persecuzione ritornerà nel versetto seguente: sarete beati quando vi perseguiteranno per causa mia, cioè di Gesù. Infine, il ricordare il regno dei cieli, ricollega questa beatitudine con la prima, chiudendo il cerchio.
In questa persecuzione possiamo trovarci anche noi tutte quelle volte che dobbiamo sostenere la dignità di essere cristiani nell’ambiente del lavoro, tutte quelle volte che dovremmo sopportare persecuzioni meno gravi, perché annunciamo il nome di Gesù. In Mt 10,22 leggiamo: “Sarete odiati da tutti a causa del mio nome”; e in Mt 10,39: “Chi avrà perduto la sua vita per causa mia, la troverà”.
vv. 11-12: Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
È la nona beatitudine già anticipata nell’ottava e si distacca dalle precedenti per la sua lunghezza e per l’uso della seconda persona plurale («voi»): anch’essa è giunta a Matteo dalla tradizione (cfr. Lc 6,22-23), ma risale non a Gesù, bensì alla comunità, la quale l’ha coniata a partire dalla beatitudine da lui riservata agli afflitti.
La beatitudine è rivolta a coloro che esattamente saranno insultati come Gesù sulla Croce. È rivolta direttamente ai cristiani che soffrono persecuzione a causa della loro fede in Gesù: ad essi è riservata nei cieli una grande ricompensa, che si identifica con la piena comunione con Dio (cfr. 1Pt 4,13-16) e la partecipazione alla Resurrezione di Cristo Gesù, il Figlio di Dio.
Questa conclusione sottolinea che bisogna essere fedeli al sentiero umile delle Beatitudini, perché è quello che porta ad essere di Cristo e non del mondo. Ci è di esempio l’esperienza di san Paolo: quando pensava di essere un giusto era di fatto un persecutore, ma quando scoprì di essere un persecutore, divenne un uomo d’amore, che affrontava lietamente le sofferenze della persecuzione che subiva (cfr Col 1,24).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Pongo a centro della mia vita Gesù, Parola eterna del Padre?
In quale di queste Beatitudini mi ritrovo?
Quale di queste Beatitudini mi invita a crescere, che mi chiede di provarci, che mi sfida a cambiare?
Quale senso di vita trovo oggi nelle Beatitudini elencate da Gesù?
Quale fedeltà al sentiero umile delle Beatitudini per una testimonianza cristiana?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l’ha fondato sui mari
e sui fiumi l’ha stabilito.
 
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli.
 
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe. (Sal 23)
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamoci illuminare dalla Parola di Dio e cerchiamo di scoprire nella nostra vita le Beatitudini elencate da Matteo. Cerchiamo di scoprire se la nostra vita è un dono per amore secondo l’ideale e lo stile delle Beatitudini.