Lectio divina su Lc 6,39-45
La parola che risuona nella tua Chiesa, o Padre, come fonte di saggezza e norma di vita, ci aiuti a comprendere e ad amare i nostri fratelli, perché non diventiamo giudici presuntuosi e cattivi, ma operatori instancabili di bontà e di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.
In queste ultime domeniche Gesù ha presentato chi è il discepolo. Gesù si felicita con quanti hanno fatto propria la scelta di vivere le beatitudini, di ascoltare la Parola e metterla in pratica, di amare come il Padre ama, di amare sconfinando i propri orizzonti, di amare i propri nemici, di non cercare tornaconti. La via delle beatitudini o se vogliamo, la via della felicità appare strana ai nostri occhi ma l’amore è il cuore del Vangelo e noi possiamo rallegrarci nel Signore. In questo il Padre del cielo ama questo discepolo perché è misericordioso come Lui.
Il discorso continua. Ci troviamo nella terza parte del discorso della pianura (6,20-49) nella quale prima si caratterizzano i falsi maestri e poi segue l’ammonizione a guardarsi da loro.
Abbiamo davanti uno squarcio realistico sulla vita delle prime comunità cristiane. Realtà che viviamo tutt’oggi. Gesù, Parola incarnata del Padre, ci riporta nel bel mezzo dei problemi e delle tensioni delle prime chiese. Si evoca una situazione di crisi ecclesiale, di fraternità, di fede provocata da quanti “detentori” della Perfezione o del Verbo, pretendono di essere guida nella comunità a modo loro, tralasciando la Sapienza.
v. 39: Disse loro anche una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso?
La parabola che Gesù sta per raccontare è indirizzata ai discepoli e anche a un uditorio più allargato per mostrare alcune assurdità. Questi sono quelli che non riconoscono le proprie incapacità, i propri errori, eppure abitati dalla pretesa di voler insegnare agli altri.
Scribi e farisei peccavano di presunzione. Si arrogavano il diritto di essere “guide di ciechi” (cfr. Rm 2,19-20). Nel vangelo secondo Matteo Gesù ha avvertito questi “ciechi e guide di ciechi” (Mt 15,14; 23,16) e nel quarto vangelo è testimoniato un suo esteso insegnamento sulla cecità degli uomini religiosi, che non riconoscono di essere ciechi e dunque rimangono in una condizione di peccato, senza possibilità di conversione (cfr. Gv 9,39-41).
Attenzione il riferimento ai scribi e farisei in Matteo è chiaro mentre in Luca mancano i destinatari. In altra occasione Gesù ha parlato di cecità: nel racconto del cieco nato (cfr. Gv 9,39-41). Scribi e farisei, rifiutando Gesù, rifiutando la rivelazione di Dio Padre misericordioso, si ostinano nella loro cecità. Pertanto con la loro presunzione di guidare gli altri, si rendono responsabili del fallimento del loro cammino. Guai, infatti, se le guide non vedono i “segni dei tempi”, se sono ciechi di fronte a ciò che succede.
Il discepolo con la sua scelta di vita è chiamato ad aprire gli occhi ed essere luce del mondo. Devono incarnare l’immagine del Figlio di Dio e accompagnare gli altri verso la luce, verso il Padre misericordioso.
La doppia domanda retorica ha il compito di richiamare l’attenzione sulle ammonizioni che seguono.
v. 40: Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro.
In Mt 10,24s. questo versetto si trova nel contesto del discorso sulla missione e mette in rilievo che il discepolo non avrà una sorte migliore del maestro. La retta via si possiede e si segue quando il maestro ha la vista.
Luca qui però persegue un altro scopo: il discepolo non può superare il maestro ma deve corrispondere alla sua immagine. Nel mondo rabbinico, il discepolo impara non solo dalle parole del suo maestro ma vivendo accanto a lui. Qui abbiamo un vero e proprio richiamo alla formazione, dello stare alla scuola del Maestro. Il rapporto tra maestro e discepolo deve essere reciproco. L’umiltà occorre al maestro per far crescere il suo discepolo. L’umiltà occorre al discepolo nel riconoscere di avere un maestro vivendo tutte le esigenze del discepolato. San Filippo Neri ammoniva: “Non fate i maestri di spirito, e non pensate di convertire gli altri; ma pensate a regolare prima voi stessi!”.
vv. 41-42: Perché guardi la pagliuzza che è nell'occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: «Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio», mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio?
Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall'occhio del tuo fratello.
Gesù chiama queste persone “ipocrita”, cioè teatrante. Questi infatti impersonano (nella commedia greca si usano più maschere per poter interpretare) il Dio farisaico, un dio che scruta, prende nota degli errori altrui e poi ne chiede conto. Appare la pretesa di migliorare gli altri senza mettere in questione se stessi. C’è molta contraddizione e incapacità. Questa è una commedia che Dio non sopporta. Bisogna imparare a saper usare lo sguardo di Dio che è “luce e nel quale non ci sono tenebre” (1Gv 1,5).
vv. 43-44: Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d'altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo.
Dalla natura dell’albero dipende il tipo di frutto. Dal frutto, che raccogli, capisci di quale albero si tratti. Di quale frutto parliamo? Abitualmente la risposta la troviamo nelle opere. Qui i frutti sono i messaggi che i maestri cristiani annunciano. Il messaggio può essere sia bello che brutto.
L’albero bello è quello che stende i suoi rami verso la sorgente d’acqua che è la Parola di Dio. Se il frutto è la parola, Gesù invita ad affondare le radici della nostra vita nella Parola, perché il nostro frutto sia bello e la nostra vita gioiosa.
v. 45: L'uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l'uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda.
Un inno degli anni '60 dell'organizzazione statunitense Up With People dice che “dentro tutti quanti c’è del bene e c’è del mal. Ma in fondo a ogni cuore è nascosto un capital” (cfr. Pro 20,9; Qo 7,20). Il principio del bene e del male è ciò che c’è nel cuore. L’opera principale che l’uomo fa non sono le opere, sono le parole.
Tutti i nostri rapporti sono retti dalle parole. Le parole possono essere buone, possono essere cattive. Bisogna saper dimorare nella Verità per vivere come creatura di Dio pieni della misericordia di Dio che sempre ripete: non giudicate, non condannate, perché il primo peccato è nella parola, sempre.
Il cuore è come uno scrigno, un recipiente da cui traboccano le parole, quelle buone e quelle cattive. Il cuore buono fa uscire il bene. Il cuore cattivo fa uscire morte. Nello scrigno del nostro cuore ci sia un solo tesoro: la misericordia di Dio!
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
Sono tra quei ciechi che guidano la comunità, il gruppo, la famiglia?
Nella qualità del mio cuore sento di essere discepolo di Gesù?
Produciamo attenzione e dedizione misericordiosa? oppure giudizio, condanna, rifiuto, disprezzo?
Cosa c’è nello scrigno del mio cuore: la Sapienza del Padre del cielo o la sapienza degli uomini?
e cantare al tuo nome, o Altissimo,
annunciare al mattino il tuo amore,
la tua fedeltà lungo la notte.
crescerà come cedro del Libano;
piantati nella casa del Signore,
fioriranno negli atri del nostro Dio.
saranno verdi e rigogliosi,
per annunciare quanto è retto il Signore,
mia roccia: in lui non c’è malvagità (Sal 91).