lunedì 7 aprile 2025

LECTIO: DOMENICA DELLE PALME (Anno C)

Lectio divina su Lc 19,28-40
 

Invocare
Dio onnipotente ed eterno, che hai dato come modello agli uomini il Cristo tuo Figlio, nostro Salvatore, fatto uomo e umiliato fino alla morte di croce, fa’ che abbiamo sempre presente il grande insegnamento della sua passione, per partecipare alla gloria della risurrezione. Egli è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
28Dette queste cose, Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme. 29Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli 30dicendo: «Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale non è mai salito nessuno. Slegatelo e conducetelo qui. 31E se qualcuno vi domanda: «Perché lo slegate?», risponderete così: «Il Signore ne ha bisogno»». 32Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto. 33Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». 34Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno». 35Lo condussero allora da Gesù; e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. 36Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
37Era ormai vicino alla discesa del monte degli Ulivi, quando tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto, 38dicendo: «Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!». 39Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli». 40Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Nella versione di Luca, a differenza di Matteo e Marco, il Testo evangelico non è il “racconto dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme”, perché Gesù si avvicina solamente alla città, come emerge dal v. 41: «Quando fu vicino, alla vista della città pianse su di essa», e non è neppure il “racconto delle palme” perché non vi è alcuna allusione a rami o palme agitate dalle folle, ma vi è solo l’atto di stendere mantelli sul puledro per fare una sella a Gesù e di stendere mantelli per terra dando una valenza regale al corteo. Quindi più che l’ingresso messianico di Gesù abbiamo una presentazione della sua regalità, cavalcando un asino chiesto in prestito.
Abbiamo quindi Gesù re che non si può permettere neanche un asino; manifesta semplicemente la sua signoria inviando i suoi discepoli a cercare l’asino che gli permetterà di entrare a Gerusalemme secondo la profezia: «Ecco viene a te il tuo re, giusto, vittorioso, umile, cavalca un asino… Farà sparire il carro da guerra e il cavallo, e l’arco da guerra sarà spezzato, annuncerà la pace alle nazioni, il suo dominio sarà da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra» (Zac 9,9-10), perché Egli è il Messia ma non quel Messia combattente e dominante che era atteso dall’ebraismo ufficiale del tempo e dai suoi stessi parenti e seguaci.
Nel testo profetico, Zaccaria fa capire attraverso questo oracolo che la vittoria del Messia non arriverà a seguito di un evento militare, ma solo mediante la forza di Dio. Il Messia conquisterà il popolo e lo porterà alla pace attraverso le Sue parole. Una pace che sarà conquistata e manifestata alla fine dei tempi.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 28: Dette queste cose.
L’Evangelista per non dimenticare il messaggio ascoltato, fa questo rimando legandolo all'ultimo insegnamento: la parabola delle mine (19,11-27), quando Gesù si trovava nei pressi di Gerusalemme e fece capire che, nonostante questa vicinanza, la cieca Gerusalemme non si accorse quando Gesù li istruì, e operò segni davanti ai loro occhi, a testimonianza della Verità sul motivo della Sua venuta in questo mondo. Il versetto richiama anche a quanto precedeva il grande viaggio, iniziato in 9,51-19,27: «... decise di [rese duro il suo volto per] andare (poreuesthai) verso Gerusalemme» egli vuol sottolineare che, entrando a Gerusalemme, Gesù porta a compimento l’insegnamento impartito precedentemente; al tempo stesso mette in luce il carattere estremamente determinato della scelta di Gesù che, proprio come aveva iniziato il suo viaggio, così ora avanza sicuro, precedendo tutti gli altri, verso la città santa.
Gesù camminava davanti a tutti salendo verso Gerusalemme.
Gerusalemme è una città collocata sul monte, meta finale del pellegrinaggio dei popoli: Verranno molte genti e diranno: «Venite, saliamo sul monte del Signore e al tempio del Dio di Giacobbe» (Mi 4,2). L’Evangelista vuole sottolineare il cammino in salita verso Gerusalemme luogo dove si deve realizzare la salvezza. Questo è il luogo discusso "nella Legge e i Profeti" (cfr. Lc 9,31).
Gesù viene in questo momento da Gerico, dal luogo dove è stata raccontata la parabola delle mine. A Gerico Gesù ha ridato la vista a Bartimeo (Mt 20,29; Mc 10,46; Lc 18,35) e ha convertito il ricco Zaccheo (Lc 19,1), realizzando, in favore di entrambi, il suo ministero di Buon Pastore (cfr. Gv 10,11-18). Ora il buon Pastore sale, deciso, a Gerusalemme con "la pecorella sulle spalle", preludio di un'altra salita.
v. 29: Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli
Due località menziona l’evangelista Luca: Betfage e Betania, circa tre chilometri da Gerusalemme. Egli rilegge l'ingresso di Gesù basandosi sulle antiche profezie che alimentavano le attese messianiche: «In quel giorno i suoi piedi si poseranno sopra il monte degli Ulivi che sta di fronte a Gerusalemme verso oriente» (Zc 14,4).
Luca non dice in che momento arriva Gesù in queste due località. Solo dal confronto con gli altri Sinottici appare che il fatto è avvenuto nel primo giorno della settimana (domenica). Come pure, non dice chi sono i discepoli inviati. Di quest’ultimo particolare sappiamo che fa parte dello stile del Maestro inviare per preparare e collaborare alla sua missione. Questa sarà la penultima missione dei discepoli, l’ultima sarà quella della ricerca della stanza al piano superiore.
vv. 30-31: Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato.
Seguendo lo stile dell'evangelista Marco, Luca riporta la missione dei due discepoli inviati da Gesù. Non vengono inviati allo sbaraglio, a loro da’ autorità rendendoli sicuri di non essere abbandonati da Lui. Rende più perentoria la sua richiesta tralasciando l’assicurazione che egli rimanderà subito il puledro.
Perché un puledro? La scelta del puledro come cavalcatura non è un dettaglio da poco. L’asino era la cavalcatura dei principi e dei re in tempo di pace, mentre il cavallo col suo incedere potente e fulmineo era più adatto alle campagne militari. Con la scelta dell’asino si vuole esprimere ciò che Gesù è ed è sempre stato: mite e umile di cuore. Inoltre, richiama la capacità di essere liberati e la verifica dell’avvenuta liberazione è la capacità di portare il peso. L’immagine dell’asinello è un’immagine di Gesù di portare il peso, ma l’immagine è chiamata a diventare l’immagine di ogni cristiano (cf. Gal 6,2).
Questo puledro è legato. La profezia è rimasta legata, è rimasta nascosta, perché, tra le tante attese di un messia trionfatore, di un messia vendicatore contro i pagani, questa era rimasta emarginata, non era stata accolta. Era stata legata.
sul quale nessuno è mai salito
Anche questo particolare, “sul quale non è mai salito nessuno”, non è casuale, ma ha dei riferimenti nell’AT: come gli animali che erano destinati per il sacrificio non potevano essere usati per lavori comuni, così anche la cavalcatura di Gesù, re e Messia, vera vittima sacrificale doveva essere un puledrosul quale nessuno era mai salito.
Slegatelo e conducetelo qui.
Il verbo “slegare” sarà ripetuto per quattro volte (senza dimenticare che in altri brani si ripete, in quanto Dio scioglie dai legami della morte eterna). Gesù è venuto a sciogliere quella profezia che era rimasta legata, quella di un messia di pace, perché questo messia di pace nessuno lo voleva. Volevano un messia violento, un messia potente, ma di un messia di pace non sapevano che farne. Ora per portare il peso, l’animale deve essere slegato. Noi per portare il peso, abbiamo bisogno di essere liberati, diversamente resteremo legati, schiavi.
Il Signore ne ha bisogno.
Nel Vangelo è la prima e l'unica volta che Gesù si definisce Signore. La parola “Signore” la possiamo leggere anche in contrapposizione alla parola “proprietari”, in quanto Gesù è Il Signore che slega la profezia, colui che libera. Quei proprietari, padroni sono quei signori, quei capi del popolo che invece la tenevano legata alla morte.
Quel "bisogno di Gesù" è racchiuso in un animale slegato. Non è un cavallo che serve per il potente, per la guerra ma è un asino, che si usa in tempo di pace. Gesù non giunge a Gerusalemme come capo militare, circondato da un esercito a cavallo, ma seduto sopra un asino e circondato da una folla festante a piedi: non si tratta di una parata militare, ma di una processione liturgica.
Il cavalcare asine è descritto nel libro dei Giudici nel cantico di Debora (Gdc 5,10) segno di pace e tranquillità e come segno di autorevolezza (Gdc 10,4; 12,14).
v. 32: Gli inviati andarono e trovarono come aveva loro detto.
Questi due discepoli si incamminano secondo la parola di Gesù. Altre volte vediamo i discepoli che agiscono secondo la parola di Gesù. Non sappiamo se ci sta una convinzione profonda in questo, il versetto parla semplicemente di una verifica, non tanto di un animale legato, ma la realizzazione della Parola di Dio nella loro vita. Questo lo si può fare ogni qualvolta ci mettiamo in sintonia, in piena fiducia, con Gesù e la sua Parola.
vv. 33-34: Mentre slegavano il puledro, i proprietari dissero loro: «Perché slegate il puledro?». Essi risposero: «Il Signore ne ha bisogno».
Il puledro di cui si parla è un puledro mai cavalcato, come dovevano essere gli animali destinati ad uso sacro (cfr. Nm 19,2; Dt 15,19; 21,3). Il verbo usato non è cavalcare ma "sedere". Solo il Signore può sedere sul puledro; solo il Signore può presiedere la profezia per attuarla. Il fatto che Gesù scelga intenzionalmente di entrare in Gerusalemme cavalcando un puledro costituisce un riferimento, anche se implicito, alla profezia che annunzia l’ingresso del Messia nella città santa (Zc 9,9; cfr. 14,3-4).
A nessuno interessa attualizzare una profezia in questa maniera. Attendevano un'altro tipo di salvezza, non quella dalla morte eterna. Anche qui il bisogno del Signore è in contrapposizione col bisogno dei signori. Il Signore ha bisogno che l’immagine che abbiamo di Dio sia sciolta. Non possiamo tenerla legata: c’è una necessità del Signore e qual è?  L’evangelista Matteo al cap 25 la descrive in questi termini: “ho avuto fame, ho avuto sete, ero malato, ero straniero, ero in carcere” quello è il Signore e in quell’immagine dell’asinello slegato si manifesta la regalità del Signore.
vv. 35-36: e gettati i loro mantelli sul puledro, vi fecero salire Gesù. Mentre egli avanzava, stendevano i loro mantelli sulla strada.
Lo stendere i mantelli e il far salire Gesù sul puledro ha una sua tradizione nella regalità di Israele (cf. 1Re 1,28-40; 2Re 9,13).
In questi due versetti, due volte il mantello risuona nel cuore. Il mantello nella Bibbia indica se stessi, la propria persona e quanto comporta. Il mantello fa pensare anche al dono-chiamata della vita, che ognuno riceve da Dio senza venire interpellato.
Questo mantello viene gettato sulla sacralità dell'animale. Il mantello gettato sul puledro vuole indicare anzitutto una spogliazione di se stessi, poi quella condivisione di pace, di quello stesso ideale che Gesù, aprendo la strada, viene a portare. Mentre il mantello gettato per strada indica un’intronizzazione regale e quindi una sottomissione al nuovo re. Due gesti opposti, infatti, tra la folla c'è chi pensa a un Messia militare.
In chiave spirituale possiamo leggere un'altro tipo di dominio: rimettere se stessi in Dio, perché Lui sia al centro dell'esistenza, perché ci sta un'altro mantello da assumere: Cristo e il suo giogo (cfr. Mt 11,25-30). La spogliazione allora indica fiducia, affidamento, rifugio. Spogliarsi del proprio mantello per gettarlo ai piedi di Gesù significa dare a lui il compito di battistrada nella nostra vita, di correre il rischio di non nasconderci dietro le nostre false sicurezze, di accettare la sfida di camminare con lui verso la passione.
v. 37: tutta la folla dei discepoli, pieni di gioia, cominciò a lodare Dio a gran voce per tutti i prodigi che avevano veduto.
L'incontro con Gesù privi del proprio mantello provoca gioia, esultanza, lode, a gran voce. È la stessa gioia con cui Zaccheo scende e accoglie Gesù in casa sua. Chi accoglie questo Gesù sperimenta questa gioia. Questi motivi della gioia e della lode a Dio per i suoi prodigi, che nel terzo Vangelo accompagnano la manifestazione del Messia, servono qui ad accentuare il tono messianico del racconto. Gesù compirà altri due prodigi durante la Passione: la guarigione dell’orecchio del servo e il perdono a Simone. Sono gesti di guarigione. Uno verso colui che era andato per arrestarlo e ucciderlo e uno verso colui che lo rinnega. Il prodigio più grande sarà la sua crocifissione e morte. Sarà Lui stesso l’asinello che con la sua morte ci salverà portando il peso del nostro male.
v. 38: Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore. Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!
Continua la gioia del versetto precedente. I discepoli innalzano il loro “osanna” all’ingresso trionfale di Gesù.
Questa è una citazione del Sal 118,26, nella quale però egli ha aggiunto il termine re, rendendo così esplicito il carattere messianico dell’ingresso in Gerusalemme. Omette poi la frase successiva di Marco: «Benedetto il regno che viene del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli», sostituendola con l’acclamazione: «Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!». La gloria di cui si parla, nel linguaggio della Bibbia, indica la realtà personale di Dio in quanto si comunica. La gloria presente in mezzo a noi produce pace, cioè quella felicità, pienezza, vita, amore.
Queste parole riecheggiano l’inno pronunziato dagli angeli sulla grotta di Betlemme (Lc 2,14: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama»), con la differenza però che sia la gloria che la pace si situano in cielo: le promesse messianiche si stanno realizzando mediante la comunicazione della gloria e della pace, le quali però si trovano per il momento ancora in cielo. Ieri era la moltitudine di angeli a cantare. Oggi è la moltitudine dei discepoli durante l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme.
v. 39: Alcuni farisei tra la folla gli dissero: «Maestro, rimprovera i tuoi discepoli».
Di fronte a questa novità gioiosa, che non è accettata dal popolo, ecco i rappresentanti religiosi, i farisei, reagiscono. Il verbo "rimproverare", adoperato da Luca, veniva usato per liberare le persone dai demoni, nell'esorcismo. Infatti, il termine letterale è "sgridare".  Per i farisei, quello che i discepoli stanno dicendo, acclamando un messia di pace, e non il messia violento, è qualcosa di demoniaco, che non corrisponde al piano di Dio e loro, i farisei, che sono i zelanti custodi della legge, sanno tutto e conoscono tutto sul piano di Dio ma vogliono tenerlo legato.
“Com'è difficile comprendere la gioia e la festa della misericordia di Dio per chi cerca di giustificare se stesso! Com'è difficile poter condividere questa gioia per coloro che confidano solo nelle proprie forze e si sentono superiori agli altri!” (Lucio D'Abbraccio).
v. 40: Ma egli rispose: «Io vi dico che, se questi taceranno, grideranno le pietre».
C'è un richiamo ad Abacuc, secondo il quale sono le pietre stesse della casa a pronunziare la condanna di coloro che l’hanno costruita con guadagni illeciti: «La pietra, infatti, griderà dalla parete e la trave risponderà dal tavolato» (Ab 2,11). Inoltre, richiama la predicazione del Battista: «Fate, dunque, frutti degni della conversione e non cominciate a dire fra voi: “Abbiamo Abramo per padre!”. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo» (Lc 3,8) o le pietre delle rovine di Gerusalemme, che daranno in un certo senso testimonianza a Gesù.
Anche nel Salmo 118, che fa da sfondo al nostro brano, possiamo trovare dei richiami alla frase di Gesù nell'espressione: «la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo» (v. 22).
La discesa di cui si parla è quella che passa attraverso la valle di Giosafat, chiamata anche la valle del giudizio, che era disseminata di pietre tombali.  In altre parole, forse mettere a tacere i discepoli, ma non la forza della parola di Dio (2Tm 2,9), anche in quest’ambito di morte, proclamerà il dono di Dio all'umanità, cioè un messia che porta la pace.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Salgo anche io, con Gesù, verso Gerusalemme, verso la croce?
Cosa stendo ai piedi di Gesù: palme o me stesso?
Sono anche io tra quei "padroni" che non permettono la salvezza, la lasciano legata?
Anche io esulto di gioia al passaggio di Gesù nella mia vita guardando la Croce oppure è solo un formalismo freddo?
Quando vado verso il mio prossimo sono umile, pacifico come Gesù?
Riconosco nell'umiliazione di Gesù la piena manifestazione dell'amore del Padre per tutti gli uomini?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Del Signore è la terra e quanto contiene:
il mondo, con i suoi abitanti.
È lui che l'ha fondato sui mari
e sui fiumi l'ha stabilito.
 
Chi potrà salire il monte del Signore?
Chi potrà stare nel suo luogo santo?
Chi ha mani innocenti e cuore puro,
chi non si rivolge agli idoli,
chi non giura con inganno.
 
Egli otterrà benedizione dal Signore,
giustizia da Dio sua salvezza.
Ecco la generazione che lo cerca,
che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.
 
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
 
Chi è questo re della gloria?
Il Signore forte e valoroso,
il Signore valoroso in battaglia.
 
Alzate, o porte, la vostra fronte,
alzatevi, soglie antiche,
ed entri il re della gloria.
 
Chi è mai questo re della gloria?
Il Signore degli eserciti è il re della gloria (Sal 24).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Corriamo anche noi insieme a colui che si affretta verso la passione, e imitiamo coloro che gli andarono incontro. Non però per stendere davanti a lui lungo il suo cammino rami d'olivo o di palme, tappeti o altre cose del genere, ma come per stendere in umile prostrazione e in profonda adorazione dinanzi ai suoi piedi le nostre persone. (Sant'Andrea di Creta, discorso sulle Palme)
 
 

martedì 1 aprile 2025

LECTIO: V DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C)

Lectio divina su Gv 8,1-11
 

Invocare
Dio di misericordia, che hai mandato il tuo Figlio unigenito non per condannare ma per salvare il mondo, perdona ogni nostra colpa, perché rifiorisca nel cuore il canto della gratitudine e della gioia.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. 2Ma all'alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. 3Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, 4gli dicono: "Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. 5Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?". 6Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. 7E siccome insistevano nell'interrogarlo, alzò il capo e disse loro: "Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei". 8E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. 9Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. 10Alzatosi allora Gesù le disse: "Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?". 11Ed essa rispose: "Nessuno, Signore". E Gesù le disse: "Neanch'io ti condanno; va’ e d'ora in poi non peccare più".
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Domenica scorsa abbiamo incontrato la gioia del Padre che vede il ritorno del figlio che «era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato» (Lc 15,32) e andava proclamando la misericordia di Dio.
Questa domenica, cambiando tono evangelico, la liturgia ci propone, in questa V domenica di quaresima, un brano evangelico che è “una perla sperduta della tradizione antica” e merita che ci si occupi di essa amorosamente. La pagina, infatti, con ogni probabilità non è proprio dell’evangelista Giovanni ma è stata aggiunta in seguito da una “mano” posteriore; infatti, è assente nei più importanti codici antichi dei Vangeli. Fino al IV sec. il racconto è ignorato dai Padri della Chiesa, e lo si trova nel codice D o di Beza (secoli V-VI). La storia del suo travaglio continua fino al Concilio di Trento. Al di là di un travaglio, l'evento può essere considerato come una testimonianza molto viva ed autentica del Gesù della storia e del suo costante atteggiamento verso peccatori ed emarginati.
Il brano del Vangelo è la proclamazione della misericordia di Dio, che è capace di aprire una strada in mezzo al peccato irradiati dalla luce della Pasqua. La misericordia di Dio è la capacità che Dio ha di creare amore dal peccato e dall’egoismo.
L’Evangelista pone l’accento su un aspetto decisivo della realtà della chiesa e della nostra vita: Gesù sceglie, per rivelare la misericordia del Padre, una donna adultera. L'infedeltà e l’adulterio sono tradizionalmente il peccato fondamentale dell’abbandono di Dio. Il rapporto tra Dio e il suo popolo è un rapporto di matrimonio, un rapporto di alleanza; quindi, di fedeltà e rompere questo rapporto significa un peccato di adulterio.
Il racconto comincia la sera, dopo una giornata di insegnamento nel tempio: ciascuno tornò a casa sua (Gv 7,53) e Gesù raggiunse il monte degli Ulivi, come era solito fare, secondo Luca (Lc 22,29). Di buon mattino è di nuovo nel tempio e insegna al popolo (cf. Lc 21,37). 
Il contesto originario è sconosciuto, ma sembra che qui sia presupposto il racconto sinottico della settimana di passione, stando al quale Gesù passava i giorni a Gerusalemme intento a insegnare ma lasciava la città ogni notte per una maggiore sicurezza (cf. Mc 11,11).
Il brano stesso si fa incontro tra la miseria dell’uomo e colui che è l’Amore. Incontro che è icona dell’alleanza d’amore continuamente spezzata per l’infedeltà dell’uomo e continuamente ricamata per la fedeltà di Dio.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 1-2: Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi.
Dopo la discussione, descritta in Gv 7,37-52, tutti fanno ritorno a casa (7,53). Gesù, però, non ha una casa a Gerusalemme e si reca sul Monte degli Ulivi. Lì è solito trascorrere la notte in preghiera (Gv 18,1).
Alcuni studiosi alludono questo momento particolare alla sfida, alla paura della morte che ha Gesù e che l'affronta incontrandola sul volto dell’adultera condannata alla lapidazione.
Ricordare questo luogo ci fa pensare che Gesù è al termine del suo ministero e della sua vita e quanto accade all’adultera (Legge, giudizio, condanna in base al comandamento di Dio), anticipa in qualche modo il processo di Gesù, la sua passione.
Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui.
Siamo «all'alba», quindi, all'inizio di un nuovo giorno che richiama, in qualche modo, quell'alba del primo giorno della creazione in cui Dio creò la luce (Gen 1,3). Questa luce non era quella del sole o degli astri, che verranno creati nel quarto giorno (Gen 1,14-19), ma la stessa luce divina che permea l'intera creazione, da cui traspare l'impronta di Dio stesso. Paolo ce lo ricorda nella sua lettera ai Romani: «Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute» (Rm 1,20).
Prima che spunti il sole, Gesù, sole nascente, “si recò di nuovo nel tempio”. Le giornate per gli Ebrei iniziavano presto; Gesù si reca prestissimo al tempio per insegnare (cf. Lc 19,47-48).
Il Tempio era anche un luogo di ritrovo e di vita sociale, per alcuni il cuore della comunità ebraica. Il popolo sicuramente arriva prima dell'aurora per poterlo ascoltare!
Ed egli sedette e si mise a insegnare loro.
Gesù al Tempio è il Maestro, si siede e parla con la gente, li ascolta, risponde alle loro domande, si relaziona con tutti. L'atto di stare seduto indica, nel linguaggio rabbinico, l'autorità dell'insegnamento. La folla si avvicina per poterlo ascoltare. Solitamente la gente si sedeva in circolo, attorno a Gesù e lui insegnava.
Cosa mai avrà insegnato Gesù? Sicuramente sarà stato bello, poiché giungono prima dell'aurora per poterlo ascoltare! Gesù si siede lì e parla con la gente, li ascolta, risponde alle loro domande, si relaziona con tutti. Il Tempio, infatti, era anche un luogo di ritrovo e di vita sociale, per alcuni il cuore della comunità ebraica.
Al popolo che si raduna intorno a Cristo, riconoscendolo Maestro, si contrappone un altro gruppo, quello degli scribi e dei farisei, che gli si rivolgono con l'appellativo di "Maestro" ma in realtà gli sono ostili e attendono solo che Egli faccia un passo falso, che dica una parola di troppo, per poterlo colpire.
vv. 3-4: Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio.
Dopo l’introduzione dei primi due versetti, abbiamo una scena imbarazzante in cui Gesù si trova essere coinvolto. Gli scribi e i farisei nel loro cuore hanno già condannato la povera donna colta in fallo. La legge giudaica è molto esplicita su questa materia: l'adultera deve morire. La conducono da Gesù ma solo per tendergli un tranello.
Una delle prime cose che possiamo notare è che la donna non ha un nome perché adulteri lo siamo un po' tutti. Idolatri lo siamo un po' tutti. Pensiamo a tutte quelle volte che diciamo di seguire il Signore e poi ci troviamo sempre nella palude dei nostri peccati, facendo il male che non vorremmo piuttosto il bene che vorremmo (cf. Rm 7,18-25).
L’altro aspetto da rilevare è che solo la donna viene condotta in giudizio mentre la Legge prevede che sia la donna e l’uomo che pecca con lei devono essere lapidati. Solo la donna, dunque, viene posta nel mezzo per essere studiata e scrutata, quasi fosse una cavia e tale deve essere, visto che il suo peccato è solo un pretesto per porre in fallo Gesù. Nessun rispetto per lei, per la sua dignità, per la sua storia personale, come non ve ne era nella Legge che prevedeva la condanna a morte solo per la donna che tradiva e non per l’uomo infedele.
Gesù che poco prima era stato considerato un bestemmiatore meritevole di essere arrestato ora è riconosciuto come “maestro” dalla stessa ipocrisia di scribi e farisei, che gli sono ostili e attendono solo che Egli faccia un passo falso, che dica una parola di troppo, per poterlo colpire.
C'è una storia e una dignità da vivere e rispettare. Anche ai nostri giorni si continua a lapidare forse non con le pietre, ma calunnia, la diffamazione, l’odio e la violenza verbale, le fake news e tanto altro ancora.
vv. 5-6a: Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici? Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo.
La domanda anzitutto è posta in quel conflitto duro e lacerante tra l’essere umano e la Legge. Nel particolare, la donna è posta tra i due Testamenti: l’Antico e il Nuovo, tra Mosè e Gesù. È un raffronto tra due Leggi. Rifugiarsi nella Legge presentando la donna adultera è solo un pretesto; quello che interessa agli scribi e ai farisei è mettere alla prova Gesù, avere dei motivi per accusarlo. E questo fa impressione, perché scribi e farisei sono i custodi della legge, dovrebbero amare la legge, e dovrebbero cercare la legge. In realtà, in questo caso, si servono della legge per condannare e accusare Gesù, e si servono della donna per arrivare al loro scopo. La donna è diventata uno strumento di morte nelle loro mani, così come la legge.
Il cristiano invece è colui che scava per trovare il cuore della Legge, che certamente non è una condanna a morte ma amare.
v. 6b: Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra.
Una reazione strana e misteriosa quella di Gesù. C’è una tradizione antica che suppone che Gesù abbia scritto sulla polvere i peccati di quegli uomini che stavano accanto, o se volete addirittura i peccati di tutti gli uomini.
Qui possiamo leggere anche un segno simbolico, profetico. Nel libro di Geremia c’è un versetto che dice: «quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato la fonte di acqua viva, il Signore» (Ger 17,13). Gesù che si mette a scrivere nella polvere per terra, compie un gesto che è un invito a riconoscersi peccatori, perché il peccato è la condizione non semplicemente della donna che è stata buttata là in mezzo, ma è la condizione di tutto Israele, di tutto il popolo: è la nostra condizione. Basterebbe andare a riprendere i profeti: Israele è presentato in Os 2 come una sposa adultera. In Ez 16 riprende questo tema con una durezza incredibile. Quello è Israele, ma quello siamo noi, il popolo del Signore. Quelle persone, dunque, non sono innocenti di fronte a una persona colpevole, ma sono partecipi della medesima colpa, del peccato e della lontananza da Dio.
Il versetto contiene un insegnamento importante: ci fa riflettere sulle motivazioni dei nostri comportamenti. Può infatti accadere che noi usiamo realtà grandi come la giustizia o la solidarietà o la verità, non per il gusto della giustizia, della verità o della solidarietà, ma semplicemente come strumenti nella lotta contro quelli che stanno dall’altra parte, contro i nostri avversari. La misericordia di Dio dà fastidio e di conseguenza si fa fatica a praticarla. Scrivere e riscrivere per terra indica proprio questa misericordia di Dio che è una parola nuova che fa rinascere, non una condanna ma una nuova creazione.
v. 7: Tuttavia, poiché insistevano nell'interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei».
Gesù provoca mettendoli con le spalle al muro. Così facendo Gesù appella la coscienza e la libertà personale. Chi poteva veramente gettare la pietra contro la donna? Nella consuetudine del tempo era il testimone dell’adulterio che aveva il diritto-dovere a scagliare per primo la pietra sulla donna. Ma le parole di Gesù disarmano perché trovano gli accusatori pieni di peccato e l’unico a non aver peccato era Gesù stesso ma lui non scaglia la pietra, anzi lui, l’innocente, disarma le mani degli accusatori.
Davanti all’insistenza degli accusatori, Gesù li pone di fronte alla loro coscienza, li invita a scandagliarla perché si rendano conto. Chi è il solo giudice del cuore dell’uomo. Li invita a guardare sé stessi, ma a guardarsi di fronte a Dio. Se sono veri cercatori di Dio, non possono non ammettere di aver peccato e quindi di aver tradito anch’essi.
Adulterare la Legge è farla apparire con un’essenza diversa da quella dell’amore. «Il primo e il più importante dei comandamenti è amerai il Signore Dio tuo […] e il prossimo tuo come te stesso» (cf. Mt 22,36-39). E viene fuori una affermazione fondamentale per la Scrittura e per il NT; l’affermazione della colpevolezza di tutti gli uomini davanti a Dio (cf. Rm 3, 9), che vuole dire: davanti agli altri possiamo anche sentirci innocenti – questi scribi e farisei possono sentirsi innocenti; loro, di fronte ad una donna adultera, non hanno commesso nessun adulterio; ma se invece di guardare la donna si collocano davanti a Dio, si renderanno conto che anche loro sono in fondo in una condizione simile.
vv. 8-9: E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra.
È la seconda volta che viene citato questo particolare. Questo scrivere lo riscontriamo in Es 31,18: “Quando il Signore ebbe finito di parlare con Mosè sul monte Sinai, gli diede le due tavole della Testimonianza, tavole di pietra scritte dal dito di Dio” e in Dt 9,10: «il Signore mi diede due tavole di pietra, scritte dal dito di Dio, sulle quali stavano tutte le parole che il Signore vi aveva dette sul monte, in mezzo al fuoco, il giorno dell'assemblea» che ci ricordano come la Legge è stata scritta con il dito di Dio su tavole di pietra. Gesù è veramente la narrazione, la penna, la matita di Dio che scrive nel nostro cuore indurito e stanco. E quando Dio scrive, scrive con l’indelebile.  Ora, Gesù fa rileggere questa stessa Legge in una nuova prospettiva e una nuova comprensione: quella di Dio dove troviamo in quel “chinatosi” che è l’atteggiamento del Padre misericordioso.
Dio si china sempre perché continua a saggiare i nostri cuori, a scrutarli fino in fondo. Nel libro del profeta Isaia troviamo scritto: «Come mai è divenuta una prostituta la città fedele?» (Is 1,21). Ecco chi è l’adultera del Vangelo: l’icona dell’infedeltà a Dio e anche agli uomini. C’è una condizione generale del peccato in cui versa tragicamente l’uomo, per cui nessuno è esente solo per il fatto che osserva la Legge. Non è la Legge che salva ma Dio, il quale nella sua misericordia elargisce il suo perdono a tutti.
Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo.
Il soggetto qui sono gli scribi e i farisei, rappresentanti della Legge e del mondo veterotestamentario si sono dimostrati funzionari delle norme ma analfabeti del cuore umano; esperti in decreti e ignoranti del cuore.
Il confronto con la nuova Torah li fa andare via. Ci sono solo due posti: Gesù è il giudice e l’adultera è l’imputata; ma Gesù è la misericordia, e l’adultera è la misera, la persona bisognosa di misericordia. Il mondo è così: non c’è posto per l’accusatore del fratello; c’è solo posto per chi è misero e ha bisogno di un giudizio di misericordia; quel giudizio di misericordia che Gesù è venuto a portare. Questo vuol dire che l’unica Legge, d’ora in poi, è quella riscritta da Gesù dove al centro ci sta l’interesse e la cura per l’uomo nella sua condizione di peccato, con una differenza: ora senza più nessuna condanna. La nostra collocazione vera non è quella dell’accusatore, non possiamo accusare nessuno, perché siamo nella posizione di quella donna peccatrice, adultera, e quindi bisognosa solo di riconciliazione e di perdono. Chi era peccatore è costretto ad andarsene, è rimasta sola quella donna bisognosa di misericordia, anzi già misericordiata.
Viene evidenziato che se ne vanno tutti, a partire dagli anziani. Forse il verbo esatto è “allontanato”. Quegli uomini si sono allontanati dalla donna, hanno rinunciato a giustiziarla ma nello stesso tempo prendono le distanze da Gesù, si allontanano da lui in quanto indisponibili ad accoglierlo e ascoltarlo perché carichi del loro peccato, inchiodati nei propri peccati.
Purtroppo, il processo per Gesù non finirà qui; anche questo episodio attirerà su di lui odio e inimicizia dei suoi avversari. Liberando quella donna dalla condanna in realtà Gesù la rivolge su di Sé: Egli è Colui che ha preso su di Sé le nostre colpe. Il pericolo è scongiurato. Gesù e la donna restano soli; i curiosi, i maligni, i violenti si sono semplicemente allontanati.
vv. 10-11: Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore».
Gesù chino per terra ora si “rialza” e questo verbo evoca il suo rialzarsi dal sepolcro nel giorno della sua Risurrezione e solo il Risorto ha il potere di far risorgere.
Tra Gesù e la donna inizia un dialogo, quasi a significare che soltanto nel rapporto con Gesù l’uomo non trova più nessuna condanna, ma viene riabilitato a camminare nell’amore.
Gesù la chiama “donna” come a dirgli: “ti restituisco la tua dignità”. La donna lo chiama “Kyrios”, Signore, e in quanto Signore vittorioso sul peccato e sulla morte a ragione le può dare il perdono, ridargli dignità, restituirla alla vita, libera da quanti attentavano ad essa.
Unica è l’esperienza di questa donna che si è sentita guardata dall’Amore, da un amore puro, fedele, di totale dedizione, che non ha mai tradito, che non tradirà mai perché è l’amore di Dio.
E Gesù disse: Neanch'io ti condanno
È un vero atto di perdono, è un gesto di misericordia di Gesù nei confronti di questa donna. Però fa riflettere, perché chi è in grado di perdonare se non colui che è stato offeso; solo chi ha ricevuto l’offesa è in grado effettivamente di perdonare; non posso perdonare il male che tu hai fatto a qualcun altro, questo è comodo, è facile, non inquieta nessuno. Il perdono vero è il male che tu hai fatto a me, che io ho pagato, che ho sofferto; questo può diventare perdono autentico. Appunto, Gesù perdona proprio per questo, perché è venuto a prendere sopra di sé il peccato degli uomini; perché questo peccato lo ha portato nella paura, nell’angoscia e nella sofferenza, e lo porterà fino nella morte È scritto: «Ha portato i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1Pt 2,20). Solo per questo Gesù è in grado di perdonare e può esprimere l’amore di Dio che vince sul peccato dell’uomo. Non è il Dio indifferente, ma è il Dio che ha sperimentato e preso sopra di sé la miseria umana.
va' e d'ora in poi non peccare più.
Questa espressione imperativa va intesa come un comando, ma prima di tutto come un dono di una guarigione interiore. Infatti, con il perdono Gesù dà la forza di ricominciare una vita nuova, un cammino nuovo: non ci sei più dentro nella realtà del peccato, sei fuori; e non per una tua capacità, non per una tua buona volontà, ma per grazia.
Questa espressione la ritroviamo quando Gesù vede quel paralitico ammalato da 38 anni e gli dice: «alzati, prendi il tuo letto e va’ a casa tua» (Mt 9,6); gli dà un comando, ma gli fa anche il dono della guarigione e la forza di vivere, perché possa alzarsi e cominciare a rivivere in piena libertà, in piena dignità, sano da ogni male.
Le parole di Gesù sono la forza che vogliono liberare, che vogliono creare un cuore nuovo, uno spirito e una libertà nuova.
Questa donna è andata vicino alla lapidazione, è arrivata fin sull’orlo della condanna a morte e all’ultimo istante è stata graziata. Finché si ricorderà di essere una graziata, quell’amore le darà la forza di amare e la forza della fedeltà, perché è una graziata, perché quella vita le è stata data liberamente e gratuitamente. E così: «va’ e d’ora in poi non peccare più», è un comando che supera la legge che guardava al passato, al bene o al male compiuto ma apre al futuro senza distruggere la legge invitando però a viverla come valore.
Allora «và» donna, «và» peccatore esci dal tuo passato, togli le pietre tombali che ostruiscono il cuore e vai verso il nuovo portando lo stesso amore, lo stesso perdono a chiunque incontri perché oggi Dio ti ha fatto grazia sei «una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove» (2Cor 5,17).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Quale ostilità nel mio cuore ogni volta che penso di radunarmi attorno a Gesù Maestro e che in realtà mi raduno attorno ai miei interessi?
Quante volte mi ritrovo al posto degli scribi e dei farisei tendendo tranelli? O “cambio faccia” ma solo per un mio tornaconto?
Quando vivo il perdono sono ancora ripiegato su me stesso o mi lascio aprire dal dono di Dio e riprendo a godere della sua presenza di salvezza? Mi sento una creatura nuova rigenerata alla vita di fede?
Imito lo stile di Dio usando misericordia verso gli altri per rendere vere le parole del Padre nostro: "come noi li rimettiamo ai nostri debitori"? So gioire per il perdono, anche degli altri?
Riesco a donare perdono gratuitamente, ovvero anche quando lo giudico non pienamente meritato?  
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia.
 
Allora si diceva tra le genti:
«Il Signore ha fatto grandi cose per loro».
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia.
 
Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime
mieterà nella gioia.
 
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni. (Sal 125).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Riconosciamo consapevolmente la nostra miseria e accettiamo che il Signore la ricopra con la sua misericordia, potremo a nostra volta diventare capaci di compassione verso tutti come scrive l’Apostolo Paolo: «con le viscere di misericordia di Cristo Gesù» (Fil 1,8).


lunedì 24 marzo 2025

LECTIO: IV DOMENICA DI QUARESIMA (Anno C)

Lectio divina su Lc 15,1-3.11-32

 
Invocare
O Padre, che in Cristo crocifisso e risorto offri a tutti i tuoi figli l’abbraccio della riconciliazione, donaci la grazia di una vera conversione, per celebrare con gioia la Pasqua dell’Agnello.
Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. 25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: «Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta». Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci, ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati». 20Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». 22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa. 25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso». 31Gli rispose il padre: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato»».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Siamo alla IV domenica di Quaresima e, la liturgia, ci propone alla riflessione la parabola del padre misericordioso (o dell’amore del Padre) che accoglie tra le sue braccia il figlio pentito che torna a casa.
Il capitolo 15 è posto al centro della sezione del viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,44) e costituisce il cuore del terzo vangelo.
Nel capitolo 15, l’evangelista Luca propone, in sequenza, tre parabole che hanno in comune la nota della misericordia divina verso i peccatori, tutte costruite sulla contrapposizione: perdere/trovare o ritrovare. In altre parole, Luca presenta il volto di Dio Padre. Gesù accoglie i peccatori e mangia con loro e questo gli procura critiche e mormorazioni. È questo uno dei punti di costante tensione fra Gesù e i suoi avversari, come tutto il vangelo testimonia. Un primo esempio lo abbiamo già trovato nella chiamata di Levi (5,29-32).
L’annotazione introduttiva alle tre parabole di questo capitolo lucano ricorda che l’accoglienza dei peccatori faceva parte del comportamento abituale di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”.
La parabola odierna, per altro, può essere vista come un commento all'espressione di Gesù in Lc 5,32: "Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi". Si tratta di un tema caro a Luca che ritroviamo in molti passi del suo Vangelo (cf. Lc 16,1-8a. 19-31; 17,11-19; 18, 1-8.9-14; 19,1-10).
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Si avvicinavano a lui (Gesù) tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo
L'inizio del capitolo 15 si apre con una scena abbastanza frequente nei racconti evangelici (cf. Mc 2,15ss; Lc 19.1-9; 7,34). In questo versetto "tutti i lontani" sono chiamati e si avvicinano a Gesù. Tutti necessitano di Lui e tutti sono ammessi ad ascoltare la sua Parola. 
Tutti i pubblicani e i peccatori manifestano il desiderio di partecipare alla comunione con Dio, di essere salvati, di essere discepoli. L’ascolto nel vangelo di Luca è l’atteggiamento del credente. Ascoltare Gesù significa interiorizzare la sua Parola: significa seguirlo, essere suoi discepoli.
v. 2: I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro».
Se al versetto precedente avevamo un modo di accostarsi alla Parola, un desiderio del cuore, qui invece farisei e scribi ne tengono un altro: “mormorano”, svelando ostinazione e rifiuto. Il verbo nella Bibbia si ripete spesso. Nel Pentateuco questo verbo lo riscontriamo nel percorrere la vita del popolo ribelle a Dio che vagava nel deserto rifiutando Dio. Lo riscontriamo anche in altri testi biblici. Esso è figura della contestazione di Dio e del rifiuto del suo modo di dare salvezza (cf. «Perché ci hai fatto uscire dall'Egitto?» Es 17,1-7). Mormorare vuol dire mettere in dubbio la validità di ciò che Dio ha fatto, la validità della sua azione. È il verbo con cui l'uomo pretende di suggerire a Dio come dovrebbe comportarsi con l'uomo e come dovrebbe dargli la salvezza (o il castigo).
Il versetto raccoglie la superbia dei farisei e scribi che suggeriscono a Dio come dovrebbe comportarsi nei confronti dell'uomo. Gesù invece si lascia avvicinare da ogni genere di persone, compresi pubblicani e peccatori. Ciò suscita lo sdegno e il rimprovero di farisei e scribi, piuttosto comprensibile, visto che Gesù è un maestro e tale compagnia (per non parlare della condivisione della mensa), sempre disdicevole, era doppiamente scandalosa. 
v. 3: Ed egli disse loro questa parabola
Se i primi due versetti hanno fatto da anticamera a quanto Gesù sta per raccontare, questo versetto fa’ da introito alle tre parabole: la pecorella smarrita (vv.4-7); la dracma perduta (vv. 8-10); la liturgia propone solo la terza: il figlio prodigo o padre misericordioso. Luca assume questo modo di parlare riportando testi per un insegnamento prezioso. Infatti, ci troviamo nella seconda parte del vangelo lucano chiamata “relazione di viaggio” che si estende da 9,51 a 19,27. Qui troviamo la critica di scribi e farisei che non riescono ad accettare il comportamento di Gesù che mangia e beve con i peccatori, con peccatori pubblici, che non solo hanno fatto qualche peccato, ma sono in una condizione permanente di peccato. La parabola è una vera e propria risposta a queste critiche e, vuole dimostrare che Dio non la pensa come gli scribi e i farisei. Gesù, però, non parla solo a farisei e scribi, ma ad un pubblico più ampio, come si desume dal v. 4, e naturalmente anche ai lettori del testo lucano di tutti i tempi. È un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia. Gesù parla non tanto per difendersi dalle loro obiezioni, quanto per aprire loro gli occhi al mistero di Dio, di Dio misericordioso.
v. 11: Un uomo aveva due figli.
Ecco come inizia la parabola: un uomo e due figli. L’uomo qui è Dio-Amore: è padre e madre messo insieme (vedi: Rembrandt, “Il ritorno del Figliol prodigo”, dipinto del 1669). È la storia di sempre. È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. Di quest'uomo il testo non dice nulla. Il riferimento è a Dio Padre che continua a rivelare il suo amore e agli uomini nella loro totalità: peccatori o giusti. Due sono i figli. Due è il principio di una moltitudine ma anche della diversificazione (cf. Gen 4; 16; 25; 27). La diversificazione è presentata come cammino verso la maturazione dell'essere figlio. I due figli indicano la totalità degli uomini, sia peccatori che giusti, per lui siamo sempre e solo figli, perché Dio ha “compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23).
Il versetto non fa altro che mettere subito in chiaro la vita dei figli nei confronti del Padre, nei confronti di Dio.
v. 12: Il più giovane dei due disse al padre: Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta.
C'è una giovinezza che manifesta una certa agitazione, che manifesta un atteggiamento molto frequente anche oggi. Il figlio più giovane è il principio della ribellione. Esige per sé: strappa e vuole dominare con la propria volontà. Cosa chiede? "il patrimonio". Il verbo greco usato è ousìa, cioè il verbo che spiega il senso teologico della persona. Quasi a chiedere sé stesso, quasi a chiedere quel mondo solo per sé. Ma non ha capito che in quanto figlio, può realizzare la sua sostanza, la sua ousìa, nella misura in cui la orienta nell'unione con il Padre.
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Il Padre è in assoluto silenzio. Rimane sempre Padre. Si “annulla” di fronte alla tua scelta e divide le sue sostanze (alcune norme regolavano il diritto di successione alla morte del padre, о la spartizione dei beni mentre era ancora in vita il padre: cf. Dt 21,17; Sir 33,20-24), non è un antagonista.
Dividere le sostanze è già un atto di misericordia pretendere tanto e per di più con i1 Padre ancora in vita, è un palese atto di ribellione, impensabile per la cultura orientale. Qui il figlio si dimostra già un “avventato” uno “scapestrato”. E la legge era molto dura nel reprimere un tale atteggiamento (cf. Dt 21,18-21).
v. 13: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto
Questo figlio giovane raccoglie se stesso per stare lontano dal Padre e parte per un paese lontano, pagano. Lontano vuole dire: che non ci arrivi proprio niente di suo padre, né una notizia, né un’ombra, né un richiamo, ma in cui possa effettivamente fare quello che vuole; e lo fa in quel modo che il Vangelo dice: “vivendo da dissoluto”, fino “a trovarsi nel bisogno”. In questo paese il giovane sperpera se stesso. Gesù ricorda che "chi non raccoglie con Lui disperde" (Lc 11,23). Senza amore non si può raccogliere nulla, si vive da dissoluto. L'etimologia del termine ci fa capire lo stile di vita assunto che rompe, scioglie tutto, anche se stesso. Invece, chi vive con Lui, del Suo amore, è come un potente inceneritore dei propri detriti e fuoco che ravviva ogni potenzialità buona.
v. 14: Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
La volontà di essere padrone, lo conduce a sperperare tutto. Se a casa del Padre si sentiva schiavo adesso lo sta diventando. È la catastrofe. Una non rara carestia locale, che Luca aggrava con l'aggettivo "grande" (cf. Gen 47,13), fa sentire il giovane "nel bisogno" in uno stato di indigenza. Il termine greco "bisogno" esprime la mancanza di viveri, non c'è nulla per nutrirsi, rimane solo la morte.
Il giovane che da padrone volle passare da un ipotetico schiavo adesso lo è realmente. Si deve sottomettere al bisogno.
vv. 15-16: andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci
La condizione del giovane diventa così grave al punto che il giovane decade proprio dalla legge e dalla religione del suo popolo: si attacca (kollasthai) ad un pagano, diviene il suo schiavo custodendo l'animale impuro per eccellenza (Lv 11,7). Il porco è per gli ebrei simbolo di impurità e quindi non viene allevato da loro; andare a pascolare i porci è il massimo del degrado, peggio di così non poteva finire. Un detto rabbinico dice. “Maledetto l'uomo che alleva porci”. Questo vuole dire: da figlio è diventato schiavo; l’autonomia che lui cercava non l’ha in realtà conquistata. Quando Israele si illude di trovare la sua libertà negli idoli, in realtà trova semplicemente la schiavitù (cf. Ger 2,20-22).
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci
La fame ha creato un vuoto fuori e dentro di lui. Gli fa capire che fece una scelta sbagliata. Che non è stato capace di valutare le cose. Questo è l'inizio di un cammino verso la casa del Padre. Dice un antico detto ebraico: «Quando gli israeliti hanno bisogno di mangiare carrube, è la volta che si convertono».
ma nessuno gli dava nulla. 
In quest'ultima parte di questo versetto, ritorna con altre parole quanto abbiamo riscontrato nei vv. 12-13: "il raccogliere se stesso". La sofferenza del giovane figlio sembra dovuta più alla mancanza di relazioni personali che a quella del cibo e delle cose. Lontano dal padre, il figlio è abbandonato anche dagli uomini.
v. 17: Allora ritornò in sé e disse: «Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Si noti, come in questo monologo, Luca non esprime grandi sentimenti di pentimento; è una conversione a sé, più che al padre, intuisce il vero proprio interesse: “salariati...di mio padre”. Lo considera e lo chiama padre, anche se non considera sé come figlio. Instaura il paragone con i salariati. Ha ancora una falsa immagine del Padre.  
Questo ritornare in sé non è altro che l’esperienza del peccato a cui si è consegnato e che ne è diventato padrone, il proprio dio. Il figlio giovane constata che la realtà non era come pensava. Continua a fare il soliloquio esprimendo se stesso e non il pentimento. Guarda solo l'indigenza e non la conversione. I salariati sono il paragone su cui confrontarsi e non il padre.
v. 18: Mi alzerò, andrò da mio padre
Qui l'inizio del cammino. Alzare, anistēmi è uno dei due verbi (l'altro è egeirō svegliare) usati dal NT per la risurrezione. Qui indica l'inizio di una nuova azione, si potrebbe tradurre con: apprestarsi, accingersi.
È un nuovo viaggio, nella consapevolezza del proprio peccato. Esperienza di smarrimento e confusione che provoca vergogna ma anche ravvedimento (cf. Ger 31,19). Quest'esperienza è verso la casa del padre- Il giovane figlio usa ancora la parola "padre" in una maniera inconscia in quanto non si riconosce figlio.
e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te.
È il riconoscimento delle colpe. Non ha infatti una colpa sola, ma parecchie: aver chiesto la divisione dell'eredità; l'essere andato lontano; l'aver dilapidato tutto; il non aver pensato al padre prima di cercare il lavoro umiliante.
Il "contro il Cielo" è espressione biblica (cf. Es 10,16) ed è l'unico riferimento che abbiamo di Dio. San Paolo, però, spiegherà che ogni paternità discende dall'alto (cf. Ef 3,15).
v. 19: non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati
La conversione non è un percorso facile, anzi è impossibile che l'uomo ritorni a Dio con le sue sole forze interiori. Infatti, il giovane continua a non riconoscersi figlio e pone la sua speranza in una punizione che gli sembra possibile: tra i lavoratori salariati di casa sua.
Luca descrive queste parole come una sorta di supplica ed usa il verbo “fare” (poiēo) per dire trattami, una supplica che possiamo leggerla così: “fammi nascere ancora” (cf. Gv 3,1-11). È la rinascita nella dignità battesimale descritta con molti particolari. Qui si incontra il desiderio dell’uomo con il desiderio di Dio.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre.
Se fin d'ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per capire, l'evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell'amore.
Quando era ancora lontano il padre lo vide. 
C'è una lontananza descritta come “dimora” che il figlio giovane scelse per affermare unilateralmente la propria volontà. La sacra Scrittura descrive questa lontananza come quel "giardino" in cui il Padre scende e chiede: "Adamo, dove sei?" (Gen 3,9).
Il lontano è la situazione di peccato e il vedere del Padre è il vedere dell'amore che scruta le profondità della notte; nessuna oscurità e tenebre può sottrarlo alla sua vista (Sal 139,11). L’occhio è l’organo del cuore: gli porta l’oggetto del suo desiderio. Lo sguardo di Dio verso il peccatore è tenero e benevolo come quello di una madre verso il figlio malato (cf. Is 49,14-16; Ger 31,20; Sal 27,10; Os 11,8).
commosso gli corse incontro
La compassione è il verbo che definisce la figura del padre. In lui “gli si sono mosse dentro le viscere”. Letteralmente “fu colpito alle viscere”. Il verbo greco rimanda alle viscere materne, un sentimento attribuito spesso Dio nell'A.T.; per il N.T. vedi Mc 1,41; 6,34; 8,2, Lc 7,13; 10,33). Si mette a correre: un comportamento non adatto per la sua età e autorità ma altamente espressivo (At 20,37; Gen 33,4; 45,14-15; Tb 11,9). In questo verbo abbiamo l'aspetto materno della paternità di Dio. È la qualità di quel Dio che è misericordia. In Lc 6,36 Dio ci è presentato come “padre misericordioso”, cioè insieme come padre e come madre (Luca usa l'aggettivo “oiktìrmon” che traduce l'ebraico “rahamin”, che indica il ventre, l'utero).
gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Sembra che i ruoli si invertano. Il padre patisce la distanza e corre incontro al figlio che letteralmente fa “cadere addosso”. Una storia analoga la troviamo in Giuseppe d'Egitto, dove riscontriamo il dramma del figlio amato. Al termine del dramma Giuseppe si getta al collo del vecchio Giacobbe (Gen 46,29).
Questo gettarsi al collo interrompe l'idea del figlio. Il padre è stanco di avere dei servi vuole avere dei figli. Il gesto del bacio è il segno di perdono (cf. 2 Sam 14,33). L'amore è una relazione tra persone, che si compie nella comunione e nell'unione. Questi sono gesti che nell'AT indicano il perdono e la riconciliazione il segno che la comunione d’amore che c’era prima, è stata immediatamente ristabilita.
vv. 21-24: Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».
Il peccato si fa pesante. Essere figlio non è questione di dignità o di merito; è un dato di fatto. Il padre può essere libero nel mettere al mondo il figlio, ma nell'essere figlio non c'è libertà; non si sceglie né di nascere né da chi. Il figlio minore non ha ancora capito che il Padre è amore necessario e gratuito. La conversione non è diventare "degni", o almeno "migliori" o "passabili", per meritare la grazia di Dio; la conversione è accettare Dio come un Padre che ama gratuitamente.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello.
Il padre prende subito l’iniziativa: non permette al figlio di terminare la sua confessione; non dice nulla al figlio, ma l’interruzione nella dichiarazione da parte del figlio, indica che l’aspetto importante della parabola, non è la conversione più o meno sentita del figlio, ma piuttosto l’accoglienza e la misericordia del padre.
Il vestito più bello è quello della veste nuziale, il "biglietto d'ingresso" al banchetto nuziale (cf. Mt 22,11) e con il segno del vestito, il "servo" vestito da figlio è tra i segnati con il segno della salvezza (cf. Ez 9,4). È lo stato creaturale di coloro che anelano ad essere rivestiti di Cristo (cf. Rm 13,14).
mettetegli l'anello al dito e i sandali ai piedi.
L'anello è segno di potere (cf. Gen 41,41-42; Est 3,10; 8,2 ed anche Gc 2,2) e in particolare segno della filiazione, segno di quel "mettimi come sigillo sul tuo cuore" (Ct 8,6) per esprimere l'unione indissolubile.
I sandali ai piedi sono segno della nobiltà e della famiglia (gli schiavi andavano a piedi nudi), garanzia che nulla li può separare. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola (Gv 10,30).
Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa.
C'è qui un’allusione all'eucarestia. Il sacrificio grasso (lett. di grano) di cui si parla è quel sacrificio sano (v. 27) che segnerà il tempo messianico (cf. Is 25,6). Questo “vitello di grano” è l'Agnello immolato per quell'amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
La festa è un evento particolare, una nuova Pentecoste piena di senso, piena di Dio. La Bibbia legge la festa come una realtà libera con una sua regola interiore: il luogo dell'amore di quelle persone che aderiscono fino a quel "gettarsi al collo", un amore nella verità.
v. 24: perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.
Qui abbiamo la motivazione. È il canto alla vita del figlio ritrovato, della relazione nuova, filiale e fraterna. I termini "morte e vita" lasciano intuire che la sua gioia deriva da una relazione che si era spezzata prima e ora è reintegrata in un contesto di libertà. I verbi "perdere e ritrovare" collegano questa parabola alle altre due precedenti nelle quali si parla della pecora e della dramma perduta e poi ritrovate. Anche in queste due parabole compare l’ordine di rallegrarsi e far festa.
vv. 25-27: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo».
Qui inizia apparentemente un’altra storia, infatti sono l'apice del vero incontro, con chi deve essere ritrovato. C'è un figlio di cui fino adesso ne abbiamo parlato, e di cui il figlio giovane ne ha prestato il nome. È il figlio maggiore. Chi è il figlio maggiore? Nella Bibbia il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di essere nel giusto e va in cerca dei ripari. Il suo interesse è il luogo dove si lavora il suolo, dove si fatica, si suda, su procura il cibo (cf. Gen 3,19). Questo luogo è il campo, il luogo del serpente biblico (Gen 1,26): è il luogo che rimane fuori dall'amore del Padre (il figlio maggiore non dice mai Padre). Questo giusto, però, non sa nulla della gioia di Dio, anzi gli è sospetta e per questo indaga minuziosamente, interroga un servo per sapere cosa sta accadendo.
v. 28: Egli si indignò, e non voleva entrare.
Il figlio maggiore sconoscendo la gioia del padre, rifiuta l'identità di figlio. La sua nuova identità è l’indignazione.  Non accetta il modo di fare del Padre, come Giona che si contristò mortalmente al vedere un Dio simile (cf. Gio 4,3.8.9) e non volle entrare per la sua dura ostinazione. È il passaggio per la porta stretta della misericordia ove i peccatori passano tutti, ma dei giusti nessuno, perché non lo vogliono. Il Salmista ricorda: "non irritarti per chi ha successo" (Sal 37,7) perché l'ira dei popoli contro Dio colma di superbia e presunzione (Ap 11,18).
Suo padre allora uscì a supplicarlo
Il Padre uscì per consolarlo. Fa' il primo passo verso il figlio, perché desideroso della comunione con tutti i suoi figli. L'amore continua sempre a soffrire perché ci sta un'assenza: c'è sempre qualcuno che è lontano. Il Padre esce dal luogo della festa. È il pastore che lascia le novantanove pecore per andare incontro all'unica pecora smarrita (15,3-7).
La supplica di cui si parla non tanto come preghiera ma come un "chiamare a sé", un "dire dolci parole". Anche qui possiamo cogliere il muoversi a compassione.
v. 29: Ma egli rispose a suo padre: «Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici.  
Qui sta l'identità del figlio maggiore: un riconoscersi servo e ribelle come il figlio più giovane, un affermare la sua coscienza regolarmente fedele e rispettosa senza sciupare nulla (cf. Mt 25,24-29) come il pio israelita (Lc 18,9ss).
Anche questo figlio non apprezza il padre e il senso del suo vivere con lui. Gli amici sembrano valere ai suoi occhi più della comunione col Padre. Dimentica però che la vera amicizia è quell'amore maturato sulla scia dell'essere figlio. Appare, di conseguenza, anch'egli come il fratello minore, più centrato sui beni paterni. Il rapporto con il padre, e sul piano religioso con Dio, è di carattere commerciale: do ut des, io ti do e tu mi devi dare, ha sempre ricevuto quello che gli spettava come stipendio, ma niente di più di quello che va al di là del gratuito.
Inoltre, il figlio maggiore qui può essere visto come il rappresentante di una religiosità seria e impegnata ma di scambio, dove Dio è datore di lavoro e l’uomo solo un operaio, per cui ha diritto ad un salario corrispondente. Tutto quello che non entra in questo sistema di scambio economico e preciso, diventa incomprensibile e “non si vuole entrare” nell'amore del Padre.
v. 30: Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso».
Il v. 1 recita: "si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo, mentre i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro". Nelle parole del figlio maggiore si rinnova il pensiero degli scribi e dei farisei. Gesù è motivo di scandalo perché profana tutto ciò che è santo e si mescola con ciò che è impuro. Del resto, Luca ci ha già riferito il giudizio circolante su Gesù: "Ecco un mangione e un beone, un amico dei pubblicani e dei peccatori" (7,34).
In questo versetto si esclude la paternità e la figliolanza. Anche se si sta rivolgendo al padre segna una rottura con lui, una distanza e una volontaria cesura, mentre il servo aveva detto tuo padre e tuo fratello.
vv. 31-32: Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo
Il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni, abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello, nella festa del perdono. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo a farisei e scribi, e ad ogni lettore.
A Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla così: "Figlio, ritorna anche tu!". E il vangelo non dice se il figlio ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che la risposta deve essere ancora data!
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Cosa mi dice la parabola a riguardo del rapporto con Dio?
Come mi interpella nel mio cammino quaresimale di conversione?
Il mio rapporto di fede con Dio è più simile al lavoro di un servo o all'amore di un figlio?
Come intendo i miei rapporti con gli altri alla luce del testo di Luca?
Sono come il figlio maggiore: invidioso dei peccatori che si convertono?
Desidero entrare alla festa di Dio?
Voglio continuare a non capire la mentalità, il cuore di Dio?
Il desiderio di comunione da parte del Padre, cosa dice questo alla mia esperienza di fede? 
Non sappiamo quale decisione avrà preso il figlio maggiore, e io che ora sto meditando questo brano cosa farò?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Benedirò il Signore in ogni tempo,
sulla mia bocca sempre la sua lode.
Io mi glorio nel Signore:
i poveri ascoltino e si rallegrino.
 
Magnificate con me il Signore,
esaltiamo insieme il suo nome.
Ho cercato il Signore: mi ha risposto
e da ogni mia paura mi ha liberato.
 
Guardate a lui e sarete raggianti,
i vostri volti non dovranno arrossire.
Questo povero grida e il Signore lo ascolta,
lo salva da tutte le sue angosce. (Sal 33)
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Nel gesto del padre, nel comportamento dei figli, rileggiamo la nostra storia personale e comunitaria per una continua conversione e sarà l’inizio di una festa senza fine.