Lectio
divina su Mc 10,17-30
O Dio, nostro Padre, che scruti i sentimenti e i pensieri dell’uomo, non c’è creatura che possa nascondersi davanti a te; penetra nei nostri cuori con la spada della tua parola, perché alla luce della tua sapienza possiamo valutare le cose terrene ed eterne, e diventare liberi e poveri per il tuo regno.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
Nella quinta parte del suo vangelo, nella quale mette in luce l’identità di Gesù nella prospettiva della sua imminente morte e risurrezione (8,27–10,52), Marco, continuando il tema precedente, colloca dopo il secondo annunzio della passione (cfr. 9,30-32), anche un brano riguardante “il posto che spetta ai beni di questo mondo nella vita del discepolo”, la sua eredità, il salvarsi.
Il testo messo alla riflessione è noto a tutti noi come definito dall’evangelista Matteo: “il giovane ricco”. L’evangelista Marco parla invece di un “uomo ricco”. In questo brano abbiamo una vocazione non accolta, un discepolo mancato di Gesù (vv. 17-22), a cui fanno seguito alcuni detti riguardanti anzitutto i pericoli delle ricchezze (vv- 23-27): tutti siamo troppo grandi per entrare nel Regno dei piccoli, facciamo fatica come i cammelli che tentano di passare per la cruna di un ago e poi in cerca di una ricompensa che scopriamo, amaramente, riservata per coloro che sanno distaccarsene (vv. 28-30).
Nel brano Gesù sottolinea l’importanza di saperci interrogare su come viviamo la nostra fede, su ciò su cui fondo la nostra vita e in particolare il nostro servizio, su ciò che crediamo, su ciò che ci salva e su ciò che può impedirci un servizio libero e generoso. In un certo senso, l’uomo del racconto delinea in negativo la figura del discepolo di Gesù. Ad ognuno la ricerca di quel polo positivo che apre le porte della vita.
v. 17: Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?».
Continua il cammino di Gesù verso Gerusalemme per consegnare se stesso e mentre è per la strada, evangelizza. La strada è il luogo di una semina infruttuosa (cfr. 4,26ss). La strada è il luogo della ferialità, dell’umanità.
Un tale, un uomo senza nome (più avanti sapremo che era ricco) va incontro a Lui. In realtà è sempre Dio che va incontro all’uomo. Quest’uomo corre verso Gesù in lui vi è un desiderio forte di incontrarlo e di non perdere quest’incontro. Il correre indica la corsa verso i precetti del Signore, quei precetti che allargano il cuore (cfr. Sal 119,32). Poi il tale si inginocchia: è un gesto molto forte, chi lo compie si sottomette completamente a colui davanti al quale il gesto viene compiuto.
L’evangelista Marco presenta solo due personaggi con questi atteggiamenti: l’indemoniato di Gerasa (5,6), cioè la persona posseduta da qualcosa di più forte di lui, prigioniero, e l’unico che si mette in ginocchio davanti a Gesù è il lebbroso (1,40), che veniva considerato un escluso da Dio.
Qui però non parliamo di miracoli ma di insegnamenti.
Cosa ha di inquieto quest’uomo? Ha un demonio dentro che lo tiene prigioniero, che lo isola dalla società, che lo angoscia.
L’uomo nella sua schiavitù chiede di non essere escluso dalla vita eterna. Lo fa chiamando Gesù “Maestro buono” perché in Gesù riconosce quella bontà unica che riposta solo in Dio.
vv. 18-19: Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo.
L’uomo con la sua domanda riconosce Gesù. Anzitutto lo chiama Maestro. Egli è una persona che si sente discepolo. Non solo, egli riconosce Gesù nella sua bontà, lo riconosce come Dio.
Gesù risponde ma in modo provocatorio e invita alla riflessione. Riconoscere Gesù come Dio non è una cosa semplice, ci vuole un lungo discernimento, un aver frequentato Dio.
Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre».
Gesù sembra di conoscere questa persona come un osservante della Legge e lo invita a trovare il senso in quello che già osserva.
Questo discernimento inizia proprio dalla Legge e Gesù dice che chiunque desidera nel suo cuore unirsi a Dio, mettersi in ascolto della sua Parola, vivere serenamente e felice deve osservare i comandamenti.
Nel brano però non abbiamo l’elenco delle 10 parole, ma una parte, quelli riguardanti il rapporto con il prossimo. In un capitolo più avanti a uno scriba che domanda a Gesù per tentarlo, qual è il comandamento della Legge, Gesù risponde diversamente, il comandamento è Ascolta Israele. Signore e nostro Dio è il Signore. Amerai il Signore Dio tuo con tutto quanto il tuo cuore, con tutta quanta la tua psiche, con tutta quanta la tua intelligenza, con tutti quanti i tuoi beni e il prossimo tuo come te stesso (Mc 12,29-31).
Gesù, quindi ha lasciato fuori esplicitamente il comando dell’amore di Dio, dell’amore del prossimo e dell’amore di se stesso, che è fondamentale perché chi non ama se stesso non ama nessuno.
v. 20: Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza».
L’uomo è stato sempre un buon osservatore delle 10 parole, qualcosa però non capisce. Il testo greco ci spiega cosa: si riempie proprio la bocca (tàuta pànta). Questo tale si riempie la bocca dalla contentezza perché aveva osservato tutto quanto fin dalla giovinezza. Un po’ come Paolo, che si dichiara irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dalla legge (Fil 3,6).
Purtroppo non sempre è dato di cogliere la nuova legge di Gesù e in qualche misura nasce una sorta di ribellione, un rivendicare la propria “giustizia” in riferimento alla legge di Mosè, che indica il bene, ma non dà le energie sufficienti per seguirlo fino in fondo. Egli appare come una persona che pur rispettando e vivendo la Legge non vive in pienezza perché gli manca l’amore.
v. 21: Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va', vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!».
Nelle chiamate che si riscontrano in questo Vangelo, Gesù “vede” (cfr. 1,16.19; 2,14). Adesso va oltre, fissa lo sguardo e ciò significa: entrare con benevolenza dentro l’animo dell’altro, dentro la propria realtà. Entrare dentro l’altro è vedere “faccia a faccia” (cfr. 1Cor 13,12). La parola "lo amò" può indicare anche un gesto concreto di affetto, un abbraccio o un bacio. Gesù prima di continuare il dialogo con l’uomo, dona l’amore.
Gesù è compiaciuto di questo uomo, perché non si ferma alla propria giustizia, a ciò che ha fatto finora, ma è in ricerca.
Per attuare questa ricerca all’uomo manca “uno”. L’espressione è del testo ebraico. Nella loro cultura quando mancava “uno”, mancava tutto; allora Gesù gli dice “non hai niente”. L’uomo non solo si era riempito la bocca ma era anche ricco ed era cieco di tutto ciò, di se stesso. Si recò da Gesù per avere il di più e invece Gesù gli chiede che deve essere lui a dare di più. Prima però dovrà chiedere di vederci, come il mendicante di Gerico (v. 51). Solo allora sarà conquistato da Gesù (cfr. Fil 3,6.12), solo così scaturisce la sequela.
v. 22: Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
Alla Parola l’uomo reagisce. Può reagire bene e può reagire male. Qui vediamo una forte crisi interiore, troviamo nell’uomo i motivi dell’infruttuosità (cfr. v. 1). Non è indignato, ma colpito e triste. Una tristezza bella perché ha capito la posta in gioco.
Gesù ha colto nel segno: l'uomo aveva bisogno di quell’ “uno”. Lui che desiderava possedere il di più oltre i suoi beni, non aveva capito che era lui il posseduto. L’evangelista mette in evidenza che si possiede ciò che si dona. Quello per cui ci tiriamo indietro, ne siamo posseduti.
Il non rinunciare non permette l’incontro con Gesù, non permette la sequela. Se da una parte corriamo angosciati dall’altra facciamo ritorno rattristati e posseduti.
v. 23: Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!».
Gesù si guarda intorno, stabilisce una relazione. Posa lo sguardo verso i discepoli che rimangono un po’ sconcertati alla radicalità di Gesù. È importante accogliere le parole di Gesù e non rattristarsi. E ai discepoli, a coloro che hanno iniziato a seguirlo dice che quanti hanno ricchezze, hanno una difficoltà in più ad accogliere il regno di Dio. Essere posseduti non fa entrare in comunione con Dio, nella comunità. Essere discepoli significa fare quanto l’uomo ricco non ha fatto (cfr. 1,18.20;2,14).
vv. 24-25: I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio».
La Parola fa crescere nei discepoli uno sbigottimento. L’insegnamento di Gesù è preciso: il ricco, il posseduto non può entrare nel Regno di Dio. Gesù non vuole dire che, in generale, entrare nel Regno sia difficile, infatti più sotto parla ancora delle difficoltà che hanno i ricchi per entrare nel Regno di Dio.
I discepoli, per il fatto di aver accolto Gesù e il suo messaggio, sono già nel Regno di Dio. Quindi Gesù non sta indicando quanto sia difficile in linea generale, ma quanto lo sia per chi si lascia schiavizzare dalla ricchezza. Discepoli e ricchi c’è una differenza. Il discepolo è colui che dona se stesso: è un signore. Il ricco invece è colui che trattiene per sé.
Per capire quest’impossibilità per il ricco, Gesù si rifà alla saggezza popolare del cammello e della cruna dell’ago. Le difficoltà non sono le cose che non abbiamo, ma sono ciò che abbiamo che ci impedisce di entrare, come se avessimo ancora troppe cose. E non si riesce ad entrare in questo regno! Per entrare nel regno, non abbiamo bisogno di cose, non abbiamo bisogno di ricchezze ma di abbandonarci. Diversamente ci ritroveremo tra Dio e mammona (cfr. Lc 16,13).
vv. 26-27: Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
Il livello di reazione si alza: i discepoli rimangono spiazzati. Tutti sentono il fascino della ricchezza. Anche i discepoli. La domanda posta è legittima perché salvarsi è desiderio dell’uomo, che diversamente è perduto.
La salvezza qui è accogliere l’amore dell’altro. È il modo con cui Gesù guarda ciascuno: guardandoli dentro! È questo che ci salva. È l’accoglienza di questo sguardo che ci salva. È essenziale che ci sia questo sguardo!
Salvarsi non è né facile e né difficile ma solo impossibile all’uomo. Gesù risolve il dilemma ricordando che tutto è possibile a Dio. Presso il Suo sguardo! L’uomo pensa a sopravvivere, a possedere di più. Dio, Gesù, insegna che la felicità, la vita, consista nel dare, non nell’avere. Esiste l’essere poveri e piccoli. Più si dà e più si acquista la capacità, da parte di Dio, di dare agli uomini.
Per tutti c’è una necessità di aprirsi alla grazia di Dio amore, perché anche il ricco può salvarsi.
vv. 28-30: Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito».
Pietro qui fa una sua riflessione e con sorpresa constata che sia lui che i suoi compagni questo “impossibile” si sia avverato. Inconsciamente hanno ricevuto ciò che al ricco è stato richiesto ma non ha lasciato completamente tutto Si portava dietro i litigi su chi era il primo e le proprie cose. Però è un uomo conquistato da Cristo Gesù.
Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c'è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo
Gesù conferma che il Regno è per chi ha lasciato tutto per amore suo. Però vuole precisare la difficoltà dell’essere liberi e chiede di liberarsi di quanto impedisce la vera libertà dell’uomo. Questo abbandono deve essere fatto per causa di Gesù e per causa del Vangelo.
Abbandonare tutto può essere anche il proprio “fare” in questo mondo per essere sempre al servizio degli altri.
L’espressione per “causa mia” è detto per chi lo ha incontrato nella vita terrena. L’espressione “a causa del vangelo” è detto per quanti e per noi che lo incontriamo dopo, nella potenza della sua Parola (cfr. 8,38).
che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà.
L’evangelista Marco fa capire alla sua Comunità, che viveva una sorta di scoraggiamento, di non annacquare la sequela di Cristo. Essi come l’uomo ricco non hanno capito quest’amore universale di cui tutti siamo destinati.
Chi vive di questo ottiene la benedizione di Dio e la benedizione di Dio è quella vera ricompensa: alla vita eterna in un tempo futuro, quella che il ricco aveva chiesto a Gesù di poter ottenere.
Chi vive della benedizione di Dio non deve temere le persecuzioni in quanto queste non impediscono il dono della vita eterna.
Chi vive della benedizione di Dio non ha nessun privilegio, esso è solo destinatario dell’amore preveniente di Gesù e della sua misericordia.
Il v. 31, omesso dalla liturgia, «Molti primi saranno ultimi e gli ultimi primi» capovolge, un po’, il modo ordinario di pensare o di impostare la vita. Con queste parole Gesù ci aiuta a guarire dalla nostra cecità, riguardo soprattutto al primo e all’ultimo. Lasciamoci guardare dallo sguardo di Gesù per avere il suo stesso sguardo.
Anch’io sono tra quelli che desiderano la vita eterna? Come la ricerco?
Quali ricchezze (materiali o meno) che sento di ostacolo alla piena comunione con Dio? Quale è il mio atteggiamento nei loro confronti?
Cosa ho lasciato perdere finora "per guadagnare Cristo"? (cfr. Fil 3,8-10).
Sono sereno nel compiere scelte di generosità, convinto che il Signore non dimentica il bene che riesco ad operare nel suo nome?
e acquisteremo un cuore saggio.
Ritorna, Signore: fino a quando?
Abbi pietà dei tuoi servi!
esulteremo e gioiremo per tutti i nostri giorni.
Rendici la gioia per i giorni in cui ci hai afflitti,
per gli anni in cui abbiamo visto il male.
e il tuo splendore ai loro figli.
Sia su di noi la dolcezza del Signore, nostro Dio:
rendi salda per noi l’opera delle nostre mani,
l’opera delle nostre mani rendi salda. (Sal 89).