martedì 7 gennaio 2025

LECTIO: BATTESIMO DEL SIGNORE (ANNO C)

Lectio divina su Lc 3,15-16.21-22


Invocare
Padre santo, che nel battesimo del tuo amato Figlio hai manifestato la tua bontà per gli uomini, concedi a coloro che sono stati rigenerati nell’acqua e nello Spirito di vivere con pietà e giustizia in questo mondo per ricevere in eredità la vita eterna.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

In ascolto della Parola (Leggere)
15Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, 16Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 
21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».

In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La festa del Battesimo di Gesù è stata sempre l'occasione per riflettere sul nostro battesimo. Scendendo nel Giordano, dicevano i Padri, Gesù ha idealmente santificato le acque di tutti i battisteri del mondo. «Oggi la Chiesa lavata dalla colpa nel fiume Giordano si unisce a Cristo, suo Sposo, accorrono i magi con doni alle nozze regali e l’acqua cambiata in vino rallegra la mensa, alleluia» – così recita l’antifona delle lodi del giorno dell’Epifania.
Il brano odierno è narrato dall’evangelista Luca e nel Tempo di Avvento è stato oggetto di meditazione. Tra tutti i personaggi abbiamo il Battista che possiamo approfondire la sua figura al Giordano confrontando i Testi di Mt 3,11-17; Mc 1,7-11; Lc 3,10-22. Nel contesto dei Sinottici troviamo la gente che scende nella parte più bassa della terra (397 metri sotto il livello del mare). Questo scendere è il simbolo dello scendere nella parte più bassa della propria esistenza per poter fare l’incontro vero.
Luca, nel vangelo, pone in parallelo il battesimo di Giovanni con quello di Gesù perché appaia chiaramente la continuità che li lega e nello stesso tempo la distanza che li distingue. Uno è il battesimo “con acqua” amministrato dal precursore; l’altro è il battesimo “in Spirito Santo e fuoco” amministrato dal più forte, da “colui che deve venire”.
Il battesimo in Spirito Santo e fuoco è quello che deve inaugurare l’esistenza della chiesa. È importante notare che il battesimo cristiano, che segna la nascita della chiesa, è preceduto dal battesimo di Gesù stesso.
Dal punto di vista esegetico, l’evangelista Luca, a differenza degli altri Sinottici, si manifesta sospettoso verso un tentativo del cristianesimo primitivo di presentare il Battista come un rivale o addirittura come un dichiarato oppositore di Gesù.
Il vangelo di Giovanni (1,8.19-34) è più esplicito (lo abbiamo già ascoltato in questo tempo natalizio) nel far rilevare che Giovanni il Battista non è il Messia. A Luca non sembra interessare il battesimo di Gesù in quanto tale (di fatto non lo descrive), ma quello che è avvenuto “dopo” il battesimo. Il battesimo di Gesù viene per ultimo, dopo quello di tutto il popolo; diventa così il battesimo amministrato da Giovanni l’ultimo atto del “tempo d’Israele”, tempo della preparazione. Da allora inizia un nuovo periodo della storia di salvezza, il “tempo di Gesù”, tempo del compimento.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 15: Poiché il popolo era in attesa
Luca ama far emergere la problematica che investiva la predicazione e l'opera del Battista. La predica del Battista accresce nel popolo l'attesa messianica, tempo in cui Dio avrebbe realizzato le promesse.
Luca mette in risalto è l'attesa del popolo, come se tutti si interrogassero sull'identità di Giovanni, e come se tutti fossero in attesa del Cristo. Sullo sfondo sta una convinzione profonda: l'uomo attende un compimento, porta con sé una domanda profonda, che spesso resta inespressa, una domanda di pace, di giustizia, un desiderio di instaurare relazioni positive e riconciliate. In modo particolare una simile attesa è condivisa da Israele, popolo scelto da Dio per avviare la storia della salvezza. Infatti, l’attesa non ha nulla di passivo perché ha un suo dinamismo nel cuore che richiama alla conversione continua. San Paolo poi ci dona un atteggiamento da vivere questa attesa: «rimanete in questo modo saldi nel Signore, carissimi (...) Il Signore è vicino!» (Fl 4, 1.5).
tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo 
Nel quindicesimo anno di Tiberio (Lc 3,1-6), probabilmente il 28 d.C., quando l’asceta ebreo Giovanni soprannominato il Battista, a motivo di quanto faceva al Giordano, attirò grandi folle, compreso Erode Antipa, che poi lo fece arrestare e uccidere.
Per le folle, impressionate dall’autorità morale di Giovanni, subito cominciarono a chiedersi se non era proprio lui il Messia. Di fatto, dice il Vangelo di Luca che il popolo sta vivendo un’attesa ansiosa, febbrile e piena di desiderio nei confronti del Cristo. “Cristo” è la traduzione dell’ebraico Messia. Di per sé Messia viene dalla radice che significa “ungere”, “consacrare”; quindi, il Messia è un consacrato: consacrato da Dio e inviato. Consacrato vuol dire che ha una missione da parte di Dio. E la missione è la restaurazione di Israele.
v. 16: Giovanni rispose a tutti dicendo: Io vi battezzo con acqua
Giovanni risponde anzitutto a sé stesso, come i sacerdoti e i leviti gli chiesero (cf. Gv 1,22) poi a tutti, nessuno escluso. La voce che si alza nel deserto della vita arriva all’orecchio di tutti coloro che erano scesi nella parte più bassa della crosta terrestre.
Il suo battesimo è con acqua: elemento naturale per la purificazione. Il battesimo di Giovanni non rimetteva i peccati, ma chi lo riceveva esprimeva la volontà di fare penitenza. Se fosse servito a rimettere i peccati, Gesù non l’avrebbe richiesto, perché Egli era “il Santo”, come lo ha definito l’arcangelo Gabriele (cf. 1,35) e come lo chiamava satana (cfr. 4,34).
 ma viene colui che è più forte di me,
“Viene” vuol dire che sta entrando, che è entrato nell’esperienza di Israele. Il testo dice letteralmente: “viene il più forte di me”, non “uno più forte”, ma “il più forte”. C’è l’articolo “il” che indica una persona precisa, conosciuta come tale, attesa e preannunciata. Il profeta Isaia applicava al re-messia «forte, potente come Dio» (9,5) e che nell'AT costituiva uno degli attributi del Creatore, considerato sovrano dell'universo e della storia: «Il Signore regna, si ammanta di splendore, si cinge di forza» (Sal 93,1).
Quindi, Giovanni si presenta come un forte perché è mandato da Dio, è un profeta, ha una missione, deve realizzare un compito; ma la forza di Giovanni è solo una preparazione o un’attesa di una forza più grande legata ad un altro personaggio. Del quale dice semplicemente: “viene uno” di cui un canto processionale dice: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Sal 118). Tale canto viene applicato da Luca a Gesù durante il suo ingresso a Gerusalemme. Anche il famoso annuncio messianico nel libro del profeta Zaccaria riporta lo stesso messaggio: «Ecco, Sion, a te viene il tuo re» (Zc 9,9).
a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali.
Qui abbiamo un riferimento alla legge del levirato. La legge del levirato consisteva in questo: quando una donna rimaneva vedova, senza un figlio, il cognato – da qui il termine “levirato”, “levir” significa cognato – aveva l’obbligo di metterla incinta. Quando, per qualche motivo il cognato rifiutava, colui che aveva diritto dopo di lui, procedeva alla cerimonia dello scalzamento, scioglieva il sandalo della persona che doveva mettere incinta questa vedova, ci sputava e questo significava “il tuo diritto di mettere incinta questa donna passa a me” (cf. Dt 25; Rt 4).
In altre parole, il Battista dice “non sono io colui che deve fecondare questa vedova”, “ne avrei diritto io, ma lascio la precedenza a te”.
Il rapporto tra Dio e il popolo era raffigurato come quello tra uno sposo e una sposa; quindi, la vedova a cui si riferisce è la sposa che non ha marito, una sposa infedele. Il Battista riconosce in Gesù lo sposo di Israele. Sarà l’evangelista Giovanni a sviluppare bene questo concetto.
Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 
Il Messia porta lo Spirito Santo in misura sovrabbondante a coloro che sono disposti alla penitenza; agli impedimenti invece porta la condanna, il fuoco della perdizione. Il battesimo in Spirito e fuoco è un’immersione interiore, intima, profonda, dell’amore di Dio che rende poi capace l’uomo di trasformare la propria esistenza. Esso ha anche un riferimento al giudizio escatologico (si veda il battesimo amministrato da Giovanni) con riferimento ad Ez 36,25ss. Molto presto però questo testo è stato cristianizzato: per Luca il più forte è Gesù Cristo e il riferimento al fuoco, più che all’escathon è riferito alla Pentecoste. È interessante notare che questa espressione è ripresa dall’evangelista nel testo degli Atti (1,5 e 11,16) e attribuita a Gesù stesso. Ma che cosa vuol dire in “Spirito Santo e fuoco”? Che rapporto c’è tra questi due elementi, nei quali si compie il battesimo di Gesù? Qualcuno dice: il fuoco, non è altro che il fuoco dello Spirito Santo, perché “lo Spirito Santo è sceso sugli Apostoli sotto forma di lingue di fuoco” (At 2,3); quindi Spirito Santo e fuoco non sono due cose diverse, sono il dono della forza che viene da Dio e il segno di questa forza nell’immagine del fuoco. Le ipotesi però sono varie. Ma possiamo chiudere il pensiero così: “Lo Spirito Santo allude alla forza creatrice e rinnovatrice che il Messia riverserà sui credenti per renderli uomini «nuovi». Il fuoco allude non solo alla purificazione che opererà il Battesimo, così come si purifica l’oro nel crogiuolo, ma anche al suo significato escatologico, di separazione definitiva tra bene e male.
v. 21: Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 
È il momento atteso da Isaia: «Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19), preghiera da lui innalzata. Si tratta di un versetto in cui l’orante chiede a Dio di riaprire il cielo, di manifestarsi e di scendere in mezzo al popolo, così da attuare un nuovo esodo. Questo suggerimento al passo di Isaia suggerisce un significato importante al battesimo di Gesù: dopo un lungo periodo di silenzio da parte di Dio e da parte del suo Spirito, ora inizia il tempo atteso, nel quale Dio di nuovo si dona agli uomini e torna a parlare.
Al Giordano, si aprì come si apre una porta o una diga, come una breccia nelle mura. Il cielo si apre per permettere la comunicazione tra il mondo del divino e gli uomini. L’apertura dei cieli è un motivo ricorrente nei testi di rivelazione, e prelude sempre a una visione, così per esempio: Is 6,1; Ez 1,1 e anche At 7,56.
Nel nostro episodio, però, l’apertura dei cieli non prelude a una visione del mondo celeste, bensì alla discesa dello Spirito Santo. «Spirito» è parola che significa «vita», dal primo soffio di Dio che accende la fiamma misteriosa nel guscio d'argilla che è Adamo. «Santo» significa «di Dio» (Silvano Fausti). Vivere la «Vita di Dio», soffio che rianima la fiamma smorta, vitalità nuova per ogni battezzato.
v. 22: e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba,
Dal diluvio in poi Israele è stata raffigurata dalla colomba. Lo ricordano le tradizioni più antiche (Os 11,11; Sal 68,14), simbolo di gentilezza e del popolo di Israele. Luca intende dire che Gesù poteva quasi stendere la mano e toccare la nuova comunità che si stava formando attorno a lui, il che sarebbe stato possibile in un modo del tutto speciale quando la Pentecoste avrebbe realizzato la promessa del battesimo di Gesù.
Gesù è il nido della colomba ricolmo dello Spirito Santo.
e venne una voce dal cielo
Dire che la voce viene “dal cielo” non significa tanto la provenienza quanto l’autorevolezza. È uno stile biblico comune che ricorre sotto varie forme, e si riferisce a un messaggio o a un'azione che esprime le speranze di Dio e la sua determinazione (Es 19,9; 1 Sm 3,4 ss; 7,10; Sal 29).
La voce indica una presenza. Questa è più che una presenza perché è la presenza del Padre. Il testo indica non colui che emette questa voce, ma piuttosto colui che ne è il destinatario. Il destinatario è Gesù. Quante volte non siamo semplicemente voce e il nostro servizio è molto diverso dall’essere voce. Invece rimanda, il nostro servizio, a chi lo compie, non a colui che ne è il destinatario. Il Padre dà del ‘tu’ al Figlio, ne rivela la predilezione, ma senza nominarsi, quasi che il Figlio esaurisca completamente la paternità di Dio.
«Tu sei il Figlio mio, l'amato: in te ho posto il mio compiacimento».
Questa parte del versetto, esprime quella che è l’identità personale di Gesù. Identità personale che vuol dire il suo rapporto con il Padre, il suo essere una cosa sola con il Padre; questa identità è manifestata nello Spirito.
Gesù è in pienezza quel figlio “unico/amato/yāîd (cf. Gen 22,2.16), Isacco/il Sorriso di Dio, il figlio della promessa donato da YHWH ad Abramo, che arriverà fino allestremo limite di offrirlo in olocausto al suo Donatore.
Le parole "Figlio mio" sono una deliberata sostituzione neotestamentaria dell'ebraico "ebed" (servo). Poiché il servo del Signore è sia un individuo ideale, sia il rappresentante dell'intera comunità (Is 42,1). Gesù è completamente incarnato nella comunità escatologica, fino al punto da essere battezzato come tutti gli altri uomini, ma egli incarna pure nella unicità singolare della sua persona i loro ideali più sublimi e le loro speranze.
A motivo della sua unione totale con ogni debolezza, Gesù incorpora in sé, infine, la figura del misterioso Servo di YHWH che vive totalmente a disposizione di YHWH e del suo popolo, fino a offrire la propria vita (cf. Is 42,1) in modo da poter infondere la vita in ogni sfera dell'esistenza umana.
Questa associazione del battesimo di Gesù con la sua futura morte e risurrezione emerge chiaramente in Lc 12,50 (Mc 10,38). Sembra che in Luca l'espressione "Figlio mio" completata dal precedente riferimento allo Spirito Santo. Lo Spirito è forza di unione, è forza di comunione; se l’uomo Gesù può essere una cosa sola con il Padre è perché in lui c’è lo stesso Spirito di Dio, c’è quella presenza personale dell’amore di Dio che fa di lui una cosa sola con il Padre. 

Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
▪ Io, oggi, nella vita, cosa aspetto?
▪ Torno all’essenziale, a fare memoria viva e grata del mio Battesimo?
Questa verità di Gesù Figlio di Dio, l'amato, è una convinzione consapevole per me?
Il battesimo di Gesù mi rivela che Dio non è lontano, chiuso nella sua trascendenza e indifferente al bisogno di salvezza dell'umanità?
▪ Gesù chiama alla condivisione. Sono una persona che condivide? Che porta “i pesi gli uni degli altri”?
▪ Sono discepolo dell’amore di Gesù o un discepolo del chiacchiericcio?
Tante volte ho sentito dire che anche io sono figlio di Dio oppure tante volte l’ho affermato, ma lo sono veramente nel cuore e nella vita? oppure mi fregio del nome e il mio comportamento è solo di facciata?  

Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Come una cerva assetata
desidera l'acqua,
così anch'io anelo
a te, mio Dio.

Io ho sete del mio Dio,
del Dio vivente:
quando potrò vedere
il volto di Dio?

Sono mio pane le lacrime
di giorno e di notte,
mentre mi si dice tutto il giorno:
«Dov'è il tuo Dio?».

E ora mi sento commuovere
nel ricordo di un tempo,
quando andavo alla casa di Dio
fra moltitudini in festa.

Perché sei triste, anima mia
perché ti agiti in me?
Spera in Dio, ancora lo proclamerò:
mia salvezza e mio Dio! (Sal 42).

L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Rallegriamoci nel Signore e viviamo in profonda umiltà la nostra vita di fede. Solo l’umiltà e la consapevolezza della nostra fragilità ci dischiudono il cuore di Dio. Con Cristo, per Cristo ed in Cristo, annunciamo anche noi quella Buona Novella del suo Regno che è gioia, pace, serenità, condivisione ed amore attorno all’Emmanuele, il Dio con noi.

 

sabato 4 gennaio 2025

LECTIO: EPIFANIA DEL SIGNORE (Anno C)

Lectio divina su Mt 2,1-12
 
Invocare
O Dio, che in questo giorno, con la guida della stella, hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio, conduci benigno anche noi, che già ti abbiamo conosciuto per la fede, a contemplare la grandezza della tua gloria.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov'è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo». 3All'udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. 4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero: «A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele». 7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo». 9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Epifania è una parola che viene dal greco e vuol dire: “manifestazione”. Infatti, oggi celebriamo la certezza che Dio manifesta il suo Amore ad ogni persona, si fa vedere e conoscere agli uomini e alle donne di ogni angolo del mondo. Scrive san Paolo che “si è manifestata la misericordia e l’amore di Dio per gli uomini”. Questa è l’Epifania che celebriamo: la rivelazione di Dio amore nella carne.
Il brano evangelico odierno, con la narrazione dei Magi, lo troviamo solo in Matteo. Nel loro percorso, questi uomini venuti da lontano portano nel cuore solo amore, che qui viene tradotto nei verbi: cercare e accogliere, amare e adorare il Signore Gesù. Il loro lungo viaggio, la loro ricerca instancabile, la conversione del loro cuore sono realtà che parlano di noi, della nostra stessa storia.
La pagina dei Magi è una solenne dichiarazione di missionarietà e di universalismo. Questo episodio richiama la conclusione dell’intero Vangelo: “Andate, dunque, e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20). Due pagine missionarie che aprono e chiudono la storia di Cristo, con una differenza: nell'episodio dei Magi sono le genti che arrivano a Gerusalemme, alla fine del vangelo è la Chiesa inviata al mondo. Questa seconda annotazione esprime più profondamente la concezione della missione come servizio, come un uscire da sé per andare alla ricerca degli altri, aprendo tutti gli spazi possibili che non è altro un aprire la nostra vita all'incontro con Cristo, perché egli prenda possesso del nostro cuore e della nostra mente, per assaporare la gioia di appartenergli e di vivere per Lui, con Lui ed in Lui.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Nato Gesù a Betlemme di Giudea
I capitoli 1-2 di Matteo raccolgono l'infanzia di Gesù. L'Evangelista subito dopo la nascita di Gesù, fa seguire l'adorazione dei Magi a Betlemme, luogo di nascita di Davide e luogo di origine del futuro re messia. A conferma di ciò Matteo cita Mi 5,1-3. Al contrario di Lc 2,1-7, Matteo fa solo un breve accenno alla nascita di Gesù. Betlemme era la città natale di Davide, e perciò il racconto della nascita di Gesù riprende il motivo del "Figlio di Davide" dal capitolo 1. Inoltre, in questo paese della Giudea vi possiamo cogliere l'aspetto teologico raccolto in una benedizione descritto dall'autore del Libro della Genesi: "Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi, finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli" (Gen 49,10).
alcuni Magi
Il termine greco magoi (con la traduzione italiana di magi) raccoglie diversi significati: sacerdoti persiani, detentori di poteri soprannaturali, astrologi. "L'ambivalenza del termine 'mago', che troviamo qui, mette in luce l'ambivalenza della dimensione religiosa come tale. la religiosità può diventare una via verso una vera conoscenza, una via verso Gesù Cristo" (Benedetto XVI).
La tradizione cristiana ha identificato questi magi con sovrani provenienti dall'Oriente (ciò lascia pensare alla Mesopotamia, la patria dell’astrologia del mondo greco) e ha fissato il loro numero a tre, ispirandosi ai doni da essi offerti. L’oro, l’incenso e la mirra riecheggiano il Sal 72,10; Is 60,6. Questi non erano dei semplici astronomi, ma persone capaci di guardare oltre l'orizzonte.
vennero da oriente a Gerusalemme
Questi Magi, seguendo la loro scienza, interrogandosi, fanno il cammino verso Gerusalemme.
Gerusalemme è il luogo della rivelazione, è il luogo dove è stata data la Scrittura, la Parola. Ciò ci dice che scienza e fede non sono due cose contrarie. La scienza ti porta a interrogarti sul perché e il perché ti porta a interrogarti su quelle risposte andando a Gerusalemme. Il perché lo trovi nel cammino a Gerusalemme.
Dio si è rivelato a Israele, noi scopriamo il perché andando a Gerusalemme, come hanno fatto i Magi.
v. 2: dov’è colui che è nato, il re dei Giudei
Nella Bibbia, la prima parola che Dio rivolge ad Adamo è: “Dove sei?” (Gen 3,9) perché anche l’uomo chiedesse a sua volta a Dio: dove sei? Così i due si potessero incontrare. Anche da parte dei magi c’è un "dove sei?". In loro sta nascosto, nella loro domanda, un invito a chiederci chi è questo fragile bambino? dove si trova?
Il “bambino deposto nella mangiatoia”, viene chiamato “re dei Giudei”. È un'espressione pagana e non ebraica. In Israele si sarebbe detto re di Israele. Il seguito del Vangelo chiarirà meglio questo: il titolo di re è attribuito a Gesù solo nel contesto della Passione (cfr. Mc 15,9; Gv 19,19-22), dove ricorre con una certa insistenza. È la passione il luogo dove si coglie il vero significato della regalità di Gesù, una regalità diversa da quella a cui gli uomini sono abituati.
Abbiamo visto spuntare la sua stella
La menzione della “stella” mostra che essi sono esperti in astrologia. La stella nell'antico Oriente era il segno di un dio e, di conseguenza, di un re divinizzato. Matteo ci riferisce questo fatto, non perché è interessato dal fatto che una stella abbia confermato la nascita del messia, ma perché esiste una profezia messianica esplicita nel libro dei Numeri (24,17), che parla di una stella. La profezia di Balaam.
Stando a una nota linguistica, possiamo leggere questo "spuntare" col sostantivo greco "anatolè" dal verbo "anatello", che significa stella, sole, dente, germoglio come il germoglio profetato da Isaia (Is 11,1-11). Al di là di tutto questo, vi è non solo nelle persone ma in tutto il cosmo un movimento verso Cristo quasi a riprendere le parole dell'evangelista Giovanni: "tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste" (Gv 1,3).
L’arrivo dei Magi è il segno che Gesù compie le promesse antiche, ma il compimento è accompagnato dal giudizio su Israele: i lontani accolgono il Messia e i vicini lo rifiutano: il Messia è il segno di contraddizione. 
Tutto il Vangelo di Matteo è segnato da questa sorpresa: basti pensare alla parabola dei vignaioli omicidi (21,33ss.) o alla parabola del banchetto di nozze (22,1-14), ambedue mostrano che il regno passa da Israele ai pagani, e che questo passaggio rientra nel disegno di Dio.
siamo venuti ad adorarlo
Il termine greco proskyneó si riferisce a un atto di sottomissione (inchino profondo, prostrazione) davanti a una persona di grande dignità o autorità. In questo caso si tratta del "re dei Giudei". Matteo descrive l'atteggiamento più appropriato degli uomini davanti a Dio per tre volte (Mt 2,2.8.11). Questo gesto sembra anticipare quanto l'evangelista dirà in seguito: “Molti verranno dall'oriente e dall'occidente e riceveranno a mensa...” (8,11).
Dopo l'adorazione, scatta l'intimità espressa attraverso il simbolo del banchetto. Purtroppo, l'umanità spesso “ha venerato e adorato la creatura al posto del Creatore” (Rm 1,25). “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori” dice Pietro nella sua lettera (1Pt 3,15). Tuttavia, l'adorazione non è solo un atto di timore, è anche espressione di adesione gioiosa, di libertà, di intimità.
v. 3: il re Erode restò turbato.
Matteo ha cura di collocare il titolo di re in un contesto di opposizione. Accanto al re Messia c’è il re Erode. E il secondo ha paura del primo.
Erode con il suo orgoglio non entra in questa dimensione della regalità di Gesù. Si crede l'unico re assoluto, altri non sono che usurpatori. Si sente disturbato.
Dio viene a disturbare chi si sente troppo sicuro di sé San Paolo dirà: "chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere" (1Cor 10,12).
Questo turbamento per Gesù che entra nella storia dell'uomo ritornerà per la città di Gerusalemme, quando Gesù farà il suo ingresso trionfale (21,10).
v. 4: Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo.
Erode si informa. Anche lui si mette in agitazione, in movimento ma non è lo stesso movimento dei Magi. C'è un informarsi che significa ricerca. Ma attenzione, la ricerca di Erode, nonostante è presso sacerdoti e scribi, cioè presso altri poteri; quindi, risulta negativa e non coglie la presenza della Luce.
Paradossalmente può accadere quello che dice il Vangelo: i vicini non colgono la presenza della luce. Erode abitava a otto chilometri di distanza da Betlemme, quindi vicino; poteva facilmente trovare il bambino. Non lo ha trovato. I Magi sono lontani dal punto di vista fisico, spirituale e morale; eppure, camminano; la luce è sufficiente per dare a loro un itinerario di salvezza.
In questo versetto possiamo osservare le due convocazioni: quella di Cristo (fede suscitata) che chiama a sé per dare la vita, per dare la luce, per dare amore. Quella di Erode che chiama a sé per orgoglio, quell'orgoglio cieco che non ha né sapore e né amore, ma soltanto morte.
A tutti viene data la possibilità di trasformare il proprio vagabondaggio in pellegrinaggio, il proprio camminare senza meta in un itinerario che ha come meta l’amore di Dio, il luogo dove l’amore di Dio si è manifestato.
Per questo il Natale è il mistero paradossale che dobbiamo accogliere e fare nostro.
v. 6: E tu, Betlemme, terra di Giuda.
Erode viene a conoscere il luogo dove è nato (o nascerà) il Messia per mezzo della profezia del profeta Michea: Betlemme (Mi 5,1). In realtà la citazione è una combinazione di Mi 5,1(2) e di 2 Sam 5,2. In questo versetto viene evidenziato la discendenza del Messia da Giuda, antenato di Davide (Mt 1,1-2).
non sei davvero l'ultima delle città principali di Giuda
La citazione vuole negare l'insignificanza di Betlemme. L'espressione della piccolezza indicata dal profeta Michea, allude ai pochi abitanti di Betlemme. Viceversa, l'Evangelista pensa alla grandezza morale del borgo, che ha la gloria di dare i natali a colui che sarà la guida vigile e sicura di Israele, del nuovo popolo di Dio.
È interessante notare che Betlemme è piccola. Si sottolinea il carattere della piccolezza, perché il Signore non è nelle stelle, né nella ragione, né nella Scrittura, né a Gerusalemme: è sempre in luoghi impensati. In questo caso nella piccolezza.
da te, infatti, uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele.
La prima parte di questo versetto è una variante di una radice ebraica che vuol tradurre "capo" anche con "clan", quasi ad indicare la nascita di un nuovo popolo. La citazione finale è presa da 2Sam 5,2: "Tu pascerai il mio popolo Israele, tu sarai capo d'Israele".
v. 7: Allora Erode, chiamati segretamente i Magi...   
Continua il turbamento di Erode. Chi è agitato si muove di nascosto, senza dare nell'occhio. Ha paura di mettersi in gioco, di accettare la realtà.
si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella
In questa parte di versetto si vede chiaramente che Erode è interessato più al Chronos che al Kairos.
Anche lui, come israelita, era a conoscenza delle antiche profezie riguardo al Cristo, l'Unto di Dio. Il suo è un sapere che non ama, un sapere che è al servizio solo di ciò che a lui interessa: il potere. Anche lui, come i suoi connazionali, lo immaginava, tuttavia, come un capo politico, rivestito di forza e potere, un pericoloso concorrente, dunque, che occorreva eliminare prima che fosse troppo tardi.
v. 8: Andate e informatevi accuratamente sul bambino
L'indagine meticolosa del sovrano, travestita di devozione, cela, in realtà, gli interessi meschini dell'uomo preoccupato di salvaguardare il suo potere. Il re dei giudei, infatti, era lui; egli riteneva di essere il punto di riferimento e di unità del suo popolo. Ora questa "stella", apparsa improvvisamente nel cielo, viene a sconvolgere le sue prospettive, viene a competere con la sua autorità, la sua ricchezza, il suo prestigio.
v. 9: essi partirono. Ed ecco, la stella...
Ricompare la stella (notiamo che questa riappare, dopo che "si allontanano" da Erode e da Gerusalemme), che si muove insieme ai magi e li conduce fino al luogo preciso della presenza del Signore Gesù.
Quando Dio entra nella vita degli uomini lo fa sempre utilizzando un "linguaggio" che il destinatario può comprendere, rivelando così la sua condiscendenza: non dobbiamo, dunque, cercare i segni della presenza del Signore al di fuori della nostra storia, ma leggere il nostro quotidiano alla luce della Parola di Dio per scoprire le "stelle" e le "mangiatoie" in cui il Signore si fa trovare.
v. 10: Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima...
Viene sottolineata questa gioia immensa. La presenza del Signore ci riempie il cuore fino a farlo trasalire di gioia. La sua vista li riempie di una gioia profonda, quella che solo Dio può dare all'uomo, ai popoli; quella che ci rende capaci di uscire da noi stessi, superando ostacoli e contraddizioni, per comunicare ad altri ciò che è avvenuto nel nostro incontro con la Luce.
Gli annunzi profetici del Salvatore sono carichi di parole gioiose e di trasalimenti di felicità. "Il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse. Hai moltiplicato la gioia, hai aumentato la letizia. Gioiscono davanti a te come si gioisce quando si miete e come si gioisce quando si spartisce la preda... Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine" (Is 9,1-6; cfr. Mt 4,14-15 ).
v. 11: entrati nella casa
Siamo passati dalla grotta, dalla capanna alla casa. Non ci meravigliamo se troviamo tradotto con casa e non grotta. Le abitazioni di campagna avevano delle stanze ricavate dalla roccia tanto da formare delle grotte. Esse servivano come deposito oppure alloggio degli animali.
Attenzione anche al verbo "entrare". Per adorare il bambino, bisogna entrare dentro la casa, dentro il suo mistero. Occorre entrare nel cuore di Dio: questa è la vera casa in cui entrare.
videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono
Il versetto usa ancora un'altro verbo. Entrare e vedere sono i verbi di chi si mette in ascolto di Dio per poi portarlo a tutti.
I Magi esprimono un gesto davanti a Colui che ritengono superiore: prostrati, caduti per baciare i piedi o la terra vicina ai piedi. È la loro sottomissione, l'omaggio speciale dovuto al re. Così i Magi fanno appunto quello che erano venuti a fare (cfr. 2,2) e quello che Erode fingeva di voler fare (2,8).
I magi in altre parole aderiscono al progetto di Dio che salva le persone a partire dal piccolo e dal povero e non dai potenti e violenti come Erode.
aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra
I magi offrono doni significativi, i doni più apprezzati in Oriente che ci permettono di cogliere il mistero in tutta la sua profondità: l'oro di Ofir, l'incenso dell'Arabia e la mirra dell'Etiopia.
Di per sé quelle offerte sono il simbolo del riconoscimento di Gesù come messia, a cui si presenta un tributo di venerazione, come suggerisce la Bibbia: Sal 72, 10-11 (offerto dalla liturgia), come pure Gen 49,10; Num 24,17; Mi 5,1-3; Is 49,23; 60,1-6.
Per sant'Ireneo di Lione (II sec.), queste ricchezze, tributate a Gesù, simboleggiano la regalità (oro), la divinità (incenso) e la passione di Gesù (mirra). In altre parole, i magi - simbolo di quanti accettano il potere di Dio manifestato nel bimbo Gesù - in primo luogo si donano al servizio del Salvatore (= si prostrano) e poi, mettono a disposizione di Gesù il meglio di ciò che hanno, i loro doni.
Questo atto di omaggio richiama il cristiano all'esistenza quotidiana da vivere con le buone opere, con l'orazione e col sacrificio.
v. 12: per un’altra strada fecero ritorno al loro paese
C'è sempre una stella che guida ciascuno su una strada nuova da percorrere e non per la semplice paura di un Erode. Dio si rivela perché l'incontro con Lui li ha reso uomini nuovi, capaci di avere in sé un nuovo cielo e una nuova terra. Uomini capaci di non alzare gli occhi verso una stella, ma di puntare lo sguardo oltre l'orizzonte. Questi uomini sono liberi dagli inganni dell'Erode del mondo e perciò ritornano alla vita per una via tutta nuova, che il discernimento aveva loro indicato (cfr. 1Re 13,9-10).
Una volta incontrato Cristo, non si può più tornare indietro per la stessa strada. Cambiando la vita, cambia la via. L'incontro con Cristo deve determinare una svolta, un cambiamento di abitudini. Con san Giovanni possono ripetere: "Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita - la vita infatti si manifestò, noi l'abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi" (1Gv 1,1-2).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Come vivo il mio pellegrinaggio verso Cristo?
Mi lascio disturbare da Dio oppure lo tengo distante da me?
Ne so abbastanza del Messia e di “dove dovrà nascere”?
Quale difficoltà incontro nella conoscenza profonda di Cristo Gesù? Come le supero?
Nella mia ricerca della verità so affidarmi, mettermi in cammino e in ascolto di Dio?
Posso dire che la “gloria di Dio” trasfigura la mia esperienza concreta, il mio modo concreto, di pensare e di vivere?
Come i magi torno nella mia quotidianità per testimoniare Cristo Gesù?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
O Dio, affida al re il tuo diritto,
al figlio di re la tua giustizia;
egli giudichi il tuo popolo secondo giustizia
e i tuoi poveri secondo il diritto.
 
Nei suoi giorni fiorisca il giusto
e abbondi la pace,
finché non si spenga la luna.
E dòmini da mare a mare,
dal fiume sino ai confini della terra.
 
I re di Tarsis e delle isole portino tributi,
i re di Saba e di Seba offrano doni.
Tutti i re si prostrino a lui,
lo servano tutte le genti.
 
Perché egli libererà il misero che invoca
e il povero che non trova aiuto.
Abbia pietà del debole e del misero
e salvi la vita dei miseri. (Sal 72)
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Sono chiamato a indicare a tutti la strada per incontrare Cristo Gesù e lo posso fare solo lo ricerco, se mi metto in cammino. Sarò la nuova stella capace di diffondere una luce che attrae quei cuori desiderosi di Dio e del suo sogno d’amore.
 
 

mercoledì 1 gennaio 2025

LECTIO: II DOMENICA DOPO NATALE (Anno C)

Lectio divina su Gv 1,1-18
 

Invocare
Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2Egli era, in principio, presso Dio: 3tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
4In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
14E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
15Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». 16Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
La liturgia della Parola di questa domenica ci invita a inserire il mistero del Natale appena celebrato nell'ampio quadro della storia della salvezza. Torniamo quindi a meditare sullo stesso Vangelo che abbiamo ascoltato e meditato nel giorno di Natale. C'è un'esigenza diffusa di rinascita; tutti ne sentiamo il bisogno. Non è possibile che le cose continuino come sono. Eppure, continuiamo a dire che è impossibile cambiare le cose e ancor più difficile trasformare il cuore degli uomini.
Il prologo di Giovanni è costituito dai primi 18 versetti del Vangelo. All'interno di questo testo di carattere poetico, ci sono alcune sezioni (vv. 6-8 e il v. 15), quelle che parlano di Giovanni Battista, che hanno un andamento più prosaico e che, se lette in greco, sembrano meno ritmiche delle altre. Questi versetti sono il riferimento ad un uomo all'interno di un inno molto solenne che vuol parlare di un Essere infinitamente più importante di un uomo, il Lógos, di cui si afferma che addirittura è uguale a Dio. E questo crea una certa sproporzione. Ciò ha fatto sorgere l'ipotesi che i passi riguardanti il Battista siano delle aggiunte, probabilmente dallo stesso Evangelista, fatte in epoche successive alla prima stesura.
Il prologo di Giovanni, che la Liturgia ci propone come Vangelo del giorno di Natale, deve condurci a celebrare questa festa in modo più pieno e profondo, superando quella riduzione folcloristica e sentimentale, alla quale si indulge facilmente, ma che non lascia una grande traccia nella fede e nella vita dei fedeli, anche nella nostra.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 1-2: In principio era il Verbo
La costruzione grammaticale greca utilizzata per esprimere “In principio” è “en archè”; per correttezza sintattica dovrebbe esserci l'articolo: “en te archè”, cioè “Nel principio”. Molti esegeti hanno osservato che l'articolo non è stato messo di proposito perché tale espressione vuole alludere alla stessa parola che si adopera all'inizio della Genesi per dire “In principio”. Nella Genesi “In principio” è scritto “barescít”, ebraico, che in questo caso ha la stessa costruzione del greco.
La conclusione è che chi ha cominciato il quarto Vangelo ha voluto iniziare ripetendo in greco la stessa parola che c'è in ebraico nella Genesi. La Genesi inizia con: “In principio Dio creò il cielo e la terra...” (Gen 1,1) il Vangelo di Giovanni inizia con: “In principio era il Lógos”.
Si vuole allora creare un'identità temporale fra le due situazioni e dire: “In principio, quando Dio creava il mondo, il Lógos era”.
Il termine lógos letteralmente vuol dire “parola” ma nel mondo greco voleva dire anche “pensiero”; nel linguaggio degli stoici era usato per indicare il “pensiero divino” che è impresso nel mondo e lo governa, che si riflette poi anche nel pensiero degli uomini dando loro la possibilità di conoscere l'ordine del mondo.
Il termine lógos è anche inteso nel mondo greco come “legge che regola l'universo”, “principio generale” dell'unità del cosmo, “anima che rende vivo il tutto”. Grazie al Lógos l'universo è come un grande organismo e nell'uomo si manifesta come “ragione”.
Già nell’Antico Testamento è presente l’immagine della Parola (Verbo) di Dio e della Sapienza che è in Lui, per mezzo della quale ogni cosa è stata creata; essa esiste da sempre ed è stata inviata sulla terra per rivelare i misteri della volontà divina e ritornerà a Dio dopo aver compiuto la sua missione. Anche Giovanni, nel suo stupendo Vangelo, riprende gli stessi concetti (forse in modo più poetico) rilevando, però, che la Sapienza (la Parola di Dio) è il Verbo fatto carne, il Cristo, la rivelazione dell’Emmanuele, il Dio con noi, il Figlio “diverso” anche se “uguale” al Padre.
il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Il Verbo “era”, anzi “era Dio”: la rivelazione anticotestamentaria non ha trovato nella razionalità umana una categoria migliore per esprimere la realtà di Dio di quella dell'essere. A Mosè Dio si dette a conoscere dicendo “Io sono” (Es 3,14). Gesù applicherà a sé stesso questa definizione (cfr. Gv 8,58; 13,1) dichiarandosi uguale a Dio (5,18).
Il “presso Dio” in greco è scritto con pròs (pros) e l'accusativo, che indica movimento, che non indica una situazione statica, “fermo presso Dio”. Non è stato usato parà, che indica uno “stare accanto”, ma pròs che esprime una vicinanza più intima (che però non è fusione), rivolto verso Dio, in relazione a Dio. Nei Proverbi, quando si parla della Sapienza, di lei si dice: «All'inizio il Signore mi ha generata, primizia della sua attività, origine delle sue opere, ... Io ero accanto a lui come bambino ed ero la sua gioia quotidiana, alla sua presenza, mi divertivo di continuo». (Prv 8,22). Vi è quindi identità fra Lógos e Sapienza.
v. 3: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste.
In greco la parola “tutto” sta a significare “tutte le singole cose”, “ogni cosa”. L'espressione “è stato fatto” in greco è riportata con eghèneto che significa letteralmente “nascere”, “divenire”, ed è lo stesso verbo usato in Genesi 1,1 per descrivere la creazione nei vari giorni.
Quel bambino, apparso a Betlemme, si è fatto figlio nostro, ma era prima di noi. Lui è da sempre. Ha preso una “carne”, un corpo, una storia come la nostra: è diventato come noi, ma in realtà noi siamo come lui.
Lui era prima di noi. Detto in parole povere, quando Dio ha creato l’uomo e la donna li ha creati secondo un prototipo, un modello: suo Figlio. Dio ci ha fatti così perché così sarebbe dovuto apparire in mezzo a noi il suo Verbo, la sua Sapienza. È straordinaria questa verità! Quando ci sentiamo fatti male, quando pensiamo che il creato sia fatto male, “non lasciamoci cadere le braccia” e reagiamo con forza: se tutto è stato fatto per mezzo di lui, niente può essere stato fatto male. Ciò che va male dipende dalla nostra incapacità o non volontà di essere fedeli al progetto di Dio.
L'espressione “per mezzo” non ci fa capire in che modo “tutto è stato fatto”. Il “per mezzo” può essere tradotto “attraverso”: in questo caso il Lógos è ridotto a puro strumento esecutivo materiale. Ma può essere tradotto anche in modo che il Lógos venga visto come intelligenza animata. Quindi il “per mezzo” è una metafora molto ampia che concretamente non spiega nulla.
Poi vi è di nuovo una ripetizione, che in ebraico è detta parallelismo sintetico: “...e senza di lui niente è stato fatto”. Si ribadisce la stessa cosa aggiungendo un piccolo particolare. Il “senza” dovrebbe essere interpretato come: “indipendentemente da Lui”. Cioè, tutto quello che esiste passa attraverso un'opera del Lógos, che non è precisata quale sia, ed è in contatto con il Lógos. Si può dire, allora, che tutto ciò che esiste – dall’angelo al piccolo vermiciattolo, direbbe sant’Agostino – tutto porta in sé la traccia della Parola di Dio. È perché esiste questa traccia profonda di senso che il mondo può essere studiato, capito, espresso nelle parole della conoscenza – con le parole della scienza, ad esempio, ma anche con tutte le parole che esprimono e dirigono con intelligenza l’esistenza quotidiana delle persone.
vv. 4-5: In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta.
In questi versetti l'evangelista non fa altro che mettere in risalto le due parole “vita” e “luce”. Sono due nozioni teologiche fondamentali in Giovanni. La parola greca usata qui per dire “vita”, vuol mettere in risalto la natura e la qualità del nome usato ed è corrispondente a “vita eterna”. Questa vita in senso assoluto, che nel vangelo viene identificato con Gesù, era “la luce degli uomini”. Il termine “luce” anzitutto esprime la rivelazione personale e storica di Dio che salva. Sta ad indicare la capacità per gli uomini di poter conoscere e di capire, è cioè un aiuto intellettuale. Vita e luce indicano insieme la pienezza dell'esistenza umana e la rivelazione-dono del suo senso più profondo. La vita diviene luce che ne illumina il senso: la luce a sua volta è potenza di vita, quando viene accolta nella fede.
Nel v. 5 viene sottolineato la sorte della luce in mezzo alle tenebre. “... e le tenebre non l’hanno vinta”. La vita eterna è la luce degli uomini e questa luce splende là dove invece c'è l'oscurità dell'ignoranza. L'ignoranza degli uomini non ha soffocato questa luce, “le tenebre non l'hanno sopraffatta”. Giovanni dice che la presenza universale della Parola di Dio è vita e luce per ogni essere umano. Ma la maggioranza delle persone non percepiscono la Buona Novella della presenza luminosa della Parola di Dio nella loro vita. La Parola viva di Dio, presente in tutte le cose, brilla nelle tenebre, ma le tenebre non la compresero.
vv. 6-8: Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce.
In questi versetti viene introdotta la persona del Battista e dice: “ci fu” (letteralmente). Questo non è l’én usato per la creazione nei vv. 3-4: Giovanni Battista è una creatura. Questa nota sul Battista ci fa scendere dal mondo soprannaturale e divino all’universo umano (“ci fu un uomo”).
Presentare la figura storica di Giovanni subito prima dell’attività pubblica di Gesù è usuale nella predicazione primitiva. Qui si parla di Lui come uno che ha ricevuto una missione profetica. L’evangelista fa di questo personaggio il primo grande “testimone” di Gesù-luce.
La differenza di tonalità colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su Giovanni (come pure il versetto 15) sia stato introdotto più tardi per dissuadere i discepoli di Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo stesso piano di Gesù. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1, 19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).
L’evangelista stima così tanto il Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il Verbo e l’umanità. Nell’antichità la testimonianza era un gesto con il quale ci si poneva come difensori e garanti di una causa, totalmente disponibile a subire le conseguenze di una presa di posizione.
Giovanni Battista deve testimoniare che colui che Israele attendeva era presente. Giovanni sa che Costui gli è superiore in dignità (1, 27).
Giovanni diventa «figura» di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto la missione di testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua figura e il suo messaggio assumono una portata universale.
vv. 9-10: Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo
Un versetto di non facile interpretazione. Infatti, secondo la costruzione greca, si potrebbe tradurre sia “la Luce vera, quella che illumina ogni uomo, stava venendo nel mondo”, sia “la Luce vera che illumina ogni uomo che viene nel mondo”. Allora l'atto di venire nel mondo potrebbe essere attribuito sia alla “Luce” che ad “ogni uomo”. Per capire guardiamo alla nostra vita. Guardiamo a noi immersi in un mondo di luci false, che ti fanno vedere la realtà con un riverbero spesso distorto e falso. Veniva nel mondo la luce che illumina, quella che porta speranza, che riscalda. Veniva nel mondo questa luce impercettibile, inafferrabile, che illumina il cammino, che ti permettere di incontrare in modo autentico il volto di chi ti vive accanto, senza provare vergogna per quello che sei. Veniva nel mondo la luce su un mistero impossibile: la perfezione di Dio e la debolezza umana, la sua immensità e la nostra infinita piccolezza uniti in una persona.
Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure, il mondo non lo ha riconosciuto.
Il Verbo era nel mondo: una presenza che è conseguente a quanto detto nel v. 9 (il mondo fu creato mediante il Verbo).
«Mondo» «kosmos»: è un termine molto importante; per tre volte viene ripetuto nei versetti 10-11, ma con sfumature diverse. Inizialmente Giovanni parla del mondo nel senso di «universo» creato da Dio, come era nel pensiero dei greci. Nella citazione successiva il termine allude non solo all’universo fisico, ma include il «mondo umano». In questi due riferimenti il mondo è usato in un senso decisamente positivo. Nel terzo riferimento si parla del mondo umano con un contenuto negativo, in quanto si allude al mondo sottomesso al potere delle tenebre e ostile alla missione e all’opera salvifica di Cristo.
La risposta negativa, paradossalmente negativa, si ripete lungo il Vangelo. «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvage. Chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio» (Gv 3,19-21). La scena più emblematica si ha quando Gesù guarisce un cieco nato, il quale trova anche la luce della fede, mentre i farisei che credono di vedere restano ciechi (cfr. Gv 9). Gesù conclude: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi» (9,39). È il peccato più grave; con esso ci chiudiamo alla possibilità di esser illuminati e salvati. Non si tratta di un dualismo cosmologico o metafisico; si tratta di una situazione esistenziale escatologica, ossia decisiva e radicale. Chi resta nelle tenebre, si perde per sempre (cfr. Gv 12,35).
L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli uomini non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le tenebre non hanno arrestato la luce: all’Evangelista interessa sottolineare il paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: Venne tra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto.
Il pensiero di Giovanni scende verso maggiori particolari: dal cosmo al mondo degli uomini, al mondo ebraico. Qualche commentatore però non accetta che il versetto 11 si riferisca agli ebrei, ma a tutti gli uomini. Sembra però un tentativo di escludere un'asperità contro gli Ebrei di cui però il Vangelo di Giovanni è pieno. Anzi Giovanni identifica la categoria degli Ebrei come simbolo per "non credenti"; quando dice "i Giudei", vuol dire gli "increduli". Se però nel versetto 11 si vede il parallelismo sintetico, il versetto 10 e l'11 dicono la stessa cosa, sebbene in maniera differente: quindi la "sua gente" sono il "mondo". Tra l'altro il testo ebraico non dice "gente", ma dice "venne fra le sue cose", che vuol dire "venne in casa propria", nella sua proprietà.
L'Evangelista ci parla di accoglienza e riconoscimento, ed ognuno di noi sa quanto
esser riconosciuti e sentirsi accolti, sia importante nella vita di ogni uomo, di più, quanto riconoscimento e accoglienza siano fondamentali, perché l'esistenza fiorisca e scorra serenamente in tutta la sua ricchezza.
vv. 12-13: A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio
Solo questa espressione fa pensare che non tutti non lo hanno accolto ma a chi l'ha accolto ha dato il potere di diventare “figlio di Dio”, e spiega cosa vuol dire “figlio di Dio”.
Accogliere è un termine che esprime la fede in senso passivo: è accogliere una persona in casa con tutto ciò che significa: accettare, cioè, la persona e il messaggio che porta. Abbiamo davanti un verbo che tende a personalizzare la fede.
Ora a coloro che lo accolgono, il Logos-Luce dà il potere di “diventare figli di Dio” (distinti dal Figlio di Dio).
Dinanzi alla luce sfolgorante dell’Amore di Gesù, gli uomini si dividono in “figli della luce” e “figli delle tenebre”, secondo che vivono nella luce di Cristo, oppure nelle tenebre di satana. Si riconoscono dalle loro opere buone o malvagie. La presenza della luce provoca la scelta e quindi la separazione. È Gesù stesso che avverte: «Mentre avete la luce credete nella luce, per diventare figli della luce» (Gv 12,36). «Se un tempo eravate tenebre, ora siete luce del Signore, comportatevi perciò come figli della luce; il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che è gradito al Signore e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre. Ma piuttosto condannatele apertamente… Per questo sta scritto: “Svegliati, o tu che dormi, destati dai morti e Cristo ti illuminerà”» (Ef 5,8-14). Queste ultime parole provengono da un inno battesimale: il battesimo è inteso come illuminazione, come essere svegliati a vita nuova. Una vita che, nella luce del Signore, eliminerà le opere infruttuose delle tenebre e produrrà i frutti della bontà, giustizia, verità.
La Parola entra nella persona e fa che questa si senta accolta da Dio come figlia, come figlio. È il potere della grazia di Dio.
i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
L’uomo non diviene figlio di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole del Battista: «Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Gv 8,37-39). E non avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in forza del desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso la propria discendenza.
Possiamo pensare che c’è coincidenza tra l’azione dell’uomo che «accoglie» il Verbo e quella di Dio che «genera». Queste due azioni formano una cosa sola, nella diversità dei rispettivi ruoli. È importante tenere presente il passo precedente dove si diceva che il Verbo illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa illuminazione, nella misura in cui viene accolta, produce la filiazione divina. Ora, la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso le espressioni seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Con la triplice contrapposizione si vuole esaltare la grandiosità del fatto di nascere da Dio.
v. 14: e il verbo si fece carne
Questo è il centro focale del Prologo. Con il termine carne viene definito l'uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale ecco perché diciamo “si fece” e non “divenne”. Il Verbo-Sapienza-Figlio eterno di Dio, Dio egli stesso, si fece “carne”, ossia umanità fragile e limitata, contingente, storicamente e culturalmente condizionata. Non si tratta unicamente di “natura” umana, ipostaticamente unita alla divinità: si tratta anche di giudaicità, di appartenenza a un ambiente e a un’epoca, di corporeità e mortalità, di affettività e socialità. La Lettera agli Ebrei lo dice con estrema chiarezza: «eccetto il peccato, si è fatto in tutto simile ai fratelli» (Eb 2,17; 4,15).
e venne ad abitare in mezzo a noi.
Il verbo usato per "abitare" è "si attendò". Questa scelta probabilmente non vuole riferirsi alla precarietà della condizione umana, ma al fatto che nel Lógos incarnato si verifica quello che era avvenuto nella Tenda dell'Incontro (Es 27,21; 28,43) nell'accampamento degli Ebrei, nella quale si manifestava la Gloria del Signore. Ora la tenda dove Dio dimora con noi è Gesù "pieno di grazia e di verità!". Gesù venne a rivelare chi è questo Dio che è presente in tutto, fin dall'inizio della creazione.
Gli Atti degli Apostoli lo descrivono così: «è entrato e uscito in mezzo a noi» (1,21), «passò beneficando» (10,38). Si tratta del Gesù della storia, quello che raggiungiamo attraverso i Vangeli e la cui traccia non è scomparsa.
L’incarnazione del Verbo non va limitata al momento della sua nascita «secondo la carne» (Rm 1,3; cfr. Gal 4,4): abbraccia la totalità della sua esistenza terrena e, in un certo senso, si estende nel tempo e nello spazio, se è vero che Cristo Risorto è «il vivente» (Lc 24,5), non solo, è ma presente oggi nel mondo perché la Chiesa è il suo corpo e noi siamo le sue membra (cfr. 1Cor 12,12ss).
e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Anche qui si coglie un’eco dell’AT: la «gloria, doxa» (eb. kabôd) di Dio risplende negli eventi salvifici (cfr. Es 16,7 ecc.) ed è come una luce che manifesta la sua presenza (cfr. Es 24,16), prima nel santuario del deserto (cfr. Es 40,34s), poi nel tempio di Gerusalemme (cfr. 1Re 8,10s). Per il quarto evangelista la gloria del Verbo incarnato si manifesta in particolare nei “segni” (cfr. 2,11), che a loro volta simboleggiano la sua attività salvifica come risorto (cfr. 1,50s; 13,31s). A nome degli altri discepoli, Giovanni qui afferma: «abbiamo contemplato la sua gloria»; nella Prima lettera dice in modo equivalente: «abbiamo contemplato e le nostre mani hanno toccato il Verbo della vita» (1Gv 1,1).
La gloria di Cristo è quella “del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità”.
L’espressione «grazia e verità, kháris kaì alétheia» viene da Es 34,6. Si tratta dell’amore misericordioso (eb. hesed) e della fedeltà (emet) di Dio nei riguardi di Israele. Il Verbo incarnato è la manifestazione più alta, piena e definitiva dell’amore del Padre. Lo dirà più avanti l’evangelista: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16s).
Il tema è ripreso nella Prima lettera di Giovanni. Dopo aver affermato che «Dio è amore», l’apostolo spiega:«In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,9s). Anche san Paolo riconduce la missione salvifica di Cristo all’amore del Padre per gli uomini (cfr. Rm 58; 8,32).
v. 15: Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me».
Questo versetto riprende la testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza viene proclamata.
Inoltre, si ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità". La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.
vv. 16-17: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dopo la seconda digressione, viene ripreso il tema della kháris: «Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia», una “corrente ininterrotta di grazia” che dalla pienezza del Verbo incarnato scorre verso di «noi» (i credenti). L’evangelista istituisce un confronto tra Antico e Nuovo Testamento: «la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo».
Allo stesso modo san Paolo contrappone la grazia alla Legge alla «novità dello Spirito» (cfr. Rm 7,6). Ciò che il prologo afferma in modo sintetico, Gesù lo spiega più apertamente nel corso del Vangelo; per es. nell’ultimo giorno della festa delle Capanne, quando grida: «Se qualcuno ha sete, venga a me, e beva chi crede in me. Come dice la Scrittura: “Dal suo grembo sgorgheranno fiumi di acqua viva”». L’evangelista commenta: «Questo egli disse dello Spirito che avrebbero ricevuto i credenti in lui: infatti non vi era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato» (7,38-39). L’acqua e il sangue che escono dal costato di Gesù crocifisso (19,34) simboleggiano appunto il fiume di grazia che scaturisce da lui.
v. 18: Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
Durante l’ultima cena uno dei discepoli chiederà a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta». Gesù gli risponde: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me, ha visto il Padre. Come puoi tu dire: “Mostraci il Padre”? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso, ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere. Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me. Se non altro, credetelo per le opere stesse» (14,7-11).
Il miglior commento è quello della costituzione dogmatica Dei Verbum: «Dopo aver Iddio, a più riprese e in più modi, parlato per mezzo dei profeti, “alla fine, nei giorni nostri, ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Eb 1,1-2). Mandò, infatti, il suo Figlio, il Verbo eterno, che illumina tutti gli uomini, affinché dimorasse tra gli uomini e ad essi spiegasse i segreti di Dio (cfr. Gv 1,1-18), Gesù Cristo, dunque, Verbo fatto carne, mandato come “uomo agli uomini” (Diogneto, 7,4), “parla le parole di Dio” (Gv 3,34) e porta a compimento l’opera di salvezza affidatagli dal Padre (cf Gv 5,36; 17,4). Perciò egli, vedendo il quale si vede anche il Padre (cfr. Gv 14,9), col fatto stesso della sua presenza e con la manifestazione di sé, con i miracoli, e specialmente con la sua morte e la sua risurrezione di tra i morti, e infine con l’invio dello Spirito santo, compie e completa la rivelazione e la corrobora con la testimonianza divina, che cioè Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna» (DV 4).
Concludiamo dicendo che questo versetto evoca la profezia di Isaia secondo cui la Parola di Dio è come la pioggia che viene dal cielo e non ritorna ad esso senza aver svolto la sua missione qui sulla terra (Is 55,10-11). Così è il cammino della Parola di Dio. Viene da Dio e discende tra di noi nella persona di Gesù. Mediante l'obbedienza di Gesù, realizza la sua missione qui sulla terra. Nell'ora della sua morte, Gesù consegna lo spirito e ritorna al Padre (Gv 19,30). Comprese la missione che aveva ricevuto.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Tengo sempre presente ciò che il Signore mi fa conoscere attraverso il Vangelo e la Sacra Scrittura?
Riconosco in Gesù la piena manifestazione dell’amore del Padre? Lo ringrazio per questo?
Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi. Lui vive tra le nostre case. Anche nel mio cuore?
Mi lascio illuminare dall’azione dello Spirito Santo per vivere da Figlio di Dio oppure rimango chiuso nel nascondiglio del mio io?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
 
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
 
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi. (Sal 147).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Se Dio è nato Bambino ciò vuol dire, per esempio, che assieme a Lui potrai rinvenire il senso reale della tua nascita ed esistenza nel mondo e riscoprire il senso della tua permanenza qui in questa dimensione terra, in altre parole la tua vocazione; se Dio ha vissuto in umiltà e ristrettezza, ciò vuol dire che ti dà occasione di assimilare il significato fondamentale delle cose di cui tu disponi e di come dovrai amministrarle; se Dio muore e risorge sulla croce, vuole convincerti che anche tu puoi resuscitare nel tuo quotidiano (p. Gianfranco Scarpitta).