giovedì 31 dicembre 2020

LECTIO: II DOMENICA DI NATALE Anno B

 Lectio divina su Gv 1,1-18

Invocare
Padre di eterna gloria, che nel tuo unico Figlio ci hai scelti e amati prima della creazione del mondo e in lui, sapienza incarnata, sei venuto a piantare in mezzo a noi la tua tenda, illuminaci con il tuo Spirito, perché accogliendo il mistero del tuo amore, pregustiamo la gioia che ci attende, come figli ed eredi del regno. 
Per Cristo nostro unico Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1 In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5 la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l'hanno vinta. 6 Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7 Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8 Non era lui la luce, ma doveva dare testimonianza alla luce. 9 Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10 Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11 Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto.
12 A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13 i quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14 E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità. 15 Giovanni gli dà testimonianza e proclama: «Era di lui che io dissi: Colui che viene dopo di me è avanti a me, perché era prima di me». 16 Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia. 17 Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 18 Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Il Quarto Vangelo si apre con questo straordinario brano poetico, definito un inno alla Parola di Dio che si rivela e opera nel mondo. È una sintesi meditativa di tutto il mistero del natale, perché il bambino di Betlemme è la rivelazione di Dio, la verità di Dio e dell'uomo, e riflettendo su questo evento siamo in grado di capire chi è colui che nato e chi siamo noi.
Il prologo di Giovanni è diverso dagli altri prologhi del N.T. (Lc 1,1-4; Mc 1,1-13; At 1,1-2) per il suo carattere innico-teologico. Si pensa che il redattore del quarto Vangelo abbia utilizzato un preesistente inno cristologico al Lògos incarnato. Proprie dell’Evangelista sarebbero le aggiunte. Questi adattamenti appaiono evidenti nei vv. 6-8 e 15, che preannunciano il ruolo storico-teologico di Giovanni Battista, e nei vv. 12c-13, che sviluppano con terminologia tipica del redattore il v. 12ab.
Il prologo, con un movimento parabolico, descrive la missione teologica del Lògos incarnato. Una sintesi di questo movimento di pensiero possiamo trovarlo in Gv 16,28: “Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio il mondo e vado al Padre”; e ancora prima in Is 55,10-11.
I primi tredici versetti, che costituiscono la prima parte dell’inno, ci presentano il Verbo dalla sua origine: siamo nell’ambito della relazione tra le Persone Divine. La Parola di Dio, ad un certo momento, entra in contatto col mondo, con l’umanità, e cioè con noi, incarnandosi. Tale evento viene cantato in una irruzione di gioia al versetto 14, in cui comincia la seconda parte del Prologo (vv. 14-18). Tuttavia questo dono di Dio, totalmente gratuito, molti non lo vedono o lo rifiutano. Ci sono però anche coloro che se ne accorgono e lo accettano. 
Per mezzo dell’accoglienza del Verbo è possibile diventare figli di Dio: la «buona novella» della figliolanza divina si trova proprio al centro dell’inno (vv. 12-13).

Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 
“In principio” (en archè), così inizia il Vangelo di Giovanni, riconducendoci all'AT dove i temi di creazione, di luce e tenebre sono ripresi dalla Genesi (1,1). Questo non è, come nella Genesi, il principio della creazione, perché la creazione viene nel v. 3. Il “principio” si riferisce piuttosto al periodo prima della creazione ed è una designazione, più qualitativa che temporale della sfera di Dio.
Nelle parole “era il Verbo”, troviamo l’affermazione di un’esistenza che precede questo inizio: fin da questo principio «esisteva» il Verbo. Parlando di preesistenza, san Tommaso spiega nella Summa Teologica che si vuole esprimere metaforicamente la verità che il Verbo è Dio. L’autore del quarto Vangelo sembra collegarsi a entrambe le tradizioni bibliche: Cristo è la Parola definitiva e la manifestazione perfetta della Sapienza. La definizione di Verbo per la persona di Gesù è specifica degli scritti giovannei che la contengono sia in forma assoluta (Gv 1, 1.14) sia con delle specificazioni (Verbo della vita in 1Gv, 1, 1 e Verbo di Dio in Ap 19,13). Giovanni riformula l’identità del Verbo alla luce di categorie veterotestamentarie.
«Verbo»: è la «Parola», cioè il mezzo attraverso il quale ci si esprime. Nell’ambiente filosofico greco, il termine indica la «parola che porta un senso», che lo svela pienamente. Nell’ambiente giudaico, la parola «dabar» rivela l’essenza stessa di Dio. 
La preposizione greca pròs esprime l’idea di innanzi, presso, in relazione a e viene usata per indicare l’esistenza del Logos in relazione a Dio. Si può intendere: Era in compagnia di Dio (dando a pròs un senso statico); oppure: Era verso Dio, cioè in relazione con Dio (in questo caso si conserva a pròs il suo senso di moto). La TOB fa uso di questa seconda traduzione.
Nella formulazione originale “pròs tòn thèon” l’articolo (tòn) specifica che si tratta del Padre. Il Verbo partecipa della sua vita come persona distinta orientata a lui.
In queste pochissime parole Giovanni descrive un accenno al mistero della relazione Padre-Figlio, nell’unicità di Dio. Theòs én o’ logos: l’uso di theòs, senza articolo, esprime la partecipazione alla natura divina. Il Logos possiede la natura divina pur non essendo il solo ad averla.
v. 2: Egli era, in principio, presso Dio. 
Con la ripresa dell’espressione «in principio» l’attenzione viene orientata nuovamente verso la creazione. Giovanni ripetendo che il «Verbo era presso Dio» sembra voler sottolineare che l’atteggiamento fondamentale del Verbo, il suo essere verso Dio, dovrà servire da modello rispetto a tutto ciò che nascerà mediante la «Parola».
v. 3: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. 
Dopo aver presentato il Verbo nella sua relazione immediata con Dio, ora lo sguardo è concentrato sulla relazione del Verbo con il mondo. Già l’AT collegava la creazione del mondo alla parola di Dio o alla sapienza divina. Tutta l’attività creatrice è opera del Padre e del Figlio.
L’evangelista afferma che tutto avviene per mezzo del Verbo, l’evangelista vuole dire anche che tutto mediante il Verbo prende senso.
Le parole greche “senza di Lui” possono avere il senso “al di fuori di Lui”. L’idea è analoga a quella riportata in Gv 15,5: “senza di me potete fare neppure una cosa”. Ciò che in seguito si dice in riferimento alla salvezza, qui si afferma in relazione alla stessa esistenza. Attraverso quest’espressione negativa viene rafforzato il pensiero precedente. Il mondo sia fisico che umano riflette Dio Padre in quanto è fatto secondo il Figlio di Dio incarnato, che è appunto l’immagine di Dio. In questo riflesso è racchiusa l’armonia e la bellezza del creato.
v. 4: In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini. 
In questo versetto, il prologo comincia a descrivere il rapporto tra Lògos e umanità. È importante collegare questo versetto con quanto detto prima: dopo aver dichiarato la presenza efficace del Verbo in tutto ciò che è stato fatto, l’opera del Verbo viene ora caratterizzata dal dono della vita.
Possiamo tradurre questo versetto così: Ciò che aveva avuto origine in lui (nel Verbo) era vita. La vita di cui Giovanni parla nel suo vangelo non è semplicemente quella fisica (biòs), ma una vita qualitativamente superiore e piena («zōē»). In altri passi del Vangelo viene anche identificata con Gesù stesso.
L’uso del termine “luce” era uno dei modi consueti per designare nell’ambiente giudaico la Legge di Mosè. La legge come luce è norma che guida la condotta dell’uomo (cfr. Sal 119,105; Sap 8,4; Nm 6,25). Il detto di Giovanni: “la vita era la luce degli uomini” inverte la concezione rabbinica, che avrebbe menzionato la frase all’inverso: la luce (la legge) è la vita dell’uomo.
Il Verbo, entrando in rapporto con gli uomini, manifesta ciò che egli è per essi, cioè la luce, di conseguenza, risplende come luce di vita. Grazie al Verbo gli uomini vedono la luce che li guida alla pienezza della vita. Qui sono anticipate le parole di Gesù: «Io sono la luce del mondo, chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita» (Gv 8,12).
v. 5: La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta. 
Tutta la frase è uno sguardo complessivo sull’opera del Verbo e dei suoi avversari. Giovanni medita sulla luce che è il Verbo nella sua funzione d’illuminare tutta l’umanità che giace nelle tenebre.
Con il termine “tenebra” s’intende prima di tutto il mondo degli uomini lontano da Dio, cioè non ancora illuminato dalla luce divina. Una traduzione di “tenebra”, in linguaggio esistenziale, potrebbe essere il disorientamento interiore, cioè quando si è confusi e non si sa dove e come andare. Tale disorientamento può diventare un sistema di vita, fino ad arrivare a non sapere più il vero perché delle cose, lasciandosi così trascinare dagli impulsi e dalle situazioni. Giovanni con queste poche parole, ci consegna un messaggio fondamentale: il non riconoscere Gesù fatto uomo fra noi, come senso ultimo della realtà, che dà valore ad ogni cosa è a tutti gli effetti un essere nelle tenebre, senza alcun punto di riferimento.
In questo versetto, abbiamo due poli antitetici: luce-vita e tenebra-morte. L’opera di Dio in Gesù darà all’uomo la possibilità di uscire dalla tenebra in cui si trova e di passare alla zona della luce-vita. La luce è l’ambito dell’amore di Dio; e chi vi entra riceve il dono di questo amore (1,16).
Malgrado i suoi sforzi, la tenebra non è riuscita a estinguere la luce, che, nel Vangelo di Giovanni si identifica con Gesù: “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12a); è lui l’alternativa alla tenebra: “chi segue me non cammina nelle tenebre” (Gv 8,12b).
vv. 6-8: Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. 
In questi versetti viene introdotta la persona del Battista e dice: “ci fu” (letteralmente). Questo non è l’én usato per la creazione nei vv. 3-4: Giovanni Battista è una creatura. Questa nota sul Battista ci fa scendere dal mondo soprannaturale e divino all’universo umano (“ci fu un uomo”).
Presentare la figura storica di Giovanni subito prima dell’attività pubblica di Gesù è usuale nella predicazione primitiva. Qui si parla di Lui come uno che ha ricevuto una missione profetica. L’Evangelista fa di questo personaggio il primo grande “testimone” di Gesù-luce.
La differenza di tonalità colpisce il lettore ed è possibile che questo passo su Giovanni (come pure il versetto 15) sia stato introdotto più tardi per dissuadere i discepoli di Giovanni dal mettere questo grande profeta sullo stesso piano di Gesù. Tra i due c’è una differenza radicale che separa “colui che era fin dal principio, rivolto verso Dio” da quest’uomo, che è venuto da parte di Dio per essere testimone. Il Battista è un testimone della luce, ma non la luce stessa. Giovanni rende solo testimonianza alla luce davanti alle autorità giudaiche (1,19-34), davanti al popolo d’Israele (1, 31-34) e davanti ai propri discepoli (1, 35-37). L’ultima volta che Giovanni è menzionato nel vangelo, è quando viene elogiato per essere stato un testimone fedele: “Tutto ciò che egli disse di Gesù era vero” (Gv 10,41).
L’evangelista stima così tanto il Battista che parla di lui come l’intermediario autorizzato fra il Verbo e l’umanità. Nell’antichità la testimonianza era un gesto con il quale ci si poneva come difensori e garanti di una causa, totalmente disponibile a subire le conseguenze di una presa di posizione.
Giovanni Battista deve testimoniare che colui che Israele attendeva era presente. Giovanni sa che Costui gli è superiore in dignità (1,27).
Giovanni diventa «figura» di tutti i testimoni che nel corso della storia hanno ricevuto la missione di testimoniare nel mondo la presenza della luce divina: la sua figura e il suo messaggio assumono una portata universale.
v. 9: Veniva nel mondo la luce vera. 
Con questa versetto inizia un nuovo quadro della storia di Dio e della sua manifestazione, attraverso la rivelazione del Verbo, nella concretezza dell’incontro fra il Verbo-Luce e gli uomini.
Abbiamo qui l'aggettivo “vero” che tornerà spesso nel vangelo: vero pane (6,32), vera bevanda (6,55), vera vita (15,1). Nell’uso ebraico, “vero”, caratterizza in primo luogo l’ordine divino (cfr. 7,28; 17,3), che viene contraddistinto dall’illusione e dalla fallacia dell’ordine dell’uomo peccatore (cfr. Rm 3,4). Così Giovanni afferma che soltanto nella rivelazione avvenuta in Gesù, attraverso la sua Parola e il suo operare, viene data a tutti gli uomini l’autentica comprensione della loro esistenza. Il Verbo è qui qualificato come «luce vera».
La posizione del Verbo è precisata non solo nei confronti di Giovanni, che era soltanto il testimone della luce, ma anche nei confronti di tutte le false luci che sarebbero apparse nel mondo: esse non sono altro che ingannevoli idoli, mentre solo il Dio vivente è veritiero.
La Parola di Dio «illumina ogni uomo»: con questa espressione Giovanni si riferisce a ciascuno uomo nella sua singolarità: il Verbo viene incontro a ciascun uomo nello scorrere del tempo.
v. 10: Egli era nel mondo...
Il Verbo era nel mondo: una presenza che è conseguente a quanto detto nel v. 9 (il mondo fu creato mediante il Verbo). Cos’è questo «Mondo»? («kosmos»): è un termine molto importante; per tre volte viene ripetuto nei versetti 10-11, ma con sfumature diverse. Inizialmente Giovanni parla del mondo nel senso di «universo» creato da Dio, come era nel pensiero dei greci.
Nella citazione successiva il termine allude non solo all’universo fisico, ma include il «mondo umano». In questi due riferimenti il mondo è usato in un senso decisamente positivo. Nel terzo riferimento si parla del mondo umano con un contenuto negativo, in quanto si allude al mondo sottomesso al potere delle tenebre e ostile alla missione e all’opera salvifica di Cristo.
In pratica ogni singolo uomo è posto nella condizione di accettare o meno la luce. L’accoglienza della luce, mediante la fede, porta la vita divina e la salvezza. Il «mondo» diventa «peccatore» soltanto dal momento in cui rifiuta la rivelazione di Cristo e non riconosce la gratuità del dono di Dio.
Non viene data nessuna giustificazione del rifiuto di questa luce: c’è solo la costatazione del suo rigetto. L’affermazione del fallimento dell’incontro fra il Verbo e gli uomini non contraddice ciò che è stato dichiarato precedentemente, cioè che le tenebre non hanno arrestato la luce: all’evangelista interessa sottolineare il paradosso del rifiuto che la creatura oppone al suo Creatore.
v. 11: Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto. 
La TOB traduce: “È venuto nella sua proprietà, in casa propria…”. Verosimilmente Israele rappresenta storicamente l’umanità che tutta intera appartiene al Creatore. Il Verbo è venuto nella “sua proprietà”.
Il termine sottolinea una relazione speciale fra due individui o fra una persona e un gruppo. Possiamo richiamare alla mente le allusioni di Gesù circa la relazione che unisce il pastore alle sue pecore, per indicare il rapporto generato tra Lui stesso e i suoi discepoli. 
Qui viene riportata una nota dolente. Giovanni sembra che voglia ricordare il comportamento del popolo eletto, che si mostra particolarmente infedele.
v. 12: A quanti però l`hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome… 
Diventare figli di Dio implica una capacità che viene da Dio. È riferito agli uomini che hanno riconosciuto nel Verbo il principio della loro esistenza e il senso della loro storia, lasciandosi illuminare da lui. La formula è stata applicata frequentemente a Gesù Cristo nel NT; è un’espressione tipica dell’AT che si riferisce a Dio.
Tutti i termini in questo versetto hanno rilevanza. “Ha dato”: si tratta di un dono del Verbo all’uomo. “Potere”: il potere che dona a coloro che credono evidentemente non può trattarsi di una facoltà autonoma, come se il credente divenisse capace di procurarsi da sé lo stato di figlio di Dio. Possiamo sottolineare la dignità che comporta il divenire figli di Dio.
Nell’AT l’espressione “figli di Dio” è usata normalmente al singolare. Da principio viene applicata esclusivamente al re oppure a Israele, in quanto popolo eletto, per indicare il legame particolare di protezione e di benevolenza che unisce a Dio chi è designato come suo «figlio». In questo passo i figli di Dio sono tutti gli uomini che credono in Dio, Israeliti o no.
In questa frase: “diventare figli di Dio”, è contenuto un principio che dominerà tutto il Vangelo: Dio non si sostituisce all’uomo, ma lo abilita a sviluppare la propria attività. Lo abilita facendo si che nasca di nuovo (1,3; 3,3) per la comunicazione del suo Spirito (cfr. Gv 3,5ss), dandogli così una qualità di vita che potenzia il suo essere e gli permette di svilupparlo fino a realizzare in sé il progetto creatore.
v. 13: i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 
L’uomo non diviene figlio di Dio con la procreazione carnale, come ci ricordano le parole del Battista: «Dio può suscitare da queste pietre dei figli ad Abramo» (Gv 8,37-39). E non avviene neppure in forza di un «volere della carne», cioè in forza del desiderio che ha la creatura mortale di sopravvivere alla morte attraverso la propria discendenza.
Possiamo pensare che c’è coincidenza tra l’azione dell’uomo che «accoglie» il Verbo e quella di Dio che «genera». Queste due azioni formano una cosa sola, nella diversità dei rispettivi ruoli. È importante tenere presente il passo precedente dove si diceva che il Verbo illumina ogni uomo. Ora infatti sappiamo che questa illuminazione, nella misura in cui viene accolta, produce la filiazione divina. Ora, la figliolanza divina è opera esclusiva di Dio. Attraverso le espressioni seguenti il ritmo dell’inno si costruisce in un crescendo. Con la triplice contrapposizione si vuole esaltare la grandiosità del fatto di nascere da Dio.
v. 14: E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. 
La parola “Carne” (in greco sàrx) definisce l’uomo nella sua condizione di debolezza e di destino mortale. È intenzionalmente evidenziato il contrasto tra Lògos, nella sua condizione divina e la sàrx, nella sua condizione umana. Colui che esisteva da tutta l’eternità è entrato nel tempo e nella storia umana. Questo è il mistero dell’Incarnazione per cui la Parola eterna assunse la nostra identica natura umana, divenendo in tutto simile a noi, fatta eccezione per il peccato (Eb 4,15). Cioè in tutto, escluso ciò che era incomprensibile con la divinità.
Dice l’Evangelista: “Si fece” e non “divenne”, perché non avvenne una trasformazione, ma, rimanendo il Lògos che era, cominciò a vivere nella sua nuova condizione debole e temporale. Il progetto divino si è realizzato in una esistenza umana; la pienezza della vita splende in un uomo, è visibile, accessibile, palpabile (cfr. 1Gv 1,1-3). Per la prima volta si manifesta quale sia la meta della creazione di Dio: portare l’uomo alla condizione divina.
Per esprimere questo mistero (“e venne ad abitare”), Giovanni ha deliberatamente scelto l’immagine biblica della tenda: “Ha posto la sua tenda in mezzo a noi”. Il Lògos si accampò, piantò la sua tenda. Il vocabolo evoca la tenda (skenè) del deserto (Es 25, 8-9) costruita perché Dio potesse “abitare in mezzo a loro”.
Il tempio di pietra di Sion (come si dirà esplicitamente in Gv 2,18-22) è ora sostituito dalla “carne” di Gesù, cioè dalla sua corporeità e dalla sua esistenza storica che condivide con noi. La tenda richiama anche il tema della Sapienza che ebbe l’ordine: “Fissa la tenda in Giacobbe” (Sir 24,8).
La “carne” del Lògos è indicata come il nuovo tabernacolo, quello della Nuova Alleanza. In Ap 21,35 anche la situazione finale è descritta con espressioni simili: “Dio abiterà (si accamperà) nella nuova Gerusalemme”. “Abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come di unigenito del Padre…”.
Nell’AT si chiamava “gloria di JHWH” lo splendore della presenza divina. Appariva in particolare sul Santuario o Tenda; durante la sua inaugurazione, essa si riempì della gloria di Dio (cfr. Es 40,34-38; 1Re 8,10ss).
“Pieno di grazia e di verità”. La frase è una traduzione diretta di Es 34,6, dove Dio proclama come suoi tali attributi, che servono da base all’Alleanza.
A partire dal v. 14 la parola “Verbo” sparisce dal Vangelo. Ora che Giovanni ha definitivamente raggiunto il punto culminante della sua introduzione parlando della Parola divenuta carne, non la chiama più la Parola ma Gesù: il Vangelo è una testimonianza non alla Parola eterna ma alla Parola fatta carne, Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
v. 15: Giovanni gli rende testimonianza e grida: "Ecco l`uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me". 
Questo versetto riprende la testimonianza di Giovanni Battista, la cui missione nei confronti della luce è stata descritta nella prima parte del prologo. Adesso la sua testimonianza viene proclamata.
Inoltre, si ribadisce il primato di Cristo che è “prima” di lui, anche se venuto cronologicamente “dopo” di lui nella storia umana. Si esalta poi la missione del Figlio di Dio presso l’umanità. Egli offre all’uomo soprattutto “la grazia e la verità". La missione della Parola nel mondo fu precisamente quella di porre gli uomini in grado di divenire figli di Dio, partecipi cioè della vita divina.
v. 16: Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. 
Tutti noi partecipiamo alla pienezza di grazia, propria dell’Unigenito di Dio. “Noi tutti”: non si vuole escludere nessuno. Questa è un’affermazione giubilante di tutti quelli che hanno creduto in Cristo e perciò hanno la capacità di crescere nella loro realtà di figli di Dio.
“Grazia su grazia”. (Charis antì charitos): tradotto anche: “Amore in luogo di amore”; questa idea di sostituzione, come è stata sostenuta dai Padri greci, significa implicitamente la hesed di una nuova alleanza in luogo della hesed del Sinai.
Indica un’esperienza vissuta e cioè la capacità di ricevere dalla sovrabbondanza di Dio benevolenza-amore. Si vuole sottolineare non tanto un succedersi nel tempo cioè “grazia dopo grazia” quanto piuttosto un aumento in intensità: si tratterebbe di un accumulo di grazie, che rivela la continuità dell’azione di Dio nella storia.
v. 17: Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. 
In questo versetto, vengono messe a confronto l’azione di Mosè e quella di Gesù in ordine alla salvezza. Anche se l’evangelista non si oppone alla legge, tuttavia sottolinea un certo contrasto. La legge da una parte e la grazia e la verità dall’altra sono doni e, poiché il Lògos è da sempre presente nel mondo, tutto ci è venuto da Lui.
La “Legge”, come parte integrante dell’alleanza, è tutto il complesso di istruzioni che Dio ha consegnato al suo popolo nell’Antico Testamento. La Legge si capisce come una benedizione di Dio: una guida per la vita e l’indicazione di una via. La grazia e la verità vengono abbinate come dono proprio dell’unigenito del Padre, Gesù Cristo stesso, fondatore della nuova alleanza, rivelazione del Padre.
Mosè e Gesù Cristo sono posti in parallelo: al dono della legge corrisponde il dono della verità in Gesù Cristo. Questa verità supera la legge, che è soltanto una sua manifestazione incompleta. Per Giovanni la Legge è già un dono di Dio, una grazia che si espande al mondo intero, tuttavia egli sottolinea la profondità della verità rivelata da Cristo: “in” e “mediante” Gesù Cristo, Figlio unico, Dio si rivela come Padre.
v. 18: Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato. 
In tutte le esperienze religiose anche dell’AT, troviamo il desiderio di vedere Dio faccia a faccia, ma, salvo eccezioni, quest’aspirazione deve attendere il cielo per potersi realizzare. Giovanni evidenzia che Cristo permette di superare l’impossibilità di vedere Dio.
Il mediatore di questo accesso alla gloria è Gesù Cristo, il Figlio Unigenito. “Unigenito” non soltanto per sottolineare che Gesù è lo stesso Figlio unico di Dio, ma anche che è lo stesso Verbo incarnato (1,1). Giovanni aggiunge che l’Unigenito è lui stesso «Dio»: Dio solo può parlare di Dio, in quanto “nel seno del Padre”. L’espressione sottolinea non solo la tenerezza e l’intimità dell’amore tra il Padre e il Figlio, ma anche la finalità del rapporto: «il Figlio unico è rivolto verso il cuore del Padre». Possiamo notare che, come nel v. 14, il termine Dio viene sostituito da quello di Padre.
Soltanto il Figlio unigenito, che condivide senza limiti la vita del Padre, può condurre gli uomini alla conoscenza e alla vita. Con tutto ciò che è, che fa e che dice, Gesù sarà il rivelatore e l’espressione di Dio e si rivolgerà ai discepoli dicendo: Il Padre mio e il Padre vostro, il Dio mio e il Dio vostro (20,17).
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Le mie discussioni tengono sempre presente ciò che il Signore mi fa conoscere attraverso il Vangelo e la Sacra scrittura?
Riconosco in Gesù la piena manifestazione dell’amore del Padre? Lo ringrazio per questo?
Dio ha piantato la sua tenda in mezzo a noi. Lui vive tra le nostre case. Anche nel mio cuore?
Esco dai miei “nascondigli” per lasciarmi illuminare dalla Luce del Natale per poter rinascere in Dio e, diventare figlio nel Figlio, vivere ogni giorno il Natale?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Celebra il Signore, Gerusalemme,
loda il tuo Dio, Sion,
perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte,
in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli.
 
Egli mette pace nei tuoi confini
e ti sazia con fiore di frumento.
Manda sulla terra il suo messaggio:
la sua parola corre veloce.
 
Annuncia a Giacobbe la sua parola,
i suoi decreti e i suoi giudizi a Israele.
Così non ha fatto con nessun’altra nazione,
non ha fatto conoscere loro i suoi giudizi. (Sal 147).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Nel silenzio del cuore incontra il Signore, ricordando che il Signore ama parlare a bassa voce. Ripeti spesso e vivi questa Parola: il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi.