Lectio divina su Mt 25,14-30
O Padre, che affidi alle mani dell’uomo tutti i beni della creazione e della grazia, fa’ che la nostra buona volontà moltiplichi i frutti della tua provvidenza; rendici sempre operosi e vigilanti in attesa del tuo giorno, nella speranza di sentirci chiamare servi buoni e fedeli, e così entrare nella gioia del tuo regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
La “Parabola dei Talenti” (Mt 25,14-30) fa parte del 5º Sermone della Nuova Legge (Mt 24,1 a 25,46) e si colloca tra la parabola delle Dieci vergini (Mt 25,1-13) e la parabola del Giudizio finale (Mt 25,31-46). Queste tre parabole chiariscono il concetto relativo al tempo dell'avvento del Regno. La parabola delle Dieci vergini insiste sulla vigilanza: il Regno di Dio può giungere da un momento all'altro. La parabola dei talenti orienta sulla crescita del Regno: il Regno cresce quando usiamo i doni ricevuti per servire. La parabola del Giudizio finale insegna come prendere possesso del Regno: il Regno è accolto, quando accogliamo i piccoli. La parabola delle vergini si conclude con un invito a vegliare. Il versetto seguente (inizio del vangelo di oggi), riprende: “Come infatti”. Ci deve essere un nesso tra le due cose, tra l’invito a vegliare e la parabola così introdotta. Che cosa significa “vegliare”? La parabola precedente conteneva già una risposta: sapersi equipaggiare per un tempo lungo. Ma da essa appariva già chiaro che “vegliare” non è solo stare svegli durante la notte: tutte quelle vergini si sono addormentate e questo non è un fatto che venga censurato. “Come infatti” allora vegliare? Matteo continua a porsi lo stesso problema anche nella parabola dei talenti, e la sua risposta è questa volta che la vigilanza deve ispirare le nostre occupazioni quotidiane.
v. 14: Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio
La pericope evangelica inizia con una partenza e una consegna. La storia della salvezza ha spesso fatto riferimento a dei viaggi: il viaggio di Abramo (cfr. Gen 11,23-25,10), il viaggio di Mosè (cfr. Es 2-20) con il suo popolo, il viaggio di Gesù a Gerusalemme (cfr. Lc 9,51-18,14). Tutto ciò che siamo non ci deve fare dimenticare che se abbiamo dei doni li abbiamo in virtù di quei viaggi che nella Scrittura sono viaggi di salvezza. È il modo in cui prima di tutto Dio, e poi il suo popolo, ci descrivono cosa è racchiuso in quei doni che lui ci ha fatto. In tutto questo ci sta un senso di responsabilità dei cristiani. Il viaggio, deve servire per un maggiore impegno a servire con fedeltà il Signore.
chiamò i suoi servi
Il viaggio del padrone è legato alla chiamata. Sembra rivivere il riposo di Dio al termine della creazione dell’uomo. Egli riposa perché lo ha creato a sua immagine e somiglianza; l’uomo è l’unico a cui può affidare la terra in cui l’ha posto. L’uomo, quindi, è l’amministratore che gode della fiducia di Dio e Dio, ora, può riposarsi.
È nel riposo di Dio che nasce la chiamata e il servizio. In esso esprimiamo in modo sommo ciò che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso Gerusalemme. In fondo, rispetto al viaggio che Gesù ha compiuto, la nostra fedeltà per la nostra condizione di servi è ben poca cosa. Ma è una realtà alla quale il Signore affida un valore immenso se vissuto nella consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
e consegnò loro i suoi beni.
Il beneficiario dei beni vive la condizione di servo. Il servizio è la realtà nella quale esprimiamo in modo sommo ciò che Cristo ha compiuto nel suo viaggio verso Gerusalemme.
L’inizio della vita è la consegna di un patrimonio da parte di Dio a noi. Quel patrimonio non ce lo siamo del tutto meritato ed in fondo non appartiene del tutto a noi, perché della vita non possiamo fare ciò che vogliamo; essa appartiene al Signore ed è un dono che il Signore ci fa, un valore immenso se vissuto nella consapevolezza che tutto dovrà essere a lui reso.
Il patrimonio qui è descritto in talenti. Un talento corrispondeva a seimila denari ed il denaro che era la retribuzione di un giorno di lavoro. Un talento erano seimila giornate lavorative.
Gesù usa questa unità di misura per illustrare qualcosa circa la ricchezza che Dio riversa negli uomini.
v. 15: A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno
In questo versetto si nota con chiarezza che la distribuzione non è uguale per tutti. Tuttavia nel Vangelo il Signore non si sofferma su quanti talenti posseggo.
Quei talenti rappresentano una varietà di doni e l’evangelista ne sottolinea le qualità umane legate alla persona: le specifiche capacità che poi saranno sviluppate nel tempo e che si trasformeranno anche in abilità particolari.
Il “talento” non è una moneta, ma è una misura di peso (argento o oro), da un peso che va dai 30 ai 37 Kg (non abbiamo un valore preciso); più che una moneta corrente era una specie di lingotto rotondo, per grosse operazioni finanziarie.
Il termine usato per dire “capacità” è “dynamin” che significa: “a ciascuno secondo quanto può fare”. È il talento che mette in condizione le persone di essere valorizzate. Il carisma non si sostituisce alla persona, ma si incarna. In fondo, è il dono di essere figlio che dà al figlio di essere figlio, se così si può dire, applicandolo a Gesù. Il termine dynamis è il termine usato a proposito dell’azione dello Spirito nella Chiesa, la sua potenza. Il dono non si sostituisce alla persona. Proverei a pensare a una Chiesa nella quale la presenza dei cristiani è presenza preziosa perché è la presenza di coloro che vengono resi, per il dono dello Spirito Santo, capaci. La capacità è legata al dono dello Spirito. Ecco allora l’importanza del discernimento dei doni dello Spirito. La dynamin, allora, è quella capacità non intesa come capienza, ma come quella condizione che, in virtù del carisma, mette in atto ciò che è, realizza ciò che è. Allora non ci stupiremmo più del poter mettere in atto la parola da parte dei poveri, se è vero questo.
vv. 16-17: Subito colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque.
La parola «subito» è molto importante ed ha un valore temporale (indica immediatezza, puntualità), e un valore modale (manifesta l’energia, la decisione, la scioltezza con le quali il servo agisce): ha risposto con prontezza alle attese del padrone. Inoltre, la parola «subito» indica che questo servo agisce coi talenti come avrebbe agito con i propri averi. Non agisce come un servo che si accontenta di eseguire ordini, ma come un servo intelligente che pensa a cosa fare in ogni circostanza per far fruttare i beni del padrone, sapendo che la propria situazione migliorerà se migliora quella del padrone. Più che come un servo, si comporta come un socio, come uno stretto collaboratore del padrone. Questo servo è quasi un alter ego del padrone, però non ne approfitta per arricchirsi alle spalle del padrone. L’iniziativa del servo rende fruttuoso il capitale che gli è stato consegnato e lo raddoppia. Il racconto non specifica come abbia raggiunto questo obiettivo, perché si tratta di un particolare secondario alla dinamica del brano. Basta sapere che ha messo a frutto intelligenza e buona volontà, dinamismo e intraprendenza, partecipando in modo personale al raggiungimento del nuovo capitale.
Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due.
Allo stesso modo anche il secondo servo: ha ricevuto di meno, ma anche lui si mobilita immediatamente e riesce a raddoppiare il capitale iniziale, raggiungendo lo stesso obiettivo del primo. Il testo non indica nemmeno per questo servo come ha fatto fruttare i talenti e ha conseguito il guadagno.
v. 18: Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone.
Ben diversa è la posizione presa dal terzo servo che costituisce la variante del racconto: con lui il meccanismo si inceppa e non riesce a raddoppiare il capitale semplicemente perché non ci ha nemmeno provato. Ha seguito una strada che può sembrare apparentemente logica: quella di conservare il denaro. In antico nascondere il denaro sotto terra era il modo più indicato per metterlo al sicuro contro i ladri, secondo un detto rabbinico: «Il denaro non può essere custodito con sicurezza se non sotto terra». Chi sotterrava il denaro era considerato esente da responsabilità, mentre chi avvolgeva nella stoffa il denaro affidatogli era ritenuto responsabile della sua eventuale perdita (vedi Lc 19,20).
Il confronto con gli altri due servi blocca ogni tentativo di giustificazione del terzo. Rappresenta l’uomo ingessato, statico, in opposizione al dinamismo dei primi due. Sono in contrasto due atteggiamenti: il fare e il non fare.
Una lettura spirituale può farci considerare che il talento di quest’ultimo servo, per lui non era altro un peso che il padrone gli metteva sulle spalle, una responsabilità pesante da portare e che non avrebbe prodotto per lui nessun vantaggio, perché quel talento era del padrone e se lo moltiplicava, lo moltiplicava per lui. Che interesse ha a fare questo? Nessuno. Allora questo servo diventa fannullone e non si impegna perché non gli interessa fare piacere al padrone; è convinto che il Signore, il padrone, quel talento non glielo ha dato per amore, glielo ha dato per interesse. E si può vedere la vita anche così. Si può vedere la vita come un atto di fiducia nei nostri confronti, ma si può vedere anche solo come un peso che ci è stato messo sulle spalle e nel quale non c’è niente da guadagnare; semplicemente siamo costretti a sopportare una sofferenza che non ci piace e che non ha risultati.
v. 19: Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro.
La frase porta avanti il motivo del «ritardo» che si trova nelle precedenti parabole (vedi Mt 24,48; 25,5). Questo, più il riferimento al «padrone» (kyrios) e al regolamento dei conti, fa della parabola un’anticipazione del giudizio finale. Nel quadro dell’escatologia generale questo lungo «tempo» va dall’ascensione al ritorno finale del Cristo (cfr. At 1,11); nel quadro invece dell’escatologia individuale, che è quello prevalente nella parabola, esso corrisponde al corso della vita di ciascun uomo, che per l’individuo rappresenta senz’altro un tempo «lungo».
vv. 20-23: Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque». «Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due». «Bene, servo buono e fedele - gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone».
Viene intavolato un dialogo che mette in luce quanto è stato fatto e le motivazioni che hanno spinto i servi ad agire. Entrambi dicono la stessa cosa, anche se i risultati sono differenti in base ai talenti. I servi si rivolgono al padrone, lo chiamano «Signore» e gli dicono che il tempo passato per loro è stato un tempo fruttuoso. Usano i verbi «mi hai consegnato» e «ho guadagnato»: il primo verbo esprime la fiducia del padrone e il secondo verbo esprime la loro risposta fedele e laboriosa. Il rischio e la fiducia del padrone hanno avuto esito positivo. Per entrambi risuona lo stesso compiacimento del padrone che si trasforma in premio (materiale e spirituale): «sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto»; «nel gaudio del tuo Signore».
La differenza tra i due e i cinque talenti non incide minimamente sul premio. Entrambi hanno risposto alla fiducia del padrone col massimo delle loro capacità e perciò sono trattati allo stesso modo, è premiato egualmente. Ciò esclude ogni forma di ingiustizia nella distribuzione iniziale e conferma che l’uguaglianza non si stabilisce in base a un puro calcolo matematico, ma in base al rispetto della forza delle singole persone, che sono però ritenute tutte capaci di condividere la gioia del padrone.
Il padrone parla di fedeltà «nel poco»: cinque e due talenti non sono poco, perché corrispondono a quaranta e a cento anni di lavoro. Se questo viene definito «poco» dal padrone, che poi si impegna a dare loro potere su «molto», vuol dire che la nuova ricchezza deve essere davvero faraonica. Non è importante quantificarla, perché il «molto» serve alla trama narrativa della parabola per creare un vistoso contrasto tra ciò che è stato compiuto dai servi (il «poco») e la ricompensa data dal padrone (il «molto»). La fedeltà è ripagata con la condivisione della vita divina, un entrare nella perfetta filiazione.
Se uno vuole trasformare la propria vita, deve partire non con un atteggiamento di paura verso Dio, ma con un atteggiamento di fiducia, deve essere convinto che il Signore lo ami, deve restituire amore per amore. È l’amore che ci porterà a fare ciò che piace a Dio, che ci spingerà a trasformare la nostra vita secondo una forma che sia corrispondente al progetto di Dio.
Il terzo servo mette allo scoperto i suoi sentimenti e dice cose diverse rispetto ai primi due, perché ha avuto un comportamento diverso.
Egli inizia attaccando il suo padrone e fornendone un quadro molto scuro. Non dice come ha saputo che il padrone è così, ma lo dà per certo. La consegna del talento è giudicata negativamente: non è ritenuta un atto di fiducia da parte del padrone, ma una sua voglia di arricchirsi, utilizzando la fatica degli altri. Il servo non riesce a percepire il dono che gli è stato fatto, l’opportunità che gli è stata data di esprimere se stesso e le sue qualità, di dimostrare la sua gratitudine e di rispondere efficacemente alla fiducia accordatagli. È sintomatico che dopo l’appellativo «Signore» non compaia il verbo «mi hai consegnato» col quale i primi due servi esprimevano la certezza di essere stimati dal padrone. Il talento ricevuto non lo porta a pensare che il padrone ha fiducia in lui, ma vede quel talento solo come un valore da restituire a un padrone severo e di conseguenza pensa che il vantaggio del suo agire sarebbe tutto e solo del padrone.
Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo».
Il terzo servo confida di aver agito per paura: paura della durezza e della severità del suo padrone. È sempre la natura del rapporto con il Signore che determina il comportamento quotidiano.
Questa paura non è il timore positivo, il rispetto fiducioso del servo per il padrone, ma è un legame servile, schiavistico. Il servo non intende correre rischi, non vuole avere responsabilità e mette al sicuro il denaro sotto terra: gli investimenti infatti sono sempre rischiosi; si crede giusto e sdebitato, quando, secondo i dettami della giurisprudenza di allora, può restituire al padrone tutto il denaro che ha sotterrato.
Questo servo si presenta paralizzato (dalla paura): bloccato negli slanci del cuore e nelle iniziative della mente, riduce al minimo i rapporti.
vv. 26-27: Il padrone gli rispose: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l'interesse.
A questa “paralisi”, il padrone risponde duramente. Il padrone osserva la malvagità legata alla pigrizia. Il terzo servo ha deluso le speranze che aveva riposte in lui. Anche lui era cosciente del rischio, ma contava sulla diligenza fedele e laboriosa del suo servo. La sua pigrizia è la ragione unica per cui il talento che gli aveva affidato è rimasto improduttivo.
Con il severo giudizio di malvagità dato al servo «pigro» Gesù vuol far comprendere che cattivo non è solo chi fa il male, ma anche chi non fa il bene.
Il Signore ci ha reso capaci della dynamis, della potenza dello Spirito da mettere in atto perché possa fruttificare.
v. 29: Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell'abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha.
Il versetto riprende quanto viene espresso in Mt 13,12 ed è contraddistinto dall’uso del passivo divino o teologico. Questa massima probabilmente era a se stante, perché ricorre in altri passi del vangelo (cfr. Mt 13,12), ma è messa qui per sottolineare la logica responsabilizzante con la quale opera il padrone e per sottolineare la prospettiva religiosa del narratore.
Con questo versetto il racconto mette in scena il protagonista, cioè Dio, ma senza nominarlo esplicitamente: è con Lui che devono confrontarsi tutti i servi. A chi ha ricevuto i suoi doni e li ha accolti, perché attraverso essi crede nel donatore, sarà dato: per queste persone il dono si moltiplica. A chi ha ricevuto i suoi doni, ma non li ha accolti, perché non crede nella fiducia del donatore, sarà tolto anche quello che ha: non ha fatto proprio il dono, ma lo ha messo sotto terra; non ha fatto proprie le sue capacità: quindi nei confronti di questi doni non resta da fare altro che toglierglieli, confermando così la scelta e il comportamento di questo servo.
v. 30: E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti».
Alla fine giunge la punizione morale, quella più importante: la privazione della comunione con il padrone come per le vergini stolte (cfr. Mt 25,13). Alla gioia condivisa dai primi dei servi con il padrone fa da contrappunto l’isolamento del terzo servo, gettato fuori, lontano dalla intimità. Con una espressione cara a Matteo si usa il linguaggio della sofferenza per indicare la condanna eterna: «nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 8,12). La perdizione del terzo servo è descritta coi termini popolari del tempo (tenebre, pianto e stridore di denti): non è il caso di trarre da questo testo informazioni su come è fatto l’inferno, ma piuttosto di trarre lezioni di vita per il presente. È drammatico che questo servo è punito non tanto per quello che ha fatto, ma per quello che non ha fatto, pensando in modo sbagliato del suo padrone. Si ripete quanto era stato detto nella parabola delle dieci vergini, che possono entrare alle nozze solo in un determinato tempo. Chi è trovato senza olio perché non pensava che lo sposo potesse tardare, o chi arriva tardi, ne resta escluso.
Quando ci si chiude in se stessi per paura di perdere il poco che si ha si perde perfino quel poco che si ha, perché l'amore muore, la giustizia si indebolisce, la condivisione sparisce. Invece la persona che non pensa a sé e si dona agli altri, cresce e riceve sorprendentemente tutto ciò che ha dato e molto di più. “Perché chi vorrà salvare la propria vita la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 10,39).
Riconosco di avere da Dio un talento? Come lo impiego?
Riconosco che anche l’altro ha un talento? Lo aiuto a conoscere e valorizzare?
Quei cinque o due o un talento che tu hai ricevuto, hai saputo amare il padrone e quindi usare i talenti per lui rispondendo alla sua fiducia e alla sua speranza?
Rimetto in Dio fiducia o rimango indifferente, sotto terra, nel peccato?
Cosa dice alla mia vita questa frase: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha?”
e cammina nelle sue vie.
Della fatica delle tue mani ti nutrirai,
sarai felice e avrai ogni bene.
nell’intimità della tua casa;
i tuoi figli come virgulti d’ulivo
intorno alla tua mensa.
l’uomo che teme il Signore.
Ti benedica il Signore da Sion.
Possa tu vedere il bene di Gerusalemme
tutti i giorni della tua vita! (Sal 127).