Lectio divina su Gv
20,19-31
Dio di eterna misericordia, che nella ricorrenza pasquale ravvivi la fede del tuo popolo, accresci in noi la grazia che ci hai dato, perché tutti comprendiamo l’inestimabile ricchezza del Battesimo che ci ha purificati, dello Spirito che ci ha rigenerati, del Sangue che ci ha redenti. Per Cristo nostro Signore. Amen.
La II domenica di Pasqua è l'antica domenica detta «In deponendis albis», per il fatto che coloro i quali erano stati battezzati nella veglia pasquale, quando si concludeva la settimana della loro iniziazione sacramentale, deponevano i loro vestiti bianchi. Diventavano così fedeli a tutti gli effetti. La pericope evangelica è identica nei tre anni del ciclo liturgico (A, B e C) e il tema dominante di questa domenica è la fede nei segni della Risurrezione.
Il cap 20 del Vangelo di Giovanni è inserito nel cosiddetto “libro della risurrezione” ove sono narrati diversi episodi che riguardano il Cristo risorto e i fatti che lo provano. Questi fatti sono collocati, nel quarto vangelo, al mattino (20,1-18) e alla sera del primo giorno dopo il sabato e otto giorni dopo, nello stesso luogo e il primo giorno della settimana. Il vangelo di Giovanni è il solo narra l’apparizione del risorto ai suoi discepoli il giorno stesso di Pasqua. Solo Matteo riferisce che la pietra posta a chiusura fu rimossa (Mt 28,2-4).
Questa pericope chiude il Vangelo di Giovanni ed è considerato la “prima conclusione” del quarto vangelo. Il Vangelo di Giovanni si chiude quindi con la fede di Tommaso. Una fede che chiede, ma che nasce dal vedere e toccare i segni dei chiodi, i segni della passione del Signore, i segni della continuità tra la croce e la Risurrezione. La risurrezione e le apparizioni di Cristo Risorto sono importanti perché consacrano l'insieme del percorso di Gesù e preparano il tempo della Chiesa quando Gesù sale al Padre.
v. 19: La sera di quel giorno, il primo della settimana
Siamo alla sera del primo giorno dopo il sabato, lo stesso giorno in cui Gesù risorto è apparso alla Maddalena, quindi all’inizio di una settimana nuova: l’inizio di un tempo nuovo, perché la resurrezione di Gesù ha creato un tempo alternativo e nuovo rispetto al “cronos” della vita umana, della cronaca umana. Ha fatto irrompere nel tempo l’eternità di Dio, e ha fatto entrare nell’eternità il tempo dell’uomo. Quindi siamo davvero davanti ad un mondo nuovo che inizia, che si manifesta.
mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei
I discepoli sono in un luogo chiuso, forse si tratta dello stesso Cenacolo (cfr. Lc 22,12; At 1,13). Essi sono spaventati, quasi ossessionati dalla paura dei Giudei. La “paura” è la condizione del discepolo nel mondo, dove è un estraneo, perché pur vivendo nel mondo non appartiene al mondo, e proprio per questo subisce nel mondo una emarginazione che può diventare anche persecuzione e rifiuto violento.
Giovanni annota come le porte siano chiuse. Infatti, in quei giorni era pericoloso dichiararsi a favore di Gesù e il suo cadavere. Per i Giudei e i Romani fu occultato.
venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!».
Abbiamo in queste parole il Signore descritto come “Colui che viene” una caratteristica di Giovanni che riprende il nome di Dio che si trova in Ap 4,8: “Colui che era, che è, che viene!”: è una presenza dinamica, ricca di salvezza, di consolazione, di speranza. Questa venuta di Gesù la ritroveremo al v. 26.
Il saluto di pace (si ripete ai vv. 21.26) è accompagnato da due verbi importanti: “venne” e “stette”. Il primo è lo stesso verbo che Gesù ha utilizzato per la promessa fatta durante il primo discorso di addio ai suoi (Gv 14,18.28). Il secondo significa il “rimanere ritto in piedi”, evoca il trionfo sullo stato del giacere della morte.
I discepoli spaventati sono rassicurati da presenza di Gesù; non come in quel «Sono io» (Gv 6,20) di un tempo, perché la sua presenza è ormai di un altro ordine. Il saluto che egli da’ non è il consueto “shalom”, ma è l'adempimento della promessa fatta all'ultima cena (cfr. 14,18-19.27-28; 16,16-23). La pace dei tempi messianici è il dono supremo di Dio annunciato dai profeti (cfr. Is 53,5), implica tutto il benessere di vivere (cfr. Ef 2,14). È la pace che li renderà capaci di superare lo scandalo della croce e ottenere la liberazione nella loro vita.
v. 20: Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco.
Gesù si fa riconoscere in quei segni che sono la continuità tra il Gesù della croce e il Risorto. Il mistero della croce è insieme mistero di morte, certo, ma che inevitabilmente richiama il mistero della risurrezione. Non si capisce il mistero della croce se non si capisce il mistero della risurrezione e viceversa. C’è questa unità. Giovanni sottolinea con forza che il Cristo che appare e che sta in mezzo ai discepoli è un essere reale, è lo stesso Gesù appeso sulla croce, per questo mostra i segni del suo martirio.
Giovanni è il solo a dare rilievo alla piaga del costato; già nella crocifissione l'aveva menzionata come densa di significato per il sangue e acqua che ne uscirono (19,34-35). Luca non parla di costato perché nel racconto della passione questo episodio non è citato. Ma con tutto questo, fra il modo di essere del Gesù di prima e del Cristo di ora, c'è una profonda differenza: egli entra improvvisamente, a porte chiuse.
E i discepoli gioirono al vedere il Signore.
Riprendendo la promessa di Gesù in Gv 14,19, l’Evangelista presenta i discepoli come coloro che riconoscono Gesù immediatamente e senza riserve. Vedono il Signore nella pienezza della fede. Il riconoscimento del Signore implica che la relazione con lui è definitiva.
I discepoli vedono il loro maestro nella pienezza della fede (cfr. 16, 22.24). La loro gioia è legata alla gioia del Signore. Ma è una gioia incontenibile, che chiede di essere condivisa con generosità sincera. Infatti, alla gioia dei discepoli, segue immediatamente l’invio in missione. Il Cristo risorto è sorgente efficace di perdono, è “l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”. I discepoli dovranno annunciare a tutti gli uomini questa possibilità di vita che viene loro offerta.
v. 21: Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi».
Si ripete per la seconda volta il dono di Pasqua: “Pace a voi”. Nel nostro brano è dono del Signore la pace, ed è dono del Signore lo Spirito. Essa è liberazione dall’angoscia della morte che turbava il cuore dei discepoli e li teneva prigionieri della paura. Ma non esiste liberazione senza un mandato, per rendere presente la Parola, l’amore, la misericordia, il progetto e le promesse di Colui che lo ha mandato. Infatti, inizia per i discepoli la missione. È la prima volta nel vangelo di Giovanni che Gesù invia esplicitamente i suoi discepoli. Questa missione non è proporzionata alle nostre forze, ma è proporzionata all’amore del Signore, quindi al suo dono. Perché il dono del Signore è esattamente questo: lo Spirito.
Questo mandato non è riservato agli apostoli ma tutti i discepoli, quelli presenti alla sua apparizione, ma anche quelli futuri di tutte le epoche e le zone geografiche.
vv. 22-23: Detto questo, soffiò
Il verbo utilizzato da Giovanni (emphysao) è usato solo in Genesi e in Sapienza. Il soffio sui discepoli da parte di Gesù evoca il gesto creativo di Dio e Giovanni segna il dono dello Spirito Santo lo stesso giorno di Pasqua e non cinquanta giorni dopo. In Gen 2,7 c’è il soffiare, l’alitare di Dio sull’uomo per cui l’uomo divenne un essere vivente, come pure la grande visione di Ezechiele (37,9). Soltanto lo Spirito di Dio è capace di ricreare l'uomo e strapparlo al peccato (Ez 36,26-27; Sal 50,12-13; 1Re 17,21).
Gesù glorificato comunica lo Spirito che fa rinascere l'uomo, concedendogli di condividere la comunione con Dio. Così si compie la profezia di Giovanni Battista: Gesù ha battezzato nello Spirito Santo (1,32-33), l'attesa si è compiuta nel giorno di Pasqua. Questo dono dello Spirito mette in evidenza che ora i discepoli partecipano alla vita di Cristo glorificato (cfr. 1Gv 4,13; 3,24)
Nel soffio di Gesù, che è una promessa che si verificherà a Pentecoste (At 2,1-4), Egli dichiara la sua divinità, indicando, nel dono dello Spirito, la vera vita a cui la chiesa deve attingere, una vita che spinge la chiesa alla remissione dei peccati, che è il gesto stesso di Dio.
e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo.
Il secondo dono pasquale è lo Spirito Santo, che Gesù ha promesso come Consolatore e Spirito che li introduce nella pienezza della verità. Lo Spirito è il dono del Cristo, viene dal «soffio» del Cristo Risorto; in ebraico il termine «spirito» e «soffio» coincidono (19,30).
La missione, il dono dello Spirito, il potere di rimettere i peccati sono dati all'intera comunità, che però si esprime attraverso coloro che detengono il ministero apostolico. Il dono dello Spirito sancisce l’incarico di missione. I discepoli, infatti, prolungano la missione che Gesù ha ricevuto dal Padre.
A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati.
Per capire il versetto, bisogna risalire all’ultima cena: “Questo è il mio sangue, il sangue del patto, il quale è sparso per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28) realizzato sulla croce in riscatto per molti (Mc 10,45), per cui i credenti possono ben dire di essere stati acquistati da Dio, “sapendo che non con cose corruttibili, con argento o con oro” sono “stati riscattati dal vano modo di vivere … ma con il prezioso sangue di Cristo” (1Pt 1,18-19). “Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati, e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2). Ora l’Evangelista riprende la stessa missione di Gesù: misericordia e perdono costituiscono ciò che la chiesa è invitata a compiere. La parola di Gesù sul potere di rimettere i peccati accompagna il gesto col quale egli mostrava le piaghe della passione. Il ministero del perdono è ogni giorno attualizzazione del sacrificio di Cristo.
Lo Spirito Santo che ci è stato donato ci rende consapevoli del grande dono che riceviamo col perdono da ricevere e da donare. “Rimettere/trattenere” indica la totalità del potere misericordioso trasmesso dal Risorto ai discepoli. (cfr. Mt 18,18).
v. 24: Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù.
Tra i Dodici non è presente Tommaso (in aramaico) il cui nome significa Didimo (in greco), cioè gemello. La prima volta incontriamo questo personaggio al capitolo 11, nella preparazione del segno di Betania, la rianimazione dell’amico Lazzaro. Un versetto che vive nella realtà di oggi. Anche noi non eravamo presenti, ma Gesù è apparso ai discepoli. C'è un richiamo a fondare la nostra fede sulla testimonianza degli apostoli. È questo il senso della frase finale: «Beati coloro che non hanno visto e hanno creduto» (20,29) ove si preclude la gioia della comunione che viene dallo Spirito Santo ed è donata ai “piccoli” (cfr. Mt 11,25 e 1Cor 1,21).
v. 25: Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo».
I discepoli usano la stessa frase che aveva detto Maria di Màgdala. Anche loro, fatta l’esperienza, la comunicano.
Siamo davanti alla prima testimonianza ecclesiale e al suo primo insuccesso.
Purtroppo, Tommaso non crede. C’è uno stato fatto di separazione, di distinzione e, di fronte alla testimonianza degli apostoli, Tommaso pone la necessità di vedere e toccare. La frase riprende quella che Gesù aveva detto al funzionario regio: «Se non vedete segni e prodigi voi non credete» (4,48). Adesso Tommaso fa memoria di quella parola e la applica: vuole vedere il segno delle piaghe di Gesù, cioè i segni della sua passione. La sua non è curiosità ma vuole vagliare la sua fede, vuole farne verifica. Vuole rendersi conto della propria fede sul Risorto e va a cercare qualcosa di più.
vv. 26-27: Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c'era con loro anche Tommaso. Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: «Pace a voi!».
Si ritorna all’ambiente iniziale della prima apparizione. È importante quel numero otto; al sei insistente del periodo precedente, adesso subentra l’otto della pienezza, della totalità, del giorno senza tramonto.
Otto giorni dopo indica “la domenica seguente” e c’è una intenzione di fondamento liturgico nel racconto di Giovanni, per mostrare l’origine della domenica come l’occasione della riunione apostolica in mezzo alla quale è presente il Cristo risorto. Gesù accoglie la richiesta di Tommaso, ma non privatamente, gli altri discepoli sono presenti e il criterio di conoscibilità e i segni offerti sono identici.
Poi disse a Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!».
Gesù senza attendere risposte và da Tommaso e gli fa constatare la sua identità. Lo chiama ad approfondire la sua fede di prima, a rafforzarla, a farla crescere. Egli non deve limitarsi alla fede nel messia, deve credere al Figlio dell'uomo glorificato nella sua morte.
I verbi che accompagnano questo gesto di Gesù sono “metti” e “tendi” è ciò che Gesù dice al Tommaso di ogni epoca: agire da vero credente! Non sappiamo se Tommaso toccò i segni della passione ma questo è quello che dobbiamo dire al mondo: che le piaghe del mondo, la sofferenza del mondo non sono il segno di un Cristo sconfitto, ma di un Cristo glorioso, perché Cristo ha fatto della sua morte il segno della sua risurrezione.
Gesù invita Tommaso a diventare credente. Il verbo diventare nella forma di imperativo presente indica qualcosa di continuativo quasi a dire: “non diventare incredulo, ma diventa credente” (cfr. Sal 1; cfr. anche Mt 7,24-27).
vv. 28-29: Gli rispose Tommaso: «Mio Signore e mio Dio!».
La risposta di Tommaso pone finalmente fine a una fede per sentito dire e forse esagera nella sua professione di fede. In nessun punto del Vangelo Giovanneo c'è una professione di fede così decisa e chiara. Tommaso è l’apostolo che ha formulato la fede più matura; è l’unica volta in cui Gesù viene riconosciuto sia Signore che Dio. In greco i due termini: “Signore” e “Dio” sono entrambi preceduti dall’articolo determinativo che ne indica per l’apostolo l’esclusività. Non è semplicemente la formula astratta: “Tu sei Dio”, ma “Tu sei il mio Dio”. È un coinvolgimento personale, di adesione totale.
Per due volte Tommaso ripete l'aggettivo “mio”, che cambia tutto, che viene dal Cantico dei Cantici: «Il mio amato è per me e io per lui» (6,3), che non indica possesso geloso, ma ciò che mi ha rubato il cuore; designa ciò che mi fa vivere, la parte migliore di me, le cose care che fanno la mia identità e la mia gioia. “Mio”, come lo è il cuore. E, senza, non sarei. “Mio”, come lo è il respiro. Senza non vivrei!
Gesù gli disse: «Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!».
Il verbo vedere ha un rilievo particolare nel racconto giovanneo dell’incontro del Cristo con i discepoli la sera di Pasqua. Giovanni usa due verbi greci diversi per indicare questa “visione”: ideìn e horàn. Si va da un vedere esteriore a un vedere più intimo che conduce alla fede. A Tommaso Gesù concede la possibilità di una percezione diretta della sua nuova presenza in mezzo a noi.
Il versetto termina con una beatitudine, che non riguarda Tommaso, ma i discepoli futuri: l'evangelista si rivolge alla comunità già lontana dalle origini. La comunità non deve rimpiangere il fatto di non aver vissuto al tempo di Gesù. Anche se il suo modo di accesso alla fede non è lo stesso, sono beati coloro che nel corso dei tempi avranno creduto senza vedere: sarà una visione in un senso perfetto e pieno.
vv. 30-31: Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro
Gli ultimi versetti pur essendo la conclusione dell'intero vangelo sono particolarmente collegati al racconto dell'apparizione Tommaso e alla beatitudine della fede. Sono il passaggio al tempo dello Spirito, al tempo della Chiesa, al tempo della Testimonianza, al nostro tempo scandito dal silenzio operoso fatto di testimoni del risorto.
I prodigi operati da Gesù per Giovanni sono dei segni medianti i quali il Verbo incarnato rivela la sua natura divina e la sua carità immensa per i suoi fratelli, poveri e peccatori. Ma lo scopo della rivelazione del Cristo consiste nel suscitare la fede nella sua persona divina. La lettura e la meditazione dei segni operati dal Cristo devono alimentare la vita spirituale, per favorire l’adesione personale al Signore Gesù. Quindi tutti i cristiani devono impegnarsi ad approfondire la conoscenza dei Vangeli, per nutrirsi abbondantemente di questo cibo divino.
Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome.
Questa frase rappresenta una chiave di interpretazione per tutto il IV vangelo. Lo scopo dell'Evangelista è quello di rafforzare ed approfondire la fede in Gesù Cristo, Figlio di Dio (cfr. 11,27). Ciò significa che Gesù è Figlio di Dio per natura, come si afferma nella confessione di Tommaso.
Il versetto viene chiuso da un'affermazione audace e centrale del vangelo giovanneo: il fine dell'autore corrisponde al fine di Dio stesso: donare la vita eterna ad ogni credente (cfr. 3,15).
Quanti dubbi e incertezze ci sono dentro di me? Trovo dentro di me la pace del Risorto o mi scontro quotidianamente con i miei limiti e con le cattiverie del mio prossimo?
Come posso credere che Cristo è vivente nella sua Chiesa, quando quest'ultima mi mostra un volto di potere che non sembra affatto quello di Gesù?
Gesù mi chiede di diventare credente. Quale percorso faccio per esserlo? Tommaso è diventato il gemello spirituale di Gesù e io?
Che significato ha per me il dono dello Spirito per la missione? Sono convinto che la fede nel nome di Gesù è la via che conduce alla vita eterna?
«Il suo amore è per sempre».
Dica la casa di Aronne:
«Il suo amore è per sempre».
Dicano quelli che temono il Signore:
«Il suo amore è per sempre».
è divenuta la pietra d’angolo.
Questo è stato fatto dal Signore:
una meraviglia ai nostri occhi.
Questo è il giorno che ha fatto il Signore:
rallegriamoci in esso ed esultiamo!
Ti preghiamo, Signore: Dona la vittoria!
Benedetto colui che viene nel nome del Signore.
Vi benediciamo dalla casa del Signore.
Il Signore è Dio, egli ci illumina. (Sal 117).
Proviamo a immergerci nell'esperienza di Tommaso, ripercorrendone le tappe: dall'incredulità che segna anche la nostra vita, a un'adesione di fede sempre più limpida e forte, che pure desideriamo. Proviamo anche noi a diventare gemelli spirituali di Gesù!