lunedì 14 luglio 2025

LECTIO: XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 10,38-42
 

Invocare
Padre sapiente e misericordioso, donaci un cuore umile e mite, per ascoltare la parola del tuo Figlio che ancora risuona nella Chiesa, radunata nel suo nome, e per accoglierlo e servirlo come ospite nella persona dei nostri fratelli.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
38Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò. 39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. 40Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti». 41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno. Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Continuiamo il nostro cammino con Gesù verso Gerusalemme. È un viaggio diverso dal nostro; non siamo noi, infatti, a stabilire la meta e neppure l'itinerario. Non siamo noi i maestri e i pastori di noi stessi, come abitualmente siamo spinti a fare. Il cammino da fare è quello del discepolo.
In questo cammino, Gesù passa per un villaggio dove è accolto da Marta e da Maria nella loro casa. Qui abbiamo due modi di accogliere il Signore. Marta si mette a fare tante cose, è tutta turbata, tirata di qua e di là, affannata. Vuole fare tante cose. Per lei la presenza del Signore è fatica, è pena, è lavoro, come tutta la religiosità delle persone buone e giuste che faticano, penano, lavorano. Per Maria la presenza del Signore è gioia, non è né pena, né fatica, né lavoro. La pena e la fatica la fa l’altro, il Signore e lei lo accoglie con gioia.
In questa casa, Gesù mette al primo posto l’atteggiamento di Maria. Questo vuole dire che il primo atteggiamento necessario per il discepolato non è “fare”, ma “ascoltare”. Il discepolato non è il risultato di un nostro sforzo, di un impegno per costruire qualche cosa di grande. Il discepolato è per noi prima di tutto accogliere il Signore nella nostra vita. Accoglierlo come Signore, perché solo in questo modo la nostra vita viene unificata intorno al rapporto e all’obbedienza a Lui.  
In questo viaggio, è il Signore che sta davanti a noi; è lui che guida i nostri passi, perché possiamo raggiungere la statura spirituale alla quale siamo chiamati.
Questo piccolo ma incisivo racconto è proprio del terzo evangelista. Si trova immediatamente dopo quello che abbiamo condiviso la settimana scorsa: il Buon Samaritano.
La correlazione tra i due racconti nel Vangelo di Luca non è casuale. Ha come finalità di presentarci in un “perfetto equilibrio” due realtà basilari della vita del cristiano: l’azione e la contemplazione, la pastorale e la spiritualità, l’impegno e la preghiera. Senza escludersi, ognuno dei racconti, accentua un aspetto. Se rimaniamo con uno solo, il Buon Samaritano o l’atteggiamento di Maria sorella di Marta, potremmo correre il pericolo di limitare o incluso negare qualcuna delle dimensioni della vita del discepolo.
Perciò è importante leggere il racconto odierno alla luce dell’anteriore. Rispettando così il “criterio di unità” di tutta la Scrittura che ci insegna il Concilio Vaticano II per poter interpretare correttamente tutto il testo biblico.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 38: Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo accolse nella sua casa.  
Ci sta una comunità, dei discepoli che insieme a Gesù sono in cammino verso Gerusalemme, un cammino il cui scopo è principalmente lo spargimento del seme della sua Parola, per annunciare la quale non ha esitato a lasciare Cafarnao (cf. Lc 4,43), consapevole che in questa parola c'è più salvezza che nei suoi interventi miracolosi.
L’evangelista Luca non sempre dice dove sta passando Gesù, ma più volte dice che Gesù è in cammino (cf. Lc 9,51.53.57; 10,1.38; 11,1; 13,22.33; 14,25; 17,11; 18,31.35; 19,1.11.28.29.41.45; 20,1).
In questo cammino comunitario, Gesù solo entra in un villaggio anonimo e accoglie l’invito di una donna, Marta (nome che in aramaico significa “signora”). È strano che Gesù si introduca in casa di una donna. Nel versetto seguente le donne sono due e non vi è menzione di uomini della casa, anche se sappiamo che le due sorelle hanno un fratello di nome Lazzaro.
La località non precisata è Betania, nei pressi di Gerusalemme, che in Gv 11,1 viene definita il “villaggio di Maria e di sua sorella Marta”.
Questo suo fermarsi in una casa, fa parte della sua realizzazione della missione: svolgere la sua missione di Servo, annunciata da Isaia (Is 53,2-10; 61,1-2) ed assunta da Gesù a Nazaret (Lc 4,16-21).
C'è un'accoglienza da operare per l'illustre ospite che, dal vangelo di Giovanni, sappiamo essere molto caro alle due donne e al loro fratello.
C'è da rendere il riposo del divino viandante degno, la sua vita di questo giorno più vivibile, lieta, affinché la ripresa della via riesca più facile ed alacre, affinché il suo ministero non risenta troppo della fatica, ma anche perché mantenga un buon ricordo della casa che lo ha accolto, delle persone che ha incontrato.
v. 39: Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola. Marta ha una sorella di nome Maria, di cui si dice in Gv 12,1ss che unse i piedi di Gesù sei giorni prima della passione. Ora in lei si manifesta quello che è l’atteggiamento più consono di stare alla presenza di Gesù: si siede ai piedi di Gesù per ascoltare la sua parola. Il sedersi ai piedi di Gesù e ascoltare la sua parola dichiara la volontà di Maria di dare risalto a Gesù stesso. Il sedersi ai piedi e ascoltare la parola sono i gesti del servizio. Maria non fa niente, guarda e ascolta il Signore. Certamente non si può vivere di ascolto, prima o poi dovrà anche alzarsi e servire, ma l’inizio, l’origine, la sorgente, è lì nell’ascolto ai piedi del Signore. Perché l’identità del discepolo è un dono che ci viene fatto da Lui; dalla premura, dall’attenzione, dall’amore con cui ci viene incontro. Ascoltare è la base, l’inizio e il fondamento, e da questa parola deve nascere tutto il resto, tutta la vita cristiana. Nella vita dell’uomo e nella vita del cristiano, ricevere è più radicale che dare. L’uomo è chiamato a dare ma prima deve ricevere. La vita incomincia con il ricevere non con il dare. La vita incomincia con il ricevere quello che vale per la vita fisica umana, perché vale per la vita di fede cristiana. Si tratta di ricevere per dare e di ascoltare per potere dire. È giusto e fondamentale che io dica, ma per dire devo avere ascoltato. Quindi, all’inizio ci sta l’ascolto: una parola di Dio che plasma la comunità cristiana, che le dà i lineamenti fondamentali, la regola di crescita. La comunità cristiana cresce secondo una regola che è scritta nella parola di Dio.
v. 40: Marta invece era distolta per i molti servizi.
Marta è la donna che avvolta da quel vortice di iniziative buone e non sta ad ascoltare la Parola. L’espressione «molti servizi» traduce il termine tecnico greco, che nel vangelo di Luca indica le “faccende domestiche” che “si faceva in due”. Ora questo termine si può leggere sotto l’aspetto comunitario, di un servizio all'interno della Chiesa dove si è presi più dalle iniziative che dall’ascolto della Parola. Possiamo anche vedere nella comunità lucana un darsi da fare per le molte opere, a scapito di un ascolto attento alla Parola.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t'importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
Servire è sempre un essere lasciati soli, perché la croce è sempre un essere lasciati soli. Anzi, tanto più si è soli, tanto più si è in comunione. Marta non coglie, nel suo essere lasciata sola, come di fatto il suo servizio è il servizio della croce.
La chiave del discorso non sta tanto nella frase che Gesù dice a Marta, quanto piuttosto a ciò che la provoca. Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciato sola a servire? Perché questa è una frase importante? Gesù non dice: “smettila di servire”. Gesù piuttosto dice: “vivi il servizio come vivi lo stare ai miei piedi”. L’evangelista però sottolinea che Marta questo non lo comprese e la descrive in un’azione di pretesa, di un mettersi al di sopra di tutto: “Allora si fece avanti” .
Questo non è il servizio che ci è chiesto. Il servizio che ci è chiesto è il servizio vissuto come ascolto. Il servizio induce all’ascolto e nasce dall’ascolto. Si tratta di fare tante cose come chi sta ai piedi del Signore. Non si tratta di non fare le cose, ma di fare con quella condizione di chi sta ai piedi, riconoscendo che in ogni servizio la cosa migliore non è quello che facciamo noi, ma è quello che fa lui, cioè l’ascolto di Lui.
v. 41: Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose.
Gesù chiamando per nome Marta, le rivolge un dolce rimprovero (cf. Gen 22,1; At 9,4; 22,7). Ella si distrae e si lascia avvolgere dall’agitazione e dall’affanno. Pur vivendo una diaconia, non la vive bene perché ansiosa, preoccupata dimenticando che anche nella diaconia è importante prima cercare il Regno di Dio, il resto sarà dato in più (cf. Lc 12,31). E Gesù la richiama. Quello di Gesù è un rimprovero soavissimo in cui combattono dolcezza e verità, la dolcezza di ascoltare per ben due volte il proprio nome sulla bocca del Maestro e la verità di sentirsi scrutata, nel profondo del cuore, dal suo sguardo interiore. Un rimprovero per un confronto quasi inevitabile nel consesso umano, tra chi si adopera e chi invece gode nel riposo, tra chi si sforza di servire e chi invece si "perde" nel contemplare, tra chi produce ricchezza e chi invece la consuma così, semplicemente.
Un rimprovero a chi vorrebbe tacciare il Maestro di dimenticanza nei confronti di chi si sta adoperando ed affaticando a fronte di chi, al contrario, sta fruendo della presenza; di chi accoglie preparando, a fronte di chi accoglie raccolta ai piedi.
v. 42: una cosa sola c’è bisogno.
La preoccupazione deve essere solo una: la salvezza. L’unica cosa necessaria è l’amore di Dio per noi, che ci fa essere ciò che siamo. Lui è “amore” e noi “esseri amati”. Nella misura in cui siamo amati possiamo amare e diventiamo uguali a Lui (cf. Gv 3,31-36). Questo ascolto ci fa entrare nella Trinità, nella danza di gioia tra Padre e Figlio. Ciò significa che non bisogna farsi distogliere dalle preoccupazioni terrene. L'ascolto della parola di Dio è il fondamento del comportamento cristiano e diventa la condizione essenziale per ereditare la vita eterna.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta.
Maria viene lodata per aver scelto la parte migliore, la parte buona, una metafora per indicare il Signore stesso, che personalmente visita e si rivela nell’intimità. Maria è colei che seduta ai piedi del Dio pellegrino, è tipo di quanti sanno contemperare i “molti servizi” della vita con l’unica cosa di cui c’è bisogno: questa consiste nel non voler precedere il Signore, nell’ascoltare prima di agire, nell’accettare di essere serviti prima di servire.
C’è la definitività di un dono. Questa parte che Maria si è scelta se la dovrà tenere e non le sarà tolta. È una garanzia, ma non necessariamente una garanzia di successo: a volte il Signore diventa ingombrante nella vita. Questa dimensione che Maria vive è la parte di un tutto: Maria si è scelta la parte migliore. Non c’è mai nessuno che, ascoltando o servendo, non sia parte di un tutto che è la Chiesa.
E Marta? Marta non è esclusa dalla salvezza, la sua lode è nel servizio. Gesù, infatti, non condanna il servizio di Marta, che rappresenta il comportamento tipicamente cristiano di cui Gesù stesso ha dato l'esempio (cf. Lc 22,27). Ella, infatti, si rivela come un riflesso di un servizio che solo il Signore Gesù può dare ma tutto in quella misura d’amore che nasce dalla fonte dell’amore. Fuori dall’amore sarà solo affanno, delirio di potenza.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Continuo a camminare, ad andare a vanti, come discepolo di Gesù?
Sono capace di un gesto di ospitalità come quello di Marta che accoglie Gesù nella sua casa?
Che cosa c’è nella mia vita dell’atteggiamento di Maria? Imparo ad essere discepolo del Signore?
Mi concentro tanto nell’attività pastorale da perdere di vista l’ascolto del Maestro e come Marta “Protesto” o “mi sento incomodo” per quello che fanno o dicono i miei fratelli?
Lascio che il Signore mi corregga e mi orienti nel cammino di fede?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Colui che cammina senza colpa,
pratica la giustizia
e dice la verità che ha nel cuore,
non sparge calunnie con la sua lingua.
 
Non fa danno al suo prossimo
e non lancia insulti al suo vicino.
Ai suoi occhi è spregevole il malvagio,
ma onora chi teme il Signore.
 
Non presta il suo denaro a usura
e non accetta doni contro l’innocente.
Colui che agisce in questo modo
resterà saldo per sempre. (Sal 14).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
In mezzo alle attività, per importanti che siano, ritagliamoci un tempo per pregare. Anche se sono tempi brevi, che siano profondi per “tagliare” l’attivismo che molte volte può inondare la nostra vita. Sentiamo dentro il nostro cuore le parole di Gesù che continuamente ripete: Il Maestro è qui e ti chiama… Pronunciamola soavemente con le labbra per incontrare Colui che ci cerca e ci chiama per nome.
 


martedì 8 luglio 2025

LECTIO: XV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 10,25-37

 
Invocare
O Dio, che mostri agli erranti la luce della tua verità, perché possano tornare sulla retta via, concedi a tutti coloro che si professano cristiani di respingere ciò che è contrario a questo nome e di seguire ciò che gli è conforme.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
25Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa' questo e vivrai». 29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno». 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Questa domenica l’evangelista Luca ci racconta un dialogo tra Gesù e un dottore della legge: tema di questo dialogo è l’amore. In realtà, il dialogo inizia con una domanda a Gesù su cosa deve fare per ereditare la vita eterna. Pertanto, al centro del brano evangelico troviamo il verbo amare unito alle due direzioni fondamentali della vita: quella verticale - amare Dio - e quella orizzontale - amare i fratelli -. Qualcuno ha scritto che queste due direzioni ci vengono continuamente richiamate dal legno della Croce: uno posto in orizzontale e l’altro in verticale. Nella sua vita terrena Gesù, infatti, ci ha insegnato ad amare.
Il brano messo alla nostra meditazione è una parabola che spesso ascoltiamo, quella del buon Samaritano. L’evangelista Luca racconta, all’interno di circa dieci capitoli, l’esperienza di Gesù che si dirige a Gerusalemme. Qui vivrà i giorni della sua passione, morte e risurrezione. Gesù, dunque, è in viaggio e lungo il suo cammino racconta questa parabola. In particolare, in Lc 9,51 si dice che Gerusalemme è la città verso la quale Gesù «si diresse decisamente». Gesù inizia a seguire con più decisione e consapevolezza il progetto del Padre e questo chiede anche ai discepoli e a quelli che vogliono “ereditare la vita eterna”.
Il contesto più immediato è quello della missione dei 72 discepoli e del loro ritorno da Gesù (10,1-20) con il canto di lode di Gesù al Padre. All’amore del Padre che scende sulla terra (e ai prodigi che compie nella missione dei discepoli) risponde l’amore dei figli e fratelli che si innalza fino al cielo. 
In questo contesto si innesta la parabola del buon samaritano, sintesi del discorso della pianura: "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (6,36).
La misericordia non ha bisogno di un codice di leggi per manifestarsi; dipende solo dalla sensibilità delle persone in relazione alla vita, soprattutto quella dei bisognosi.
La parabola del buon samaritano “riassume una storia ed un’esperienza di amore infinito, tuttora in atto: la storia di Cristo, che per tutti noi si è fatto Samaritano misericordioso e perdonante (Gv 8,48)” (S. Cipriani).
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 25: Ed ecco, un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
C’è un preciso istante della vita, un preciso istante per chiarire ma anche per creare disordine. In questo preciso istante, un dottore della legge, cioè un esperto della Torah e di questioni teologiche mette alla prova Gesù, crea disordine con chi è l’ordine per eccellenza. Qui il verbo usato è “per tentare Gesù”, lo stesso verbo che l’evangelista ha adoperato per le tentazioni di Gesù da parte del diavolo nel deserto.
Davanti abbiamo la parabola della vita. Essa è provocata da questa domanda che viene rivolta a Gesù circa la vita eterna: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?».
La domanda, pur iniziando in modo ostile nei confronti di Gesù, verte subito sull’esistenza religiosa. Quanti dubbi dietro a questa domanda. L’esperto o chi crede di essere a posto, rivolge la domanda che ogni uomo si pone quando è posto dinanzi al senso del proprio esistere nel mondo: cosa bisogna fare per avere la vita in pienezza? Il suo problema è ereditare la vita, entrare nella vita. Ereditare è il verbo che normalmente viene usato per parlare del rapporto con la terra promessa, la terra nella quale si entra.
Questa domanda sembra cara all’evangelista Luca e alla sua comunità. Infatti, la ritroviamo con il giovane ricco (Lc 18, 18.20). Chissà se è tanto cara a ciascuno di noi?
vv. 26-28: Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?».
Gesù mostra apprezzamento nei confronti del dottore della legge, e questo è importante. Egli non risponde alla domanda, ma come ogni rabbino stimola il dottore della legge a riandare alle conoscenze che gli appartengono e lo contraddistinguono; lo rimanda alla Legge, rimanda l’ascoltatore alla conoscenza della volontà di Dio che si manifesta nel suo comandamento. Lo rimanda ad esprimersi in prima persona. Essa, la Torah, contiene gli elementi sufficienti per poter sciogliere ogni dubbio. Ascoltali bene, ascoltali col cuore vuol dire capire la Bibbia. La Bibbia, infatti, non basta leggerla e rileggerla, predicata e annunciata, occorre capirla mettendo al centro come primo valore il bene dell’uomo.
Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso»
L’esperto risponde con quello che era il credo di Israele e cita subito il grande comandamento: “Shema Israel” che ogni pio ebreo conosce a memoria aggiungendo il comandamento dell’amore del prossimo; in poche parole, la sua risposta è amore di Dio e amore del prossimo.
La risposta data è la saldatura di due passi biblici (Dt 6,5 e Lv 19,18). Essa è solida e forma un solo comandamento, la cui osservanza assicura la vita eterna.
Avere la vita eterna è fare il bene, lasciando però che sia Dio a determinare il senso delle nostre relazioni. Se non abbiamo la coscienza che la carità "c’entra" col nostro rapporto con Dio e con gli altri, essa rimane un qualcosa per il tempo libero. Essa invece è una forma del comandamento di Dio e della vita autentica dell’uomo.
«Hai risposto bene; fa' questo e vivrai».
Gesù conferma il comandamento e invita quotidianamente a viverlo. Ma questa conferma è esplicitata da un “fare”, quasi a dire come se non si osservasse appieno questo precetto, come se si dimenticasse che la carità è il senso e la méta di ogni giorno.
La parola di Gesù è inequivocabile. Ci invita ad abbattere le barriere e gli steccati che frapponiamo tra noi e tanti altri che secondo i nostri gretti giudizi non meritano di stare a contatto con noi o di essere aiutati da noi. L’amore verso il prossimo non ha confini e non deve essere grettamente calcolato secondo i nostri parametri umani. Altrimenti, anche se crediamo di essere cristiani, non lo siamo per niente.
v. 29: Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?».
All’epoca di Gesù c’era un grande dibattito tra le scuole rabbiniche su chi fosse il prossimo. Il pensiero più stretto prossimo è soltanto colui che appartiene al mio clan familiare o alla mia tribù. Il pensiero più largo, prossimo includeva anche lo straniero che abitava dentro i confini di Israele.
L’esperto qui cerca giustificazioni pensando in una maniera restrittiva. Anche noi, oggi, cerchiamo sempre giustificazioni, anche dinanzi a Gesù. Si vive fuori dalla realtà, tra le nuvole e non sappiamo da chi siamo circondati. E facciamo domande. Quale senso ha questa domanda?
Per il termine “prossimo”, in greco è usata una parola che vuol dire “vicino” Vicino può essere un avverbio; con davanti l’articolo diventa un sostantivo: “il vicino”, “il prossimo”. Se non ha l’articolo può diventare preposizione, per esempio: “vicino ad uno”, “vicino a”. Il dottore della legge dice: “chi è vicino a me”? Continua ad essere una domanda priva di senso. Si conosce che bisogna amare Dio, amare il prossimo ma non si conosce non solo il prossimo ma anche Dio: “Chi non ama il fratello che vede come può amare Dio che non vede?” (1Gv 4,20).
v. 30: Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico
Gesù non risponde alla domanda perché il prossimo non si può racchiudere in una risposta. Però, Gesù aiuta a capire raccontando una parabola. Nel raccontare, Gesù narra sé stesso come parabola, perché nessuno possa dire: non lo sapevo. Noi pensiamo: “a me chi è vicino? A me chi pensa? Di me chi si prende cura? Chi mi sta dietro”? È questo il problema; la parabola, infatti, va proprio in questa direzione: chi si è avvicinato? Chi è vicino a me? Se il comandamento di Dio può apparire come una legge esterna, la storia di Gesù lo precisa in una figura personale.
La parabola inizia con un uomo, un viandante. Di lui non sappiamo nulla. Non abbiamo nessun identikit. Davanti a Dio siamo tutti uguali, non occorre descrivere l’identità o il ruolo.
Si racconta qui la vicenda di ogni uomo e donna che camminano in questo mondo. Si racconta l’umanità. Ognuno, infatti, è portatore di un bisogno, è destinatario della nostra azione. Di questa umanità sappiamo solamente che stava tornando da Gerusalemme ed era diretta a Gerico. Sembra però che ci sia un cammino a ritroso.
Ricordiamo che Gesù sta andando a Gerusalemme, mentre l’evangelista dice che l’uomo va nella direzione opposta? Egli è un uomo che ha sbagliato strada.  
e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto.
Di quest’uomo poco importa la sua identità, ma viene detto del suo bisogno, della sua disavventura fino ad essere “mezzo morto”. L’espressione vuol dire evidentemente nel crinale tra la vita e la morte. Forse può vivere, forse morirà, è lì a metà; vive ma non possiede una vita sicura, chiara; rischia di morire: è in quella sottile linea di divisione tra la vita e la morte.
Quest’uomo è il dottore della legge – guarda, questo sei tu –; Gesù sta parlando di lui, sta rispondendo a lui. – La stessa cosa vale per ciascuno di noi che ci troviamo nella condizione di una strada opposta, sbagliata. Gesù dice: vedi, tu ti trovi in questa condizione, sei quel tale che ha sbagliato strada, ma non è per forza colpa tua: ci sono i briganti in giro per il mondo, e poi comunque è così, poi scivoli, poi ti ammali, ti trovi imbrigliato in situazioni insopportabili e non ti puoi più sollevare.
vv. 31-32: Per caso un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre.
Di fronte alla carità a volte anche noi ci facciamo dei falsi alibi, persino rivestiti di una giustificazione religiosa, come è successo al sacerdote e al levita “incastrati” da una mentalità chiusa in se stessa, non possono aiutarlo per ragioni di purezza rituale poiché essi devono astenersi dal toccare il sangue. Qui ci sta una contrapposizione del servizio religioso/liturgico e il culto all’esercizio della carità. Questi non si accorgono che il culto a Dio è riferito alla comunione con Dio e con gli uomini: culto e carità sono un segno, che in modo diverso costruisce l’unica comunione.
I due evitano il ferito; non si conosce il motivo, l’Evangelista non lo descrive forse addirittura per obbedienza alla Legge: se infatti il ferito fosse già morto, toccarlo significherebbe cadere in una forma di impurità che la Legge ebraica vietava.
La parabola contesta le false alternative tra Dio e l’uomo, tra azione e contemplazione, tra preghiera e impegno. Pur nella diversità delle vocazioni l’armonia tra parola e gesto deve sempre essere presente. Ci deve essere equilibrio tra il momento in cui si riconosce la priorità e l’assolutezza di Dio nel culto e nella contemplazione orante e il momento in cui questa assolutezza si fa carne e storia nel riconoscimento dell’altro.
Anche noi "passiamo oltre" quando la necessità della vita cristiana è solo un ripiegamento su di sé, o la religione è solo uno strumento di affermazione, o ancora quando il nostro servizio è solo una forma di gratificazione che non ha stabilità, che è solo efficientismo dato da uno schema ma ci allontana dall’amore.
Proseguendo sulla nostra strada evitiamo la sfida della carità che chiede di istruirci sul mistero di Dio e sul nostro rapporto con gli altri.
vv. 33-34: Invece un Samaritano, che era in viaggio
Qui inizia la svolta della parabola: è passato un sacerdote, è passato un levita, ora passa un terzo personaggio e uno istintivamente si aspetterebbe un’altra persona religiosa o appartenente a qualche congrega, e invece tocca a uno straniero, un nemico dei giudei: un samaritano, uno di fede imperfetta, impuro, scismatico, eretico. I samaritani non appartenevano neppure pienamente al popolo di Dio, eppure proprio un samaritano riconosce l’uomo nel bisogno e si china su di lui. Gesù presentando un samaritano, vuole rovesciare la mentalità per poter entrare nella visione di un amore senza barriere, un amore che rassomiglia a quello di Dio.
Il Samaritano era in viaggio: questo è il viaggio nel senso forte del termine. Il salmo 84 dice: “Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio”. È il viaggio della salita a Gerusalemme. E qui c’è un samaritano, unico, che va controcorrente, che sale. Il Samaritano rappresenta Gesù, è lui il viandante che sale a Gerusalemme. È lui il custode (= Samaritano) di Israele (Sal 121,4).
passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione.
In greco, il verbo “si commosse” è il medesimo con cui si indica la commozione profonda di Gesù a Nain o quella del padre del figlio prodigo nel vedere il figlio tornare a casa. Ecco l’essenziale: chi soccorre il povero si è identificato con l’atteggiamento di Gesù e di Dio, ha capito chi è Dio.
Il Samaritano gli si fece vicino. “Chi viene vicino a me?” dicevamo prima. Solo chi è capace di “fare misericordia” si fa vicino.
Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 
Sono i gesti di compassione e di vicinanza del samaritano. Il provare profonda emozione, il chinarsi, il portare in braccio, il curare e fasciare le ferite ricordano alcuni indimenticabili passi di Osea sull’amore di Dio verso Israele. L’amore di Dio è il cuore della legge, ma amarlo vuol dire lasciarsi plasmare da Lui fino a far diventare la propria vita una trasparente immagine del chinarsi misericordioso di Dio sulle sue creature.
v. 35: Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno».
Anche in questo versetto ricordiamo i gesti dell’azione divina. C’è un sovrappiù della carità di Gesù: egli pensa anche al dopo. C’è una caparra e c’è una promessa. Si apre lo spazio e il tempo della nostra libertà in attesa del suo ritorno. È questo il tempo della nostra carità, della possibilità che ci è data di ritrascrivere la figura del buon samaritano. Il riferimento è alla carità pasquale di Gesù, nella consapevolezza che la "differenza" della carità di Gesù non è un freno ma è la sorgente della nostra missione.
Tutte le forme, piccole o grandi, in cui molti esprimono la loro dedizione, sia nel gesto volontario, sia nella dedizione con cui svolgono il loro lavoro quotidiano, sono frammenti preziosi che alludono all’insuperabile ricchezza del gesto pasquale. Bisogna quindi saper guardare con gli occhi e il cuore di Dio per riconoscere il bisogno e il bisognoso, e fermarsi per servirli. Siamo chiamati a riconoscere l’origine del nostro agire: il nostro operare si fonda nella carità di Dio, che vuole che ogni uomo viva una vita piena. Per questo occorre che l’uomo sia strappato al suo bisogno e sia posto nella condizione di scegliere liberamente per il bene.
v. 36: Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?».  
Gesù ha capovolto dunque la domanda iniziale: la questione vera non è chi è il prossimo, ma chi si è fatto prossimo. Spinge il dottore della legge a partire da un preciso punto di osservazione: a partire dalla situazione dello sventurato. La prossimità non è una situazione, una persona, un fatto ma è una relazione da istituire. Trovare il prossimo significa farsi prossimo, leggere e scegliere i tempi, i momenti, le persone della carità.
Il dottore della legge viene invitato a prendere posizione a sua volta, ma non dalla parte di chi può fare del bene, bensì di chi è nella sventura. Solo dopo potrà operare da prossimo. Solo così ci si introduce seriamente nel concetto di prossimità. Non si può definire il prossimo a partire da sé stessi.
Gesù fa notare che la carità non è solo un fare ma è un capire, è scegliere: ci vuole una intelligenza della carità. La carità chiede testa e cuore, chiede di comprendere le cause senza fermarsi solo a tamponare gli effetti. Ci vuole quindi una carità che comprende, che non dà tutto oggi, perché anche il domani ha bisogno di te.
v. 37: Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui».
La parola compassione (patire con) non è l'elemosina di chi è qualcosa verso chi non è nessuno, ma è il vivere insieme la passione per la vita. Infatti, la sua etimologia ci spinge a sentire dispiacere o male altrui, quasi li soffrissimo noi. La versione Vulgata traduce per noi con il termine “misericordia”. Infatti, la parola è intesa come un profondo amore verso chi soffre e verso chi è più debole. Questo però non è un do ut des ma riflette l’ordine spirituale voluto da Dio stesso: attraverso la misericordia che manifestiamo verso gli altri, si manifesta e si sperimenta l’amore di Dio.
Gesù gli disse: «Va' e anche tu fa' così».
L’esperto della Legge questo l’ha inteso bene! Gesù, quindi, conferma la sua risposta e lo invita a fare altrettanto. La carità è missione, è invio, è un riprendere le orme di Cristo Gesù nella quotidianità. Per fare questo Gesù chiede tempo, vuole disponibilità totale, spinge a lavorare ad un progetto comune, ad entrare in una storia, in una stabilità di vita. Questa è la vita eterna: fare lo stesso tragitto che ha scritto Gesù, abitare il luogo della nostra infermità.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Rileggendo questa Parola, dove mi colloco?
Come il dottore della legge, sono alla ricerca della vita eterna? Come la ricerco?
Faccio il cammino a ritroso oppure con Gesù verso Gerusalemme?
Qual è la qualità del mio amore verso Dio e verso il prossimo? In quali azioni concrete si manifesta?
Sento anche io passione per la vita avendo lo sguardo misericordioso di Gesù che supera ogni confine?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
La legge del Signore è perfetta,
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
 
I precetti del Signore sono retti,
fanno gioire il cuore;
il comando del Signore è limpido,
illumina gli occhi.
 
Il timore del Signore è puro,
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
 
Più preziosi dell’oro,
di molto oro fino,
più dolci del miele
e di un favo stillante (Sal 18).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Abbandoniamoci all’azione dello Spirito Santo per aderire col cuore e la mente al Signore che con la sua Parola ci trasforma in persone nuove che compiono sempre il Suo volere facendosi prossimo. "Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica" (Gv 13, 17).

martedì 1 luglio 2025

LECTIO: XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 10,1-12.17-20

 
Invocare
O Dio, che nella vocazione battesimale ci chiami ad essere pienamente disponibili all'annunzio del tuo regno, donaci il coraggio apostolico e la libertà evangelica, perché rendiamo presente in ogni ambiente di vita la tua parola di amore e di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. 2Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! 3Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; 4non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
5In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. 6Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. 7Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.
8Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, 9guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. 10Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: 11“Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. 12Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città».
17I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome». 18Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. 19Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. 20Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Ci troviamo durante il viaggio di Gesù verso Gerusalemme. Gesù aveva già inviato i Dodici (Lc 9,1-6). Tale invio ha prefigurato l’invio degli apostoli al popolo di Israele. L’invio dei 70/72 prefigura la missione universale di tutta la Chiesa. Questa prospettiva universale della missione può essere colta grazie alla presenza nel brano di alcuni elementi caratteristici:
- l’immagine della messe abbondante (v. 2): nell’AT è immagine del giudizio finale di Dio su tutti i popoli.
- il ricordo delle città di Sodoma (v. 12), città simbolo dei pagani.
- il numero simbolico di 70 o 72. Esso può riferirsi a Gn 10: l’elenco dei popoli, la discendenza dei figli di Noè. Il loro numero (70 per la Bibbia masoretica, 72 per la Bibbia dei LXX) simbolizza il mondo pagano. Oppure può provenire da Nm 11,24-30: Dio ha dato lo spirito profetico ai 70 anziani scelti da Mosè, ma anche a due uomini che erano rimasti nell’accampamento, in totale dunque 72 uomini.
Viene dunque prefigurata la missione post-pasquale, quando la vicinanza del Regno sarà proclamata a tutti i popoli, senza eccezione. E di questa missione vengono indicate le caratteristiche fondamentali. Anzitutto è una missione apportatrice di bene: entrando in una casa i discepoli devono augurare la pace e cioè la pienezza dei beni messianici; entrando in una città essi devono annunciare il regno di Dio con le opere (guarendo i malati) e con le parole. Viene offerta a tutti gli uomini la salvezza di Dio; è necessario però rendersi conto della gravità che un eventuale rifiuto riveste.
Seguiranno poi due brani molto importanti sulle caratteristiche del discepolo: la carità verso il prossimo (il buon Samaritano, Lc 10,25-37), ma una carità che si fondi sull'ascolto della Parola di Dio (Marta e Maria, Lc 10,38-42).
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: Dopo questi fatti il Signore designò altri settantadue
I fatti a cui Luca si allaccia sono gli insegnamenti riguardanti la sequela di Gesù. Ora, dopo l’insegnamento, l’ascolto della Parola di Dio segue l’invio.
L'iniziativa della chiamata e dell'invio è del Signore, padrone della messe; ai discepoli corrisponde la disponibilità nella risposta. Questo significa che l’uomo non è gettato nella vita per andare verso la morte, ma è chiamato per nome; Dio manda per lui dei messaggeri per portargli la sua parola.
I settantadue rappresentano le nazioni pagane in Genesi 10 (70 nel testo ebraico chiamato “masoretico” 72 nella Greca “settanta”); nella chiesa primitiva simboleggia l'universalità. In questo Vangelo possiamo vedere la vocazione alla missione consegnata da parte di Gesù, tutti siamo chiamati all'annuncio del Regno. C'è infatti una missione a cui il Signore incarica altri discepoli che non sono gli Apostoli e che rimane valida grazie all'opera dello Spirito.
e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi.
Gesù li manda due a due, rappresentando la comunità. La missione non è individuale ma di aiuto reciproco, comunitaria. L’andare a due a due era un modo di difendersi e di aiutarsi in caso di pericolo. Essere in due è essere in comunione almeno con un'altra persona, perché la testimonianza sia credibile (cf. Dt 19,15). Così andarono Pietro e Giovanni (At 3-4; 8,14); Barnaba e Saulo, inviati dalla comunità di Antiochia (At 13,1-4). L'annuncio del Vangelo non è lasciato all'inventiva solitaria, ma è opera di una comunità di credenti. Sia pure piccola, come nel caso dei genitori, primi educatori della fede dei loro figli. L'impegno di annunciare il Vangelo assieme ad altri non è solo una questione di maggiore efficacia, ma perché il farlo assieme è espressione di comunione e garanzia della presenza del Signore: «Dove sono due o tre lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Inoltre, sono portatori del messaggio di un'altra persona; non sono proprietari o protagonisti, sono precursori di Qualcuno che è più importante, che verrà dopo, per la cui venuta essi devono preparare le menti e i cuori dei destinatari, che sono su tutta la faccia della terra.
v. 2: Diceva loro: La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai.
L'immagine del campo pronto per la mietitura era legata alle profezie apocalittiche (cf. Gl 4,13 e Is 27,12). Le messi mature indicano le nazioni che si dovranno sottoporre al giudizio di Dio. Egli manda i suoi angeli per raccogliere Israele o i popoli come frutto maturo. In Luca questa interpretazione si allarga: le messi sono le nazioni a cui portare il Vangelo: esse sono innumerevoli mentre gli evangelizzatori non sono mai sufficienti.
Oggi la situazione è la stessa di ieri. Le sfide della missione variano, in parte, secondo i tempi e i luoghi, ma nella sostanza sono ugualmente esigenti. E quindi valgono anche oggi le stesse soluzioni che Gesù proponeva allora.
Gli operai, dice Gesù, sono pochi. Non dice i battezzati sono pochi ma gli operai. Una attestazione per dire che non tutti i battezzati seguono il Vangelo, non sono missionari: non sono cristiani che cercano di vivere la propria vita con la speranza e lo sguardo che viene fuori dalla Parola.
Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!
La prima azione dei discepoli è la preghiera. Bisogna pregare, perché la missione non può venire dalla decisione degli uomini. I missionari hanno bisogno di forza e fiducia in Dio perché tutto proviene da Dio e per Dio. Annunziare il Regno di Dio non significa annunziare una verità che io ho capito, ma vuol dire annunciare qualcosa che Dio compie e questo annuncio è legato a una missione del Signore.
La preghiera sta ad indicare che ci troviamo dentro al Regno della grazia e non al regno dell’autoaffermazione umana. È una preghiera che porta a compimento, realizza il desiderio di Gesù, un desiderio legato alla sua compassione. Dobbiamo pregare il padrone della messe, il Padre, perché ci siano persone che pongano mano alla messe che è Gesù. Gli operai sono chiamati ad essere mandati alla messe, cioè al Cristo. Questa è la prospettiva di ogni discepolo.
v. 3: Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi
L’imperativo usato è un invio esplicito. Il Signore ci manda come “agnelli in mezzo ai lupi”, invia per una strada piena di pericoli, ostilità, violenza nei confronti dell’annuncio del Vangelo (i lupi), anticipando quello che sarà Lui in pienezza: vero agnello della vera Pasqua. Poiché la missione non è facile, bisogna essere preparati anche al fallimento; i missionari devono essere attenti e consapevoli delle proprie debolezze e fragilità e sapere dove si trova la loro forza.
Ai discepoli indifesi, Gesù chiede di essere come Lui, rivestiti solo di Lui. L’agnello richiama l’Agnello pasquale e il servo sofferente che porta il peccato del mondo: il Crocifisso.
v. 4: Non portate borsa, né sacca, né sandali
Qui iniziano delle indicazioni per uno stile di vita. Esse sono del tutto simili a quelle che Gesù aveva già dato agli apostoli in Lc 9,1-6. Lo stile della missione deve essere libertà e distacco. Le modalità della missione sono già missione. Non è solo importante il fine: i mezzi sono importanti almeno quanto il fine. C’è un modo di andare che dice che abbiamo raccolto Cristo, nostra messe, che è l’andare come agnelli in mezzo ai lupi, senza che ci sia una garanzia. Le vicende della guerra ci hanno insegnato che siamo poco inclini, in quanto Chiesa, ad assumere la condizione degli agnelli. Il discepolo deve affidarsi alla Provvidenza e alla generosità di quanti incontrerà.
Tra i divieti vi è anche quello di portare i sandali, ciò vuol indicare un servizio umile e disinteressato.
Non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada.
Il non fermarsi significa che non si deve perdere tempo con le cose che non appartengono alla missione. È possibile che sia un'evocazione dell'episodio della morte del figlio della sunammita, dove Eliseo dice all'impiegato: "Parti! Se qualcuno ti saluta, non rispondergli" (2Re 4,29), perché si trattava di un caso di morte. Luca vuole raccomandare il non farsi distrarre dall'impegno missionario. Annunciare la Buona Novella di Dio è un caso di vita o di morte!
vv. 5-6: In qualunque casa entriate, prima dite: Pace a questa casa.
I discepoli di Gesù quello che possono portare con loro è solo la pace. Ciò significa che devono confidare nell'ospitalità della gente. Così il discepolo che va senza nulla portando appena la pace, mostra che ha fiducia nella gente. Il dono della pace (lo Shalom) nel senso biblico più completo, per le persone e le famiglie. È un impegno solenne e positivo, che solo può compiere chi si presenta come un agnello. La pace è il dono messianico per eccellenza; Gesù l'ha già donata a qualcuno, soprattutto nel dono del perdono; e, nella sua passione, egli diventerà «la nostra pace», quando ci riconcilierà definitivamente con il Padre. La pace è il dono e il saluto privilegiato del Risorto. Dopo la sua risurrezione, salutare con il saluto della pace non è un continuare la pur sempre lodevole abitudine del tempo, ma significa comunicare e augurare la salvezza, la riconciliazione con Dio e tra gli uomini. Il discepolo è essenzialmente un portatore di pace, un costruttore di pace.
Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi.
L’espressione semitica «figlio della pace» ha diversi significati: uomo pacifico, aperto alla pace, destinato alla pace. Il saluto di «pace» appare come una realtà salvifica capace, se viene accolta, di ottenere effetti concreti nella vita della casa, di rendere efficace in essa la forza del Regno annunciato da Gesù (vedi l’episodio di Zaccheo Lc 19,1-10). Questa pace è la password per aprire anche le serrature più arrugginite. E non va sprecata e tanto meno vanificata, al punto che Gesù precisa “altrimenti tornerà a voi”. La «vostra» pace è quindi quel dono salvifico di Gesù che i messaggeri sono incaricati di portare. Essa «riposerà»: verbo che nell’AT è utilizzato per parlare dello Spirito di Dio (Nm 11,25; 2Re 2,15).
vv. 7-8: Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa
I discepoli non devono andare di casa in casa, ma rimanere nella stessa casa. Cioè, devono convivere in modo stabile, partecipare nella vita e nel lavoro della gente del luogo e vivere di ciò che ricevono in cambio, perché l'operaio merita il suo salario.
Il "diritto alla ricompensa" è un elemento che è entrato in un secondo momento e riflette le esigenze dei predicatori del Vangelo del primo secolo. Ne è portavoce autorevole Paolo (es. 1Cor 9,14).
Il valore comunitario della convivenza fraterna prevale sull'osservanza delle norme rituali. Agendo così, criticavano le leggi della purezza che erano in vigore, ed annunciavano un nuovo accesso alla purezza, all'intimità con Dio.
Non passate da una casa all’altra.
Questo secondo imperativo vuole impedire al discepolo di dare l'impressione di essere un incostante o di ricercare comodità che non possono dargli i primi che l'hanno accolto. Eppure, sono questi i più degni di fare della loro casa, in quella città, il centro di diffusione del messaggio. Non possono essere privati di questo loro bene. Ed è con loro che si condivide anche il cibo.
Questi versetti corrispondono però anche alla visione di Luca, per il quale la vera meta dell’attività missionaria è la città. Per lui, la casa rimane l’alloggio base degli evangelizzatori, e la ripetizione della regola sul mangiare si riferisce ai vv. 5-7 e quindi alla funzione della casa nella prospettiva della predicazione nella città.
vv. 8-9: Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto
A partire da questo versetto, l’attenzione si rivolge alla città come luogo della missione. Dalla casa si passa alla città. Il fatto che all’accoglienza è legata subito al cibo può essere un indizio che questo fosse uno dei problemi più grossi per i predicatori del Vangelo dei primi tempi. Inoltre, faceva parte della predicazione anche l'essere un "buon ospite". L'invito a mangiare quanto verrà offerto, indica che le città potranno essere anche città pagane e che quindi non si attenevano alle regole alimentari degli ebrei.
Guarite i malati che vi si trovano
Accanto all'annuncio del Vangelo c'è anche la cura degli ammalati. Nelle guarigioni Luca vede il segno della vicinanza del Regno di Dio come salvezza: l’uomo riceve la sua integrità umana.
I discepoli devono occuparsi dei malati, curare i lebbrosi e cacciare i demoni (cf. Mt 10,8). Questo significa che devono accogliere dal di dentro della comunità coloro che da essa furono esclusi.
La pratica della solidarietà critica la società che esclude una persona dal resto della comunità. E così si recupera l'antica tradizione profetica del «goêl». Fin dai tempi più antichi la forza del clan o della comunità si rivelava nella difesa dei valori della persona, della famiglia e della possessione della terra, e concretamente si manifestava ogni “sette volte sette anni” nella celebrazione dell'anno giubilare (Lv 25,8-55; Dt 15,1-18).
dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”.
Per la prima volta Luca riporta la formula «il Regno di Dio è vicino a voi», sintesi dell’annuncio centrale di Gesù (cf. Mc 1,15). Riguardo al significato originale, il problema è di conoscere il senso esatto del verbo eggizein, che normalmente significa «avvicinarsi», ma che, al perfetto, può acquistare la sfumatura di una prossimità immediata, di una vicinanza tale da diventare presenza. Il Regno di Dio è vicino perché Gesù è vicino. È la prossimità del Signore, del Risorto, grazie all’annuncio dei suoi missionari. I messaggeri annunciano la forza salvifica del Regno presente nella loro attività che è quella del Risorto.
Annunciare il Regno non è in primo luogo insegnare verità e dottrine, ma portare le persone ad un nuovo modo di vivere e di convivere, ad un nuovo modo di agire e di pensare, partendo dalla Buona Novella che Gesù ci annuncia: Dio è Padre, e quindi noi siamo fratelli e sorelle gli uni degli altri.
vv. 10-11: Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze
Qui viene contemplata la possibilità di un rifiuto. Gesù, come ha detto ai dodici, comanda ancora una volta di scuotere la polvere dai piedi, mettendo tutti di fronte alle proprie responsabilità.
E dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”.
Il gesto dello scuotere la polvere dai piedi lo compiva ogni pio israelita quando varcava il confine di ritorno da paesi pagani. Questo significava che egli non voleva portare con sé niente di quelle terre impure. Lo scuotere la polvere di una città che non aveva accolto la Parola era dunque un gesto forte che indicava il rifiuto di qualsiasi comunione ulteriore. In Marco questo gesto doveva essere compiuto uscendo dalla città ostile, mentre per Luca questo andava fatto nella piazza con alcune parole che giustificavano il gesto. Ciò sottolinea la gravità dell'atteggiamento di rifiuto da parte dei cittadini e poteva essere un gesto estremo per una ulteriore conversione.
v. 12: Io vi dico che, in quel giorno, Sodoma sarà trattata meno duramente di quella città».
Quanto sia urgente il messaggio si percepisce anche dal fatto che è forte la condanna per coloro che non intendono accettarlo, essi sono considerati peggiori dei famigerati peccatori di Sodoma (Gn 19). Si noti però che si dice che ciò avverrà nel giorno del giudizio, non adesso: al rifiuto non segue immediatamente il castigo, la condanna; Dio continua ad offrire tempo ai peccatori per convertirsi.
Il valore escatologico dell’annuncio di Gesù viene trasferito sulla missione dei suoi messaggeri: anche il loro annuncio ha carattere escatologico, e quindi le città che rifiutano la loro proclamazione sono minacciate dal medesimo giudizio di quelle che hanno respinto Gesù.
Il rifiuto dei messaggeri è seguito da una parola di giudizio che funge da legame tra Lc 10,10-11 e Lc 10,13-15. Più che un senso di vendetta contro le città che non accolgono il Vangelo, è un mettere in luce la serietà della decisione richiesta dinanzi all’annuncio della venuta del Regno di Dio; comunque esiste qualche tensione con l’insegnamento emerso in Lc 9,51-56.
v. 17: I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demoni si sottomettono a noi nel tuo nome».
Saltiamo alcuni versetti per riprendere il mandato dei 72 discepoli. Non sappiamo cosa sia successo durante la missione, qui Luca descrive il ritorno pieno di gioia a seguito di un grande successo missionario.
Il successo missionario è descritto come sottomissione dei demoni, La Parola di Dio, infatti, libera gli uomini dal male. La lotta con i demoni, infatti, si compie nel nome di Gesù. Soprattutto negli Atti si vedrà la potenza di questo nome. Inoltre, implica l’estendersi del tempo della salvezza come tempo di gioia alle nazioni.
La sottomissione dei demoni può destare meraviglia a questo punto, poiché i discepoli erano stati inviati a guarire e predicare. L’accenno al potere di espellere i demoni si legge solo all’invio dei Dodici. Questo può suggerire che non c’è distinzione di poteri tra i Dodici e i Settantadue nel campo della missione. Questo potere sui demoni mostra che Luca vede la missione come confronto con le forze sataniche del male, una liberazione dell’uomo che si trova sotto tale potere significato dalle malattie.
v. 18: Egli disse loro: Vedevo Satana cadere dal cielo come folgore.
Perché Satana cadde dal cielo? Satana cadde a causa dell’orgoglio. Egli desiderò essere Dio, piuttosto che essere un servo di Dio. La caduta di Satana dal cielo è descritta in maniera simbolica in Is 14,12 ed Ez 28,12-18. Mentre questi due passi si riferiscono specificamente ai due re di Babilonia e di Tiro, si riferiscono anche al potere spirituale dietro quei re, chiamati Satana. Il fatto che Satana cade dal cielo lo troviamo anche in Genesi e nel libro di Giobbe e va messo in prospettiva escatologica.
Con l’annuncio della vicinanza del Regno di Dio, Satana ha perso il potere di accusatore nei confronti di Israele: Dio offre di nuovo e in modo definitivo la sua grazia salvifica al popolo. La caduta di Satana è già una realtà: l’agire salvifico di Dio è all’opera, il suo Regno è già presente e tende con tutta forza verso il pieno compimento. Quando gli eserciti di Dio marciano nel nome di Gesù, Satana non ha il potere di fermare quella marcia vittoriosa: la volontà di Dio viene fatta, il nemico è in fuga e nulla può fermare i propositi dell’Altissimo.
v. 19: Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi.
Satana, serpenti, scorpioni, rappresentano tutto ciò che si vuole opporre al bene. Con questo versetto Luca pone l’attenzione sulla protezione ricevuta: gli evangelizzatori non camminano sui serpenti e gli scorpioni per schiacciarli come un nemico vinto, ma possono camminare sopra queste bestie pericolose senza danno, senza essere vittime dei loro morsi. La protezione divina dei discepoli si estende anche contro le numerose e varie manifestazioni nocive – seduzioni e tormenti – che Satana può recare all’uomo, e che i messaggeri dovranno affrontare: avranno da Dio il potere di superarle. La protezione divina è un annuncio che l’amore e il perdono costruisce rispetto all’odio e allo sfruttamento, smontando così il mondo del male.
v. 20: Non rallegratevi però perché i demoni si sottomettono a voi
È la gioia legittima di chi vede i frutti della sua attività, e i settantadue, avevano visto i demoni sottomettersi a loro, che predicavano ed operavano nel nome di Cristo; un entusiasmo che dava loro coraggio e li riempiva di esultanza. Da qui l’invito prezioso che Gesù rivolge ai discepoli è un invito a non rallegrarsi del potere che possono esercitare. L’orientamento è ai cieli. Il segno di una Chiesa orientata al cielo è una Chiesa che non gioisce del potere che ha, ma è una Chiesa che si sa al servizio.
C’è una gioia più profonda e sicura che proviene dall’essere amati e scelti da Dio. Una priorità data alla salvezza individuale e un orientamento all’essenziale, che prepara le esortazioni della seconda parte del capitolo (vv. 25-42). La gioia vera, quella profonda, duratura, inalterabile e che niente e nessuno potrà mai intaccare, non viene, infatti, dalle mutevoli vicende temporali, ma nasce dall'eterna comunione col Dio che salva.
rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli.
Il profeta Isaia già aveva messo in rilievo come la missione del profeta sia strettamente legata al piano di Dio. È lui che per mezzo nostro consola, restituisce la gioia della vita, nutre, fa crescere, rende la società prospera e la fa vivere in pace. È sempre la paternità e fecondità di Dio che siamo portati a trasmettere. San Paolo osa dire, da Apostolo, che il missionario porta in sé le stigmate, i segni di riconoscimento di Gesù Crocifisso (Gal 6,17), del dono, della Missione di Cristo, il solo missionario che fa della vita nostra partecipazione alla sua missione.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Come vivo l’incontro con Gesù, Parola eterna del Padre? Come leggo gli eventi della vita alla luce della Parola?
Mi sento inviato da Gesù ad annunciare la Parola con le parole ma anche con la testimonianza di vita?
Come potrei tradurre nella mia vita la testimonianza del Vangelo «senza borsa, bisaccia e sandali»?
Che cosa significa per me oggi che il “regno di Dio” è vicino?
Sento la gioia di appartenere a Cristo? Che cosa mi rallegra di più?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Acclamate Dio, voi tutti della terra,
cantate la gloria del suo nome,
dategli gloria con la lode.
Dite a Dio: «Terribili sono le tue opere!».
 
«A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome».
Venite e vedete le opere di Dio,
terribile nel suo agire sugli uomini.
 
Egli cambiò il mare in terraferma;
passarono a piedi il fiume:
per questo in lui esultiamo di gioia.
Con la sua forza domina in eterno.
 
Venite, ascoltate, voi tutti che temete Dio,
e narrerò quanto per me ha fatto.
Sia benedetto Dio,
che non ha respinto la mia preghiera,
non mi ha negato la sua misericordia. (Sal 65).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Abbandoniamoci all’azione dello Spirito Santo per ritrovare lo stupore dell’ascolto della Parola di Dio che giunge ai nostri orecchi attraverso l’inviato di Dio. C’è una parola di Dio per te! Dare all’uomo il vangelo significa dargli il motivo fondamentale per cui vivere, significa dargli la forza e l’energia per superare i tanti momenti di avvilimento, di stanchezza, di fatica che inevitabilmente stanno dentro alla nostra vita.