martedì 14 ottobre 2025

LECTIO: XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 18,1-8

 
Invocare
O Dio, che per le mani alzate del tuo servo Mosè hai dato la vittoria al tuo popolo, guarda la tua Chiesa raccolta in preghiera: fa’ che il nuovo Israele cresca nel servizio del bene e vinca il male che minaccia il mondo, nell’attesa dell’ora in cui farai giustizia ai tuoi eletti che gridano giorno e notte verso di te.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. 3In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario". 4Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi"». 6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. 7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
In Luca si trova alla fine di un insieme di brani che trattano un tema comune: la venuta del Figlio dell’uomo, che vengono interrotti dalla domanda del fariseo sulla venuta del Regno di Dio (17,20). Qui Luca compone diverse dichiarazioni singole per una triplice risposta: essa è misteriosa, visibile solo alla fede; arriverà all’improvviso e inaspettata; verrà come risposta di Dio all’incessante chiamata del suo prescelto.
Nel capitolo 18 troviamo Luca che conclude il lungo insegnamento sulla fede, che aveva iniziato nel capitolo precedente con la richiesta dei discepoli a Gesù: “Accresci la nostra fede”.
Questa domenica abbiamo una parabola che, tra gli Evangelisti, troviamo solo in Luca. Il motivo sono i suoi destinatari che si trovano in Asia minore e che in quel momento stavano attraversando un momento molto difficile: la persecuzione. Questi vengono esortati perché, se non pregano, rischiano di cadere nella tentazione di fare del male non solo a se stessi ma anche a coloro che li perseguitano.
La parabola ha la funzione di invitare a mantenersi costanti e fedeli nella preghiera, senza cadere nella tentazione dello sconforto e della demotivazione.
Sullo sfondo abbiamo una persecuzione ai danni dei cristiani. Gli “eletti”, cioè quelli che Dio ha scelto per essere suoi, stanno soffrendo la persecuzione e gridano al Signore perché faccia loro giustizia
Quindi il fine di questo brano è la giustizia e il mezzo è la preghiera, una preghiera al servizio del Regno, che bussa al cuore di Dio insistentemente. Per questo i grandi santi ci hanno testimoniato che le grandi opere si sostengono con la preghiera, e il desiderio del regno di Dio viene alimentato con la preghiera.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Diceva loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai.
Quest’introduzione ha lo scopo di collegare la parabola con la «piccola apocalisse» precedente, suggerendo un comportamento adatto al tempo dell’attesa. Il tema centrale qui non è la preghiera come può far intendere il versetto, ma la richiesta di giustizia. La preghiera è introdotta come terapia per non incattivirsi (l’attuale traduzione riporta “senza stancarsi mai”). Infatti, se di fronte all’ingiustizia smetti di pregare, tu ti incattivisci e finisci per comportarti male. Questa necessità della preghiera senza incattivirsi ricorre spesso nel NT. Per esempio, al cap. 5 della Lettera ai Tessalonicesi è riportato: «non rendete mai a nessuno male per male» (5,15), «non cessate di pregare» (5,17). Anzi san Paolo nella Lettera ai Romani esorta: «Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (12,2). Giobbe ricorda che la vita dell’uomo sulla terra è una continua tentazione (Gb 7,1) per questo occorre vigilare e pregare (cf. 1Pt 5,8). La tribolazione non è un dato per continuare a sprofondare in se stessi, ma un tempo propizio per pregare, per intensificare il rapporto con Gesù. Questa necessità è legata al Figlio dell’uomo che bisogna che sia crocifisso. Finché Gesù rimarrà innalzato sulla Croce, sempre il sole dell’amore del Padre splenderà per l’intera umanità. Il Crocifisso è il vero sacramento della nostra rinascita, rigenerazione. È in Lui, con Lui e per Lui che si passa dalla morte alla vita. Chi guarda con fede Lui, il Crocifisso, passa dalla non umanità, dalla disumanità, alla vera sua umanità. In Lui si diviene veri uomini.
vv. 2-3: In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c'era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: "Fammi giustizia contro il mio avversario".
Luca mette sulla bocca di Gesù questa parabola per aiutare a perseverare nel momento della difficoltà e a chiedere con insistenza al Signore che faccia loro giustizia.
La parabola delinea le caratteristiche di due protagonisti: un giudice e una vedova. Il giudice, colui che conosce bene la legge e la applica in modo consono e adeguato alle varie situazioni e che per tutti deve essere una persona retta, onesta. Ebbene qui è descritto in modo breve e incisivo come la figura tipica dell’empio, che non teme Dio e non si cura del suo prossimo. È un oppressore nel campo della giustizia sociale.
La vedova viene descritta in modo conciso. Nella Bibbia le vedove, insieme agli orfani, rappresentano una categoria indifesa non era considerata, a nessun livello (politico, culturale, sociale, religioso) ed esposta all’oppressione, perché prive di protezione contro gli sfruttatori e i prepotenti (cf. Es 22,21-23; Is 1,17.23; 9,16; Ger 7,6; 22,3). Essa viveva solo grazie al marito, alla sua ombra, ed era vagamente lodata per i suoi figli maschi. Una vedova era considerata meno di zero, non esisteva, non aveva diritti, non aveva alcun valore la sua opinione, scarto della società, la sua vita era considerata inutile, se non anche dannosa.
La protagonista del racconto appartiene a questa categoria, ma non è disposta ad accettare il sopruso di cui è vittima; perciò, si rivolge al giudice per avere giustizia.
In questo atteggiamento insistente abbiamo un esercizio a vivere un’esistenza contrassegnata da quella che i Padri chiamavano «memoria di Dio», di ricordare, cioè, che Dio è costantemente all’opera nella nostra esistenza e nella storia: questo ci condurrà a familiarizzarci con lui fino a discernere come vivere in modo conforme alla sua volontà.
vv. 4-5: Per un po' di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: "Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi".
Il giudice non vuole fare il giudice, non vuole applicare la legge, non vuole interessarsi di un caso per lui totalmente insignificante e rimanda a tempo indeterminato il suo intervento. Ma la donna non si rassegna alla situazione e fa ricorso all’unica arma in suo possesso, l’insistenza.
Il giudice si presenta come una persona cinica alla quale interessa soltanto il proprio interesse e non i bisogni delle persone. Ma all’insistenza della donna cambia pensiero. L’evangelista usa il termine “importunarmi”. È curioso il termine che adopera l’evangelista, che letteralmente è “a farmi un occhio nero”. Fare un occhio nero non significa tanto il ricevere un pugno in un occhio, ma è un’espressione che significava “danneggiare la reputazione”. Alla fine, il giudice, se non altro per liberarsi di tale molestia, cede e fa giustizia alla donna: ciò che prevale in lui non è il senso del dovere, ma il desiderio di non essere più scocciato dalla vedova.
vv. 6-7: E il Signore soggiunse: Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo?
Qui Gesù propone la sua interpretazione della parabola. Egli richiama l’attenzione dei discepoli non tanto sull’insistenza della donna, a cui sembrava rimandare l’introduzione, ma piuttosto sul giudice.
Nelle sue parole Gesù esprime il pensiero fondamentale della parabola, facendo la differenza tra il giudice e Dio. Se un giudice disonesto per motivi egoistici acconsente alle richieste insistenti di una vedova, quanto più Dio, che è padre buono, ascolterà le grida di implorazione dei suoi eletti. È l’atteggiamento del giudice il punto sul quale Gesù fa leva per illustrare il comportamento di Dio. Egli esprime il suo punto di vista con una domanda: «Ma Dio non farà giustizia per i suoi eletti che gridano a lui giorno e notte?».
In base al metodo rabbinico chiamato qal wahomer (ragionamento a fortiori), egli afferma che, se un giudice, per di più empio, alla fine si decide a fare giustizia alla vedova, maggior ragione Dio farà giustizia per i suoi eletti, dal momento che è un Padre premuroso e giusto.
L’espressione «fare giustizia», usata sia per il giudice che per Dio, significa difendere i diritti di una persona, darle ragione, garantirle quello che le spetta. Per gli eletti, anche quando non sono oggetto di persecuzione, ciò significa proclamare pubblicamente, mediante l’attuazione piena del regno, che le loro scelte erano giuste e conformi alla volontà di Dio. Proprio la certezza che ciò avverrà rappresenta il punto saliente della parabola.
C’è ancora una domanda di Gesù: «E tarderà nei loro riguardi?». Egli dice che il tempo dell’attesa sarà breve: Dio farà presto giustizia agli eletti che gridano a lui. Questa idea però non è in sintonia con quanto l’evangelista intende dire nel suo vangelo, e cioè che la venuta finale del regno di Dio non è imminente. Perciò è più conveniente leggere queste parole non come una domanda, ma come una frase concessiva: «Anche se egli ha pazienza con loro».  
La prospettiva del racconto è escatologica: la situazione della vedova rappresenta quella degli eletti della comunità che sono in preda alle tribolazioni degli ultimi tempi, descritte da Luca nel brano precedente. Il termine “eletto” nei Vangeli sinottici viene utilizzato solo per indicare i credenti nel momento della tribolazione e della prova legata ai discorsi apocalittici. L’eletto è colui che sottoposto alla prova è capace di resistere per amore di Cristo. Luca con questa parabola esorta quanti lamentano il “tardare di Dio” a perseverare e a continuare con fiducia a chiedere aiuto a Dio, nonostante possano sperimentare il suo silenzio.
v. 8: Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?
Gesù conclude rassicurando i suoi discepoli: «Dio farà giustizia prontamente», cioè, «improvvisamente». In altre parole, il ritardo della parusia è una realtà con cui bisogna fare i conti, nella certezza che Dio, dopo aver lungamente pazientato, interverrà quando meno gli uomini se lo aspettano e farà giustizia ai suoi eletti.
Luca non fa altro che dire che l’intervento di Dio non è solamente sicuro, ma accadrà prontamente. Certo la sua prontezza non è legata alla “bacchetta magica” che andiamo cercando. La parte finale del v. 8 che chiude con una domanda è una aggiunta posteriore, risponde a tutti noi con lo scopo di farci riflettere sulla perseveranza nella fede. Il ritardo della parusia, l’ostilità e le persecuzioni crescenti avevano provocato un raffreddamento nella fede dei credenti. La comunità deve quindi ritornare a un genuino atteggiamento di vigilanza, perché Gesù al suo ritorno non la trovi impreparata. È necessario avere molta fede per continuare a resistere e ad agire, malgrado il fatto di non vedere il risultato. Chi aspetta risultati immediati, si lascerà prendere dallo sgomento.
La preghiera è ciò che mantiene viva la fede del credente nel tempo che lo separa dal ritorno del Figlio dell’uomo ma deve essere costante, insistente, che non si lascia fiaccare da una situazione che potrebbe abbatterci. Fede e preghiera ottengono un orientamento escatologico. Per fede qui si intende l’esistenza del cristiano vissuta nella vigilanza e nella fedeltà, fedeltà al Vangelo che viene mantenuta nel momento della prova e in particolare, quando proviamo il silenzio di Dio. Gesù chiede la costante fiducia in Dio. Bisogna pregare senza stancarsi e la fede è questa preghiera instancabile, è la ricerca, il desiderio continuo di Lui.
Non è strano che Gesù termina la parabola domandandosi se quando tornerà incontrerà tra i suoi la fede. Nel Cantico dei Cantici l'amato rivolgendosi all'amata dice: «Alzati amica mia, mia bella, e vieni presto!» (Ct 2,13). L'amore desidera essere desiderato. Dio desidera trovarci! Se perdiamo la fiducia in Dio solo perché non da risposta senza farci attendere, abbiamo perso la fede in lui e la sicurezza di contare un giorno sulle sue attenzioni.
Riponiamo la nostra fede in lui. Crescere nella relazione con Lui è una fede piena d’amore e che fa sì che possiamo amare come siamo amati. Allora la nostra preghiera sarà legata all’amore, condividendone i tempi, le attese, le trasformazioni, perché pregare è amare, è desiderio profondo, è tendere con tutto il proprio essere verso un incontro sperato aspirando a una comunione con Dio che non conoscerà mai fine.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Avverto Dio come un Padre che si prede cura anche di me?
Nei momenti di difficoltà con quanta convinzione e pazienza lo invoco?
Pregare sempre: come attuo questo comandamento nella mia vita? Come vivo la mia preghiera?
Quali fatiche provo e quali attenzioni “metto in campo” per superarle?
Quando il Figlio di Dio verrà, mi troverà addormentato, avvilito, riunito in seduta permanente, oppure sveglio, attivo e vigilante?
Riesco a pensare alla mia vita cristiana come relazione con Gesù e che mi porterà all’incontro finale con Lui?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?
Il mio aiuto viene dal Signore:
egli ha fatto cielo e terra.
 
Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.
Non si addormenterà, non prenderà sonno
il custode d’Israele.
 
Il Signore è il tuo custode,
il Signore è la tua ombra
e sta alla tua destra.
Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.
 
Il Signore ti custodirà da ogni male:
egli custodirà la tua vita.
Il Signore ti custodirà quando esci e quando entri,
da ora e per sempre. (Sal 120).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Accogliamo dentro il nostro cuore il sano rimprovero di Gesù, il suo sano realismo, la sua sconcertante provocazione. Conserviamo la fede nelle avversità, non demordiamo, non molliamo, ma continuiamo con costanza la disarmata e disarmante battaglia del Regno. Amen.
 
 
 

martedì 7 ottobre 2025

LECTIO: XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

 Lectio divina su Lc 17,11-19


 
Invocare
O Dio, che nel tuo Figlio liberi l'uomo dal male che lo opprime e gli mostri la via della salvezza, donaci la salute del corpo e il vigore dello spirito, affinché, rinnovati dall'incontro con la tua parola, possiamo renderti gloria con la nostra vita. Per Cristo nostro Signore. Amen.

In ascolto della Parola (Leggere)
11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
Gesù sta compiendo la terza tappa del cammino verso Gerusalemme; la meta ormai è vicina e il maestro chiama con maggior intensità i suoi discepoli a seguirlo, fino ad entrare con Lui nella città santa, nel mistero della salvezza, nel mistero dell'amore.
Il passaggio si compie solo attraverso la fede, alimentata da una preghiera intensa, incessante, insistente, fiduciosa; lo vediamo ripercorrendo i capitoli che precedono e seguono questo racconto (Lc 17,6-19; 18,7-8; 18,42).
Il nostro brano si trova subito dopo il brano di domenica scorsa riguardante i “servi inutili”. Il Vangelo ci invita a identificarci con i lebbrosi, che diventano bambini (cf. Lc 18,15-17) e con il ricco che si converte e accoglie la salvezza nella sua casa (Lc 18,18 ss.); se l’accogliamo veramente e custodiamo in modo tale da metterlo in pratica, potremo finalmente arrivare anche noi a Gerico (19,1) e di lì cominciare a salire con Gesù (19,28), fino all'abbraccio gioioso col Padre.
La pericope evangelica, oltre a dirci che «Gesù salva», ce ne indica anche una modalità. La Salvezza avviene «per la strada» e, al contempo, nel riconoscimento che essa viene da Dio, è un suo dono, e ci viene data attraverso la persona di Cristo. Da qui scaturisce il gesto del Samaritano che «loda Dio» e ringrazia Gesù per la guarigione ottenuta. Non un gesto di sudditanza o di prostrazione, ma un segno di riconoscenza che diventa «riconoscimento» di un Dio che sempre ci salva e che - sicuramente - sempre ci accoglie. Non un gesto disincarnato dalla realtà «pellegrinante» dell’uomo, ma un segno di conversione e salvezza «concreta», capace di attendere l’uomo, facendogli compiere il suo personale percorso di vita e di ricerca.
Il racconto apre alla missione universale.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 11: Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea.
Siamo alla terza e ultima tappa del viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Il versetto che ci introduce all’incontro del Signore con dieci lebbrosi ci mostra una geografia strana: sembra che Gesù si sposti in direzione opposta! Strana perché un ebreo non percorrerebbe mai una terra straniera e pagana. Gesù la attraversa, non la evita per andare a Gerusalemme. In realtà, Luca ci permette di guardare la Samaria da “Gerusalemme”.
La nostra vita è affranta da varie vicissitudini. La Parola ci mostra un cammino, ed è un cammino lungo da fare con tutte le sue fatiche. Un cammino lungo ma pieno di speranza e che conduce alla gloria. Ciò che conta è osare ancora perché c’è un varco, una sfida, un progetto da realizzare. L’iniziativa è di Dio. In questo cammino vi è il passaggio di Gesù. Nulla Egli lascia di non visitato, non toccato dal suo sguardo d'amore e di misericordia. Due allora i luoghi per incontrare Gesù: la Samaria che il luogo dell’infedeltà e la Galilea il luogo della quotidianità e anche della paganità (Galilea delle genti).
Anche nella nostra vita esistono questi due luoghi che noi in prima persona abitiamo. E Gesù passa in mezzo a tutto ciò, è lì che incontriamo il Signore.
vv. 12-13: Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!».
Gesù entra in un villaggio, non sappiamo il nome del villaggio, infatti è il villaggio della vita: Gesù entra nella vita di tutti i giorni dove incontra tutti, in particolare i bisognosi. L'entrare di Gesù, in senso biblico, è l'ingresso nel profondo, che implica condivisione e partecipazione. Questo incontrare tutti è rappresentato da dieci lebbrosi (il numero dieci nella cultura ebraica è simbolo di totalità). Non sappiamo nulla di questi dieci lebbrosi: né nome, né appartenenza, né come si sono ritrovati insieme.
Chi è allora il lebbroso? Il lebbroso secondo Lev 13,45-46, è una persona colpita, ferita, percossa: qualcosa lo ha raggiunto con violenza, con forza e ha lasciato un segno di dolore, una ferita. È una persona in lutto, in grande dolore, come dimostrano le sue vesti stracciate e il capo scoperto; è uno che deve coprirsi la bocca, perché non ha diritto di parlare, né quasi più di respirare in mezzo agli altri: è come un morto. È uno che non può rendere culto a Dio, non può entrare nel tempio, né toccare le cose sante e per questo ritenuto un impuro, maledetto da Dio. È una persona piagata profondamente, un emarginato, un escluso, uno lasciato in disparte, in solitudine. Di loro possiamo dire solamente di buono è che hanno trovato una solidarietà nella sofferenza. Se la sofferenza ci isola, questi uomini trovano un modo per solidarizzare tra di loro e soprattutto fanno qualcosa che è dirompente: pregano! La sofferenza, lo sappiamo o ci fa pregare o ci fa imprecare non ha alternative. I dieci lebbrosi che vanno incontro a Gesù, si fermano a distanza e solo da lontano gli parlano, gridandogli il loro dolore, la loro disperazione: «Gesù maestro, abbi pietà di noi!».
La Legge obbligava loro nel momento in cui avessero incontrato qualcuno di gridare “immondo! Immondo! Immondo!” (Lev 13,45). Questi però incontrando Gesù chiedono pietà.
Questa richiesta è accompagnata dal vocativo “maestro” che vuole indicare una persona dotata di grande sapienza e autorità. Nel linguaggio lucano (epistates); significa più propriamente “colui che sta in alto” (significa anche “padrone”) e che ritroviamo sulla bocca di Pietro, quando, sulla barca, fu chiamato da Gesù a seguirlo (Lc 5,8) e lui si riconosce peccatore. E qui siamo al cuore della verità, qui è svelato il mistero della lebbra, quale malattia dell'anima: essa è il peccato, è la lontananza da Dio, la mancanza di amicizia, di comunione con Lui. Questo fa disseccare l'anima nostra e la fa morire pian piano.
Qui gli sguardi si incrociano e i lebbrosi vengono ammessi al banchetto dell'intimità con Gesù, alla festa di nozze della salvezza. Dopo di loro solo il cieco di Gerico (Lc 18, 38) e il ladrone sulla croce (Lc 23, 42) ripeteranno questa invocazione con la stessa familiarità, lo stesso amore: Gesù! Solo chi si riconosce malato, bisognoso, povero, malfattore, diventa prediletto di Dio.
v. 14: Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati.
Ai lebbrosi Gesù risponde invitandoli a recarsi dai sacerdoti e a mostrarsi loro, essendo essi gli unici che potevano certificare la guarigione dalla lebbra e reintegrare il sanato nella comunità senza rischiare di essere nuovamente cacciato (cf. Lv 14; Lc 4,27; 5,13-14; 2Re 5; Gb 33,14-30). Quindi nessun contatto fisico, imposizione delle mani, sfiorare il suo mantello come fece la donna emorroissa. Niente di tutto questo. C’è solo la sua Parola che in qualche maniera esaudisce la loro richiesta di guarigione, Parola in cui i lebbrosi si gettano fiduciosi.
Il fatto di obbedire alla parola di Gesù indica chiaramente la loro fede: di conseguenza essi sono guariti mentre sono ancora in cammino.
Gesù rivolge a ciascuno di noi quest’invito: camminate fiduciosi! Siamo quel che siamo, siamo lebbrosi, camminiamo e saremo mondati se aderiamo, se abbiamo fiducia e obbediamo alla Parola. La nostra lebbra è una mancanza di fiducia in Dio, in noi stessi e negli altri. Del resto, questi dieci si fidano di una promessa, di una parola folle, in quel momento non verificata e alla cieca si mettono in cammino. E succede qualcosa nella loro vita.
vv. 15-16: Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano.
Guarigione che effettivamente avviene durante il cammino verso Gerusalemme: a quel punto, però, soltanto uno di loro, accortosi di essere stato sanato, si ferma e torna indietro da Gesù, si prostra ai suoi piedi e gli rende grazie. Luca non dice subito di chi si tratta; con ciò vuole preparare l’uditorio mettendo in luce la fede dello sconosciuto.
Alla fine del versetto, Luca rileva per tutti che il lebbroso che si converte è un Samaritano, un’annotazione particolare per indicare che tutti vengono riuniti sotto la misericordia divina. Il suo tornare indietro non è un semplice movimento fisico, un cambiamento di direzione e di marcia, ma piuttosto un vero e proprio capovolgimento interiore, profondo. “Tornare” è il verbo della conversione, del ritorno a Dio. Tornare a Gesù è la conversione. È il cambiare qualcosa in un'altra cosa (Ap 11,6); è il tornare a casa (Lc 1,56; 2,43), dopo essersi allontanati, come ha fatto il figlio prodigo, perso nel peccato. Così fa questo lebbroso: cambia la sua malattia in benedizione, la sua estraneità e lontananza da Dio in amicizia, in rapporto di intimità, come tra padre e figlio. Cambia, perché si lascia cambiare da Gesù stesso, si lascia raggiungere dal suo amore.
Il Samaritano ringrazia, fa la sua eucarestia! Si siede alla mensa comune della misericordia, dove Gesù si è lasciato ferire e piagare ancor prima di lui; dove è diventato il maledetto, l'escluso, il buttato fuori dell'accampamento per raccogliere tutti noi nel suo cuore. La sua eucarestia è gioiosa, con abiti a festa e non da lutto.
vv. 17-18: Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all'infuori di questo straniero?».
Gesù rimane stupito perché solo uno torna indietro e pone tre domande, tre domande che rimangono nel cuore di ciascuno e che attendono una risposta. La prima domanda dichiara che tutti hanno beneficiato della guarigione. La seconda costatazione l’assenza dei nove guariti, membri del popolo eletto avrebbero dovuto per primi rendere lode a Dio? Dove sono? L’ultima esplicita ciò che questi avrebbero dovuto fare: non basta la guarigione; essa avrebbe dovuto essere per essi il segno di una realtà nuova; non tornando da Gesù, hanno mancato nell’essenziale.
Il pensiero del Signore è sempre fuori dall’ordinario. Come fu per la pecora perduta che andò a cercarla lasciando le novantanove, qui pensa a quei nove che non si son convertiti. A quei nove che rappresentano coloro che sperimentano la grazia del Signore, coloro che celebrano l’Eucarestia sono coloro che non vivono la missione (la parola Messa vuol dire proprio missione), che non hanno ancora conosciuto Dio, utilizzano un Dio della loro fantasia per il proprio tornaconto e manipolarlo come conviene.
Diversamente se abbiamo conosciuto Dio, ricevuti da Dio dei doni, bisogna rispondere con riconoscenza e amare l’altro come lo ama Lui.
Inoltre, chiamando il samaritano «straniero», lo si costituisce rappresentante di tutti gli stranieri, del mondo pagano aperto alla salvezza, e posto in contrasto con i membri del popolo eletto (prospettiva storico-salvifica).
v. 19: E gli disse: «Alzati e va'; la tua fede ti ha salvato!».
Due verbi concludono questo episodio. Il primo è un invito di Gesù allo straniero giunto da solo e inginocchiato ai suoi piedi in atteggiamento adorante ed eucaristico: «Alzati», cioè Risorgi! È la vita nuova dopo la morte, il giorno dopo la notte. Anche per Saulo, sulla via di Damasco, è risuonato questo invito, questo comando d'amore: "Risorgi!" (At 22,10.16) ed è nato di nuovo, dal grembo dello Spirito Santo; è tornato a vedere, ha ricominciato a mangiare, ha ricevuto il battesimo e il nome nuovo. La sua lebbra era scomparsa.
Il secondo verbo è quello del salvare, che è inciso nel nome di Gesù. In ebraico Gesù significa Dio salva. E, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica, il suo nome «…significa che il Nome stesso di Dio è presente nella persona del Figlio suo [Cf At 5,41; 3Gv 1,7] fatto uomo per l'universale e definitiva Redenzione dei peccati. È il nome divino che solo reca la salvezza, [Cf Gv 3,18; At 2,21]». (CCC, 432).
Il samaritano, risanato nel corpo e totalmente liberato e rinnovato nello spirito, ha sperimentato la salvezza per opera del Cristo; ha raggiunto la fede, che non si limita alla fiducia nel potere taumaturgico di Gesù ma supera ogni barriera; infatti, nessun uomo è straniero agli occhi di Dio perché ogni uomo è un figlio che ha in sè l'immagine del Padre, che niente può distruggere e che Gesù ha riportato, col suo sacrificio e la sua parola, allo splendore originario. Questa fede contiene in sé un invito: tornare dal donatore, entrare in rapporto con Gesù. Il samaritano è portatore di una mentalità nuova, quella che l’Evangelista ci invita ad assumere, ovvero la consapevolezza gioiosa di sentirsi amati da Dio e da Lui salvati dalla morte, non semplicemente “guariti”. È la mentalità nuova della resurrezione: siamo un popolo di salvati che entrano in una relazione con il Salvatore, non di sanati svincolati da qualsiasi legame con chi ci salva. Questa è la fede salvifica che coinvolge tutto l’essere umano e lo conduce alla pienezza: la liberazione dal male fisico e l’integrazione nella comunità umana ne sono il segno.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Gesù sta passando dalla mia vita. Sono pronto ad accoglierlo?
Ho il coraggio di mettere a nudo il mio male, il mio peccato, che è la vera malattia?
Escludo qualcuno da ogni tipo di relazione, tanto da renderlo “lebbroso”?
Quale è la lebbra da cui vorrei essere guarito?
Dice il Salmista: Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?... Mi preparo a dirgli grazie, a cantargli il cantico nuovo del mio amore per Lui. In quale modo posso esprimere la mia riconoscenza al Signore?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Cantate al Signore un canto nuovo,
perché ha compiuto meraviglie.
Gli ha dato vittoria la sua destra
e il suo braccio santo.
 
Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza,
agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia.
Egli si è ricordato del suo amore,
della sua fedeltà alla casa d’Israele.
 
Tutti i confini della terra hanno veduto
la vittoria del nostro Dio.
Acclami il Signore tutta la terra,
gridate, esultate, cantate inni!  (Sal 97).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Il Vangelo termina con un invito: “Alzati e va'”. È l’ascolto fattivo della Parola. Dopo questa esperienza non posso stare fermo, chiudermi nel mio mondo, nella mia tranquilla beatitudine e dimenticarmi di tutti. Devo alzarmi, uscire fuori, mettermi in cammino mostrando la mia gratitudine non solo a parole, ma anche con le opere e nella verità.



martedì 30 settembre 2025

LECTIO: XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 17,5-10
 

Invocare
O Padre, che ci ascolti se abbiamo fede quanto un granello di senapa, donaci l’umiltà del cuore, perché, cooperando con tutte le nostre forze alla crescita del tuo regno, ci riconosciamo servi inutili, che tu hai chiamato a rivelare le meraviglie del tuo amore.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
5Gli apostoli dissero al Signore: 6«Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe. 7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? 8Non gli dirà piuttosto: «Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
Nelle sue istruzioni ai discepoli e alle folle che lo seguono lungo la strada, Gesù ha ripetutamente parlato delle dure esigenze che comporta la sequela. Le possiamo riassumere in due affermazioni: «Chi non preferisce me al padre, alla madre, alla moglie e ai figli, ai fratelli e alle sorelle e perfino alla propria vita non può essere mio discepolo» (14,26); e poi l’altra: «Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo» (14,33).
Ora non c’è più un discorso sulle esigenze del vangelo, cioè sulle cose da lasciare e sugli impegni da assumere, ma alcune parole sulle condizioni che le rendono possibili e sulle modalità che le devono accompagnare. Queste sono due: la fede e l’umiltà. Per avere il coraggio di seguire Gesù occorre la fede, e se Dio ti dà il coraggio di seguirlo non vantartene.
All’insegnamento sulla fede segue la parabola, esclusiva di Luca. Indirizzata agli apostoli, questa parabola avverte i capi della Chiesa che essi non possono mai fermarsi e riposarsi nella convinzione di avere già lavorato abbastanza.
Questa piccola parabola, non intende descriverci il comportamento di Dio verso l’uomo, ma indicarci come deve essere il comportamento dell’uomo verso Dio: totale disponibilità, senza calcoli, senza pretese, senza contratti. Non si entra nello spirito del vangelo con lo spirito del salariato: tanto di lavoro e tanto di paga, nulla di più e nulla di meno. Dopo una giornata piena di lavoro, non dire “ho finito” e non accampare diritti. Non vantartene e non fare confronti con gli altri, ma dì semplicemente: ho fatto il mio dovere, sono soltanto un servo. A ciascuno conviene viverla in piena umiltà sicuri che Gesù pregherà perché la nostra fede non venga meno (cfr. 22,32).

Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv. 5-6: Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!».
Per capire questa richiesta, occorre iniziare ancor prima di questi versetti dove si parla di “scandalo”. Ogni male è uno scandalo che ricade su Gesù. Occorre accogliere nella propria vita lo scandalo della Croce, dove Dio si presenta come bestemmiatore, maledetto, abbandonato da Dio: è lo scandalo assoluto.
In questi due brevi versetti, gli apostoli si rendono conto che non è facile avere gli atteggiamenti che Gesù ha appena richiesto loro: attenzione verso i più piccoli (17,1-2) e riconciliazione verso i fratelli e le sorelle più deboli della comunità (17,3-4). E questo con molta fede! Non solamente fede in Dio, ma anche fede nella possibilità di recupero del fratello e della sorella. In questa difficoltà trovano il motivo di richiesta, la loro giusta preghiera, un supplemento spirituale per accrescere la loro fede.
Il verbo “accresci” può essere anche tradotto con “accordaci” la fede. Quindi c'è sempre bisogno di un'aggiunta di fede, cioè di ricorrere al centro della nostra fede, in quella fede nel dono di Dio che mi ama infinitamente. Questa è la fede: accettare questo amore infinito di Dio che ha una fede tale in me che è morto per me peccatore.
Si potrebbe mettere questo versetto in relazione con Mt 13,31 e a quanto si dice a proposito del Regno dei cieli: «il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa. [..] Esso è il più piccolo di tutti i semi, ma una volta cresciuto è più grande delle altre piante».
La nostra fede ha nel granello di senapa la stessa dimensione del Regno di Dio. Un granello di senape è piccolo come una pulce, minuscolo, quasi invisibile. Ma una volta seminato velocemente cresce, e nell'arco di un anno quel piccolo seme può divenire un albero anche di tre o quattro metri. La dimensione del granello di senapa non è la dimensione minima richiesta, ma la dimensione massima richiesta.
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape…
La risposta a quella piccola fede degli apostoli è in parabole – se aveste fede - equivale a dire che non è questione di quantità ma di autenticità della fede. Il termine greco usato dai Vangeli è “pistis” che deriva dal termine che si usa per indicare la “persuasione”: “peitho”. Ciò vuole indicare che una idea persuasiva porta alla fiducia, alla fedeltà. Ciò significa confidare nelle azioni e nelle parole di Dio.
Ora questa preghiera Gesù non la esaudisce, perché non tocca a Dio aggiungere fede, non può farlo: la fede è la libera risposta dell'uomo al corteggiamento di Dio. La risposta al corteggiamento di Dio è paragonabile alla grandezza di un granello di senape.
Dire di avere fede quanto un granello di senape, in pratica quanto la punta di uno spillo, non significa che occorre essere giganti della fede, ma Gesù fa comprendere che la fede, anche piccola, se è reale adesione a lui, è sufficiente per nutrire la relazione con lui e accogliere la salvezza.
potreste dire a questo gelso: Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.
La prima parabola ci parla di un albero, un gelso, piantato nel mare: l'impossibile che diventa possibile. Il gelso è un albero secolare, può vivere anche seicento anni, ha radici profonde, che si abbarbicano nella terra. È un albero molto difficile da sradicare, simbolo di solidità, di staticità, di inamovibilità.
Allora che cos’è questa fede di cui si parla? Nel Libro di Abacuc si legge che “il giusto vivrà per la sua fede” (2, 4). Nell’originale ebraico, il termine usato in questo passo è “emuna”. Anche se la parola viene comunemente tradotta come “fede”, Gli esperti sostengono che sarebbe meglio tradurla con “fedeltà”. Ciò vuol dire che la fede è qualcosa di attivo, un’attività sempre in atto equivalente a una condizione stabile. Per questo nel vangelo troviamo spesso frasi del genere: «Tutto è possibile per chi crede (Mc 9,23); la tua fede ti ha salvato (Mc 10,52); chi ha fede sposta le montagne (Mc 11,22-23); tutto ciò che chiederete, credete e vi sarà dato» (Mc 11,24; Mt 21,22; Gv 14,13-14). Se vuoi vedere la tua fede, la tua fiducia/fedeltà in Dio e nella vita guarda a come reagisci di fronte agli ostacoli. Tu inizia; datti da fare; mettiti in movimento e scoprirai che quella piccola fede diventerà enorme (piccolo seme che diventa un albero enorme) e compirà l'impossibile. Questa esperienza la ritroviamo nel Libro dell’Esodo dove agli Israeliti non mancava il fatto di credere in Dio, ma la fiducia (cf. Es 14,31).
vv. 7-9: Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: «Vieni subito e mettiti a tavola»? Non gli dirà piuttosto: Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu»? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Con la seconda parabola “del servo”, abbiamo un passo avanti nella comprensione della fede. Questa parabola inizia con una domanda retorica: “chi di voi”, che fa appello al giudizio dell’ascoltatore. A quei tempi il servo era proprietà del padrone e non possedeva diritti. Era colui che lavorava tutto il giorno nel campo e a fine giornata, anche se crede di aver finito, ha ancora molto da fare non si può accomodare per mangiare, ma deve ancora rimboccarsi le maniche e servire il suo padrone. Dinanzi a Dio siamo come lo schiavo davanti al suo padrone.
Aver fede significa diventare disponibili a Dio, ascoltare la sua Parola così profondamente da venirne trasformati, essere “trasparenti” alla sua volontà. Significa arare e pascolare. Significa servire ad ogni costo. Come fece Gesù. Chi crede, dunque, non crea ostacolo alcuno all’azione di Dio, non l’offusca, la lascia passare.
La fede lascia passare sempre e solo l’azione di Dio attraverso di noi; non costringe Dio a fare quello che vogliamo noi ma permette a noi di fare quello che vuole lui. Lo si vede bene dalla piccola similitudine del servo che, dopo aver faticato e arato tutto il giorno, rientra a casa.
Dopo aver servito tutto il giorno diventerà forse padrone la sera? No; egli rimane pur sempre servo. Gesù cosa fa nell'ultima cena? Fa sedere a tavola, si cinge, li serve e da loro la sua vita e dà da mangiare. Può sembrare umiliante questo modo di immaginare il rapporto con Dio, e si tratta invece di un rapporto liberante.
La fede è la tecnica per imparare a servire Dio nel modo giusto. Fede e servizio, infatti, non si possono separare. Chi la usa, permette a Dio di operare attraverso di lui e diventa perciò strumento della salvezza di Dio. E siccome Dio vuole la salvezza, chi ha fede introduce con il suo comportamento una forza di salvezza nel mondo. Il versetto finale, sotto forma di domanda ci orienta verso questa risposta: lo schiavo non può pretendere e non si aspetta la gratitudine del padrone. Egli ha fatto ciò che doveva fare.
v. 10: Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato
Uscendo dall’esempio parabolico, Gesù ci interpella direttamente. “Così anche voi”, cioè noi ancora oggi chiamati a lavorare nel campo della vita e della storia in obbedienza alla Parola di Dio, ciascuno secondo la propria vocazione. Il servizio di Dio richiede la sottomissione di un servitore. Il servizio che il servo (Gesù) ci rende è un servizio che non ci fa sentire obbligati, è un servizio che ci libera. E questo dovrebbe essere il servizio che ognuno di noi è chiamato a svolgere. Siamo schiavi non necessari, cioè non arrechiamo profitto. Siamo coloro che, non arrecando profitto, servono unicamente per dono.
dite: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare»
L’espressione servo inutile nel mondo odierno può portarci fuori strada. Servi inutili non perché non servono a niente, ma, secondo la radice della parola, perché non cercano il proprio utile, “servi senza utile”, non avanzano rivendicazioni o pretese. Loro gioia è servire la vita.
Servo è il nome che Gesù sceglie per sé; servo è il nome di ogni cristiano, perché questo è l'unico modo per creare una storia diversa, che umanizza, che libera, che pianta alberi di vita nel deserto e nel mare.
L’espressione evangelica vuole esprimere che il “servire” non è qualcosa che si viene ad aggiungere alla condizione umana, come un possibile merito, come una realtà superflua ed accidentale. L’essere creatura dell’uomo, opera del Creatore, implica la disponibilità e la normalità dell’essere messi a disposizione, dell’essere chiamati a servire in un dono totale d’amore, come Gesù.
Un uomo che non “servisse” avrebbe fallito la sua stessa identità, avrebbe perso la sua vita, avrebbe perso sé stesso. Colui, invece, che vive la sua esistenza proprio come servitore, non fa altro che rispondere a quel disegno d’amore, divino, iscritto nella sua stessa vita. Ecco perché non è necessaria una ricompensa, ecco perché il servire non diviene motivo di rivendicazioni. Tutto ciò che abbiamo ricevuto non lo meritiamo. Viviamo grazie all'amore gratuito di Dio. L’evangelista Matteo, descrive Pietro che rivolge a Gesù questa domanda: «Ecco noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito, che avverrà di noi?» (Mt 19,27). Gesù risponde loro: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29).
Luca descrive il servo di Dio come colui che compie il suo dovere e non ha il diritto di avanzare pretese nei confronti di Dio, perché questo servizio che Gesù richiede è lo stesso di quello da Lui compiuto: «il Figlio dell’Uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). La fede fa miracoli soprattutto quando si manifesta in fatti di servizio, seguendo l’esempio di Gesù. Non siamo, dunque, chiamati a servire per ottenere una ricompensa, ma per imitare Dio, che si fece servo per amore nostro. Con san Paolo possiamo semplicemente dire: «Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!» (1Cor 9,16). E questo per non perdere quella dignità di figli di Dio, di cristiani e vivere di quella libertà che scaturisce dal Vangelo.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Quali sono gli elementi che mi aiutano a valutare lo spessore della mia fede?
Ripeto spesso nella preghiera: Signore, accresci la mia fede!?
Moltiplico gli atti di fede davanti a ogni situazione personale o dove mi ritrovo debole e impotente?
Mi vanto dei diritti nei confronti del Signore in forza delle mie preghiere e delle mie opere di bene?
Mi considero servo in ogni gesto che compio vedendolo come un servizio d’amore a Lui presente negli altri?
Sono capace di fare della mia vita un servizio senza aspettare la ricompensa?
Cosa suscita in me il termine «servo inutile»?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Venite, cantiamo al Signore,
acclamiamo la roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie,
a lui acclamiamo con canti di gioia.
 
Entrate: prostràti, adoriamo,
in ginocchio davanti al Signore che ci ha fatti.
È lui il nostro Dio
e noi il popolo del suo pascolo,
il gregge che egli conduce.
 
Se ascoltaste oggi la sua voce!
«Non indurite il cuore come a Merìba,
come nel giorno di Massa nel deserto,
dove mi tentarono i vostri padri:
mi misero alla prova
pur avendo visto le mie opere». (Sal 94).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamo che la Parola illumini la nostra vita. Apriamo le porte del nostro cuore per scoprire quella piccolezza, quella “inutilità” che sta in noi e scoprire che la nostra fede ci rende capaci di “piantare gelsi nel mare”.


 

domenica 7 settembre 2025

LECTIO: ESALTAZIONE DELLA SANTA CROCE (Anno C)

Lectio divina su Gv 3,13-17
 

Invocare
O Padre, che hai voluto salvare gli uomini con la croce del tuo Figlio unigenito, concedi a noi, che abbiamo conosciuto in terra il suo mistero, di ottenere in cielo i frutti della sua redenzione.
Egli è Dio e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
16Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
 
Silenzio meditativo ripetendo mentalmente il testo, cercando di ricordare quanto letto o ascoltato
 
Dentro il Testo
Il cap. 3 del Vangelo di Giovanni si apre con l’incontro tra Gesù e Nicodemo, un incontro fatto di notte dove Nicodemo cerca di capire la persona di Gesù e il suo insegnamento. Tra i due nasce un profondo dialogo. Nicodemo è avanti negli anni e con Gesù trova una seconda nascita, anche se all’inizio è stato difficile comprendere che bisognava nascere da acqua e spirito, nascere dall’alto. Gesù rivela al Rabbì di Israele i misteri del Regno, le “cose del cielo”. E questo Gesù lo può fare perché Egli è disceso dal Cielo e dice ciò che sa. Per parlare di queste “cose celesti” fa un paragone tra l’episodio del serpente nel deserto e il Figlio dell’uomo, che sarà innalzato perché chi crede possa avere la vita. Anticipa in questo modo il senso della sua crocifissione (essere innalzato) e della sua morte. Per comprenderla, dice Gesù: dovete ricordare la storia di Israele che nel deserto ha perso la fiducia nel suo Dio, si è sentito abbandonato, ma quando ha sperimentato l’angoscia della morte è ritornato a Dio e Dio gli è venuto incontro.
Nicodemo dalle tenebre della notte si incammina verso Gesù, verso la pienezza della luce e della verità e da lui riceve come nascere dall’alto, come si ha la pienezza della vita.
Gesù fa capire a Nicodemo che uno nasce e vive veramente quando si sente amato e ama. Per questo ciò che ci fa nascere è l’amore e l’evangelista Giovanni presentando il mistero della Croce del Signore, cioè la sua esaltazione, ci parla dell’amore incredibile di Dio per ciascuno di noi.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 13: Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell'uomo.
L’origine di Gesù è il Padre, Dio; egli proviene in una maniera totalmente diversa da qualsiasi inviato che l’ha preceduto, di conseguenza ora Egli è il tramite indispensabile per accedere al mistero di Dio. Questo presuppone l’incapacità da parte dell’uomo di cogliere nella sua interezza il mistero di Dio perché non ha la possibilità di salire al cielo (cf. Pr 30,4). Questo è possibile solo al «Figlio dell’uomo». Al termine del Prologo, l’evangelista Giovanni indica l’origine celeste di Gesù quando afferma che «il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18).
L’opera di Dio in Gesù non ha tuttavia solo una finalità conoscitiva: essa è in grado di realizzare un’autentica trasformazione dell’essere umano, perché lo guarisce dalla sua distanza da Dio e lo rimette di nuovo in comunione con lui. Possiamo cogliere da queste parole che il Figlio è in grado di parlarci delle realtà celesti, in quanto Egli è disceso dal cielo, ed è capace di schiudere le cose divine.
Ogni accessibilità che Dio ci concede è resa possibile dal mistero dell’incarnazione, dal suo farsi carne.
vv. 14-15: E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell'uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Nel significato biblico originale il serpente innalzato rappresentava il segno del perdono di Dio che ridona la comunione e quindi la vita a chi, dopo la ribellione, si pentiva e si rivolgeva con fiducia al Signore (cf. Nm 21,4-9; Sap 16,5-7). La ribellione porta morte; tornare ad obbedire al Signore avendo fiducia in Lui come liberatore ridona la vita.
Giovanni usa il verbo “innalzare” che viene applicato sia al serpente che al Figlio dell’uomo. Nel primo caso richiama l’atto di Mosè, nel secondo l’esperienza del servo di Jahvé narrato da Isaia (cf. Is 52,13). Tutti e due riguardano la guarigione ma solo il secondo riguarda la salvezza, la vittoria sul peccato. Abbiamo così un misterioso simbolo richiamato da Gesù per farci vedere in che modo Egli ci darà la Vita divina, occorre però “volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto” (cf. Gv 19,37).
La locuzione avverbiale “bisogna”, che ritroviamo nei Sinottici negli annunci della Passione, mette in evidenza la volontà salvifica di Dio, una condizione che Gesù deve compiere: l’innalzamento. Questo vuol dire che la condizione di coloro che “devono” è condizione che li pone in grado di aprirsi al mistero stesso di Dio. Coloro per i quali si può dire che “devono”, che “bisogna” sono coloro che sono una cosa sola con il Signore, perché Gesù interpreta la loro condizione come condizione che lui ha avuto davanti a Dio.
L’innalzamento a cui Gesù si riferisce non implica solo la crocifissione: con la croce ha inizio un movimento che porta al definitivo innalzamento, cioè l’ascesa al Padre. La croce di Gesù, allora, non ci ottiene soltanto la remissione dei peccati, ma ci apre la strada per il ritorno alla comunione di vita con Dio. Se, attraverso l’incarnazione, Dio è entrato nel mondo e si è aperto il movimento di discesa di Dio verso l’uomo, ora, con l’innalzamento del Figlio dell’uomo, si opera il movimento di ascesa verso il Padre: in Gesù è aperta, per l’umanità, la via di ritorno alla comunione con Dio. Attraverso l’innalzamento di Gesù, Dio vuole attirare a sé l’umanità intera.
vv. 16-17: Dio, infatti, ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.  
Secondo la visione della Bibbia c’è all’origine del mondo una benedizione di Dio. Quando Dio ha creato il mondo lo ha anche benedetto e quella benedizione voleva dire approvazione del mondo. Ora, questa benedizione non è stata ritirata, Dio non l’ha tolta nemmeno a causa del peccato: nemmeno la punizione del peccato, nemmeno l’esperienza del diluvio hanno cancellato questa benedizione originaria di Dio nei confronti del mondo e dell’uomo; anzi, la storia la si può descrivere proprio come rinnovato dono di questa benedizione.
Per “mondo” non si deve intendere la creazione buona, santa e bella, ma l’umanità peccatrice, l’umanità ribelle, l’umanità che ha rifiutato Dio. Questo “mondo” che gli era nemico, Dio lo ha amato e lo ha amato in un modo così serio da donare il suo Figlio unigenito.
Il senso di questa donazione è che Dio ha donato sé stesso nel suo Figlio, ha donato la ricchezza della sua vita e del suo amore. In Dio, amare e dare vengono a coincidere. Amare vuol dire dare. Il dare è il modo di essere di Dio. Se per il Figlio dell’uomo “bisogna”, per Dio si tratta di “dare”. Dal dare di Dio si misura il suo amare il mondo. Se consideriamo che il mondo è tutto ciò che si oppone a Dio, allora capiamo bene come, nei confronti di ciò che si oppone a lui, Dio si sia posto come colui che dà e che, nel suo Figlio, “si dà”, cioè, dona se stesso. In questo versetto ci viene dato il contenuto della nostra fede, che è questo: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Il credere in lui è il credere all’amore con cui Dio ha amato il mondo. La fede ci porta a credere e a sapere il mondo amato fino al punto che Dio, per esso, ha donato suo Figlio. Il mondo, quindi, non è condannato; per questo mondo Dio non ha esitato a dare il suo Figlio unigenito.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Gesù dice a Nicodemo che la condanna, il giudizio, non rientra in quel momento nella missione del Figlio, ma solo il dono della salvezza destinata a tutti, che nel versetto è indicato dalla parola “mondo”, cioè l’umanità bisognosa di essere salvata. (cf. Gv 12,47; 1Gv 4,8-16). Il tardo giudaismo considerava il Messia come giudice escatologico. Si noti anche la persona del Battista visto come colui che ripulisce l'aia e sfronda gli alberi sterili (Mt 3,10.12). Gesù, secondo Giovanni, aggiunge che il giudizio consiste nel fatto che la luce è venuta nel mondo ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagie (Gv 3,19). Il dono della luce richiede che gli uomini l’accettino perché, in caso contrario, condannano se stessi alla cecità, come effettivamente è capitato con la venuta del Verbo (cf. Gv 1,9-10).
La scelta fondamentale dell'uomo è questa: accettare o rifiutare l'amore del Padre che si è rivelato in Cristo.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Nicodemo era in cerca della verità. Io cosa cerco?
Che cosa significa per me l’esaltazione di Cristo e della sua croce?
La parola “croce” suscita in me pensieri o atteggiamenti negativi o è simbolo di salvezza, redenzione?
Come reagisco nelle circostanze della malattia o della sofferenza?
Cosa sono per me la vita eterna e la salvezza?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Ascolta, popolo mio, la mia legge,
porgi l’orecchio alle parole della mia bocca.
Aprirò la mia bocca con una parabola,
rievocherò gli enigmi dei tempi antichi.
 
Quando li uccideva, lo cercavano
e tornavano a rivolgersi a lui,
ricordavano che Dio è la loro roccia
e Dio, l’Altissimo, il loro redentore.
 
Lo lusingavano con la loro bocca,
ma gli mentivano con la lingua:
il loro cuore non era costante verso di lui
e non erano fedeli alla sua alleanza.
 
Ma lui, misericordioso, perdonava la colpa,
invece di distruggere.
Molte volte trattenne la sua ira
e non scatenò il suo furore (Sal 77).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Impara a leggere nella tua vita e in quella degli altri i frutti della Croce. “Dobbiamo soffermarci a contemplare questo mistero, farlo penetrare nel nostro spirito, far sì che esso divenga luce interiore e comprensione amorosa del piano di Dio” (Raniero Cantalamessa).