giovedì 8 settembre 2022

LECTIO: XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 15,1-32
 

Invocare
O Padre, che in Cristo ci hai rivelato la tua misericordia senza limiti, donaci di accogliere la grazia del perdono, perché la Chiesa si rallegri insieme agli angeli e ai santi per ogni peccatore che si converte.
Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 13Ed egli disse loro questa parabola: 4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta". 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i qua­li non hanno bisogno di conversione. 8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto". 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: "Pa­dre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta". Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lonta­no e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutriva­no i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati". 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: "Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio". 22Ma il padre disse ai servi: "Pre­sto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l'anello al dito e i san­dali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24per­ché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato". E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: "Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo". 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: "Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai di­sobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso". 31Gli rispose il padre: "Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato"».
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Il 15 capitolo del vangelo di Luca occupa un posto centrale nel lungo percorso di Gesù verso Gerusalemme. Questo percorso inizia in Luca 9,51 e termina in Luca 19,29. Il Capitolo 15 è come la cima della collina da cui si contempla il cammino percorso e da dove è possibile osservare il cammino che manca ancora. È il capitolo della tenerezza e della misericordia accogliente di Dio, temi che si trovano al centro delle preoccupazioni di Luca. Le comunità devono essere una rivelazione del volto di questo Dio per l'umanità.
Si tratta di tre parabole. L’annotazione introduttiva alle tre parabole del capitolo 15 ricorda che l’accoglienza dei peccatori era un comportamento abituale di Gesù, come suggeriscono i verbi all’imperfetto: “Si facevano vicini a lui tutti i pubblicani e i peccatori”. Ma si tratta di un comportamento che spesso irrita i giusti: non soltanto quelli del tempo di Gesù (“scribi e farisei mormoravano”), ma anche i cristiani successivi, come Luca spesso ricorda negli Atti degli Apostoli (11,13).
Le parabole di Gesù hanno un obiettivo ben preciso: il discernimento. Per mezzo di queste brevi storie tratte dalla vita reale cercano di condurre chi ascolta a riflettere sulla propria vita ed a scoprire in essa un determinato aspetto della presenza di Dio.  
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
vv.1-2: Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. i farisei e gli scribi mormoravano dicendo: Costui accoglie i peccatori e mangia con loro.   
Questo brano evangelico proprio all’inizio del capitolo inizia con questa sottolineatura. C’è fin dall’inizio una sete della Parola, tutti vogliono ascoltare Gesù. Quello di cui i pubblicani fanno esperienza è il trovarsi alla mensa della parola di Dio perché piacque a Dio, nel Suo immenso amore, parlare agli uomini come ad amici (cfr. Es 33,11; Gv 15,45s) e intrattenersi con essi (cfr. Bar 3,38). Questa parola testimonia che Dio è con noi per liberarci dalle tenebre del peccato e della morte e risuscitarci per la vita eterna.
Questo momento redentore è coperto dalla mormorazione: comportamento caratteristico dell'Israele ribelle a Dio. Quelli che si avvicinano a Gesù è gente che, con le proprie scelte di vita, si è auto-emarginata. Spesso sono odiati e disprezzati, e di conseguenza anche loro odiano e disprezzano tutti. Il fatto che si avvicinano a Gesù è singolare. Sono interessati dal suo discorso e non si sentono da lui rifiutati. Gesù prende l'iniziativa di aprire una porta al peccatore perché possa cambiare vita e stare meglio con sé stesso e con Dio.
v. 3-4: Ed egli disse loro questa parabola. Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova?
Gesù apre il suo discorso in parabole rivolgendosi verso coloro che lo ascoltano. Tra questi abbiamo farisei e scribi. E inizia con una domanda retorica.
La traduzione letterale ci presenta le parole "quale uomo...". La domanda appartiene allo stile di Luca. Di per sé la parola "uomo" sarebbe superflua, forse è stata introdotta per accentuare il parallelismo con la parabola seguente che inizia con "quale donna". Comunque, quel “chi di voi” interpella tutti, perché tutti siamo invitati a confrontarci con la strana e poco probabile storia della parabola.
L’evangelista Luca parla di pecora perduta più che smarrita e quindi irrecuperabile. Qui traspare l’immagine di Dio buon pastore, immagine che già incontriamo nell’AT.
L'immagine del pastore era familiare nella vita palestinese ed era pure un tema classico delle Scritture. Ogni israelita più volte sentiva leggere e commentare nella sinagoga Ez 34: Dio, il vero pastore si preoccupa delle pecore più deboli, fascia quelle ferite e riunisce le disperse. L’abilità di Gesù sta nel mostrare che la sua accoglienza dei peccatori è conforme alla Scrittura, Allora lo scandalo di scribi e farisei contraddice proprio quelle Scritture che essi dicono di venerare e in nome delle quali pretendono di giudicarlo.
Dio non demorde, per lui niente è impossibile. Egli si mobilita ponendo attenzione e energie su quella pecora perduta. Tuttavia, lasciare le 99 nel deserto non deve essere valutato come disinteresse o imprudenza. Si tratta di un elemento narrativo che serve a sottolineare la condotta premurosa del pastore a favore della pecora perduta. Da notare che il binomio perduto/ritrovato attraversa tutto questo capitolo 15.
v. 5: Quando l'ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle,
Il pastore riesce a trovare la sua pecora. Il ritrovamento è sicuro perché il pastore è molto sollecito, è un'immagine di Dio. Il mettersi la pecora sulle spalle è un gesto abituale nel Mediterraneo. Qui la pecora doveva essere particolarmente stremata. Importante è anche il tema della gioia, qui anticipato.
v. 6: va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta".
Il comportamento del pastore è inatteso e poco realistico: invece di portare la pecora nel deserto, dove si trova il resto del gregge, egli va a convocare amici e vicini (da dove?); non è inoltre normale radunare tutto il vicinato e festeggiare soltanto per il ritrovamento di una pecora. Sembra che Luca abbia preso questo finale dalla parabola seguente (quella della donna che cerca la moneta) per accentuare il parallelismo dei due racconti.
In queste parole possiamo leggervi la gioia condivisa, l'immagine del banchetto celeste. Questi motivi emergono in tutte e tre le parabole.
v. 7: Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
Questo versetto è l'applicazione della parabola. Dal racconto metaforico si passa al suo vero significato. La pecora perduta è il peccatore che si converte. L'attenzione si sposta quindi dall'iniziativa di Dio che va in cerca della persona perduta all'agire umano. C'è anche una dimensione ecclesiale: l'accoglienza del peccatore pentito nella comunità.
La conversione non è solo un fatto personale ma un bene di tutti, come del resto il male compiuto dal singolo non è un fatto personale ma di tutti. Ciò risponde a quei novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione, perché sono entrati in quella dimensione gioiosa della vita divina.
vv.8-10: Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: "Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto". Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Questa parabola è diversa anche se il significato è lo stesso. La breve storia della moneta perduta allude al comportamento normale e delle donne povere, che non hanno molto denaro. Siamo in una casa buia.
La ricerca inizia con l’accensione della lampada. Le tenebre del peccato si vincono solo con la Luce che è Cristo (Gv 1,4-5.9). Il secondo gesto è quello di "spazzare la casa". La donna troverà il suo tesoro sotto la spazzatura raccolta nella casa. Così anche il Padre troverà il Suo Figlio, che non conobbe peccato (2Cor 5,21), tra i malfattori sulla croce (23,39ss.), fatto Lui stesso peccato e maledizione per noi. In questo modo Dio rivela la sapienza della sua tenerezza: perde il Figlio per ritrovarlo sotto tutti i fratelli perduti. Tutto il mondo è casa di Dio, perché vi abita chi lui ama e cerca. Lo mette a soqquadro e lo ripulisce tutto, in modo che, raccogliendo il Figlio unico che si è fatto ultimo di tutti, raccolga prima di Lui anche tutti gli altri. Lui il tesoro, gli altri la spazzatura! E questi gesti esprimono il cuore di questa donna.
Ella cerca attentamente (con cura). È lo stesso atteggiamento del Dio di Mosè che "si prende cura del suo popolo". È l’amore concreto del Samaritano… un amore completo e fedele.
v. 11: Un uomo aveva due figli.
Quest’altra parabola inizia con tre personaggi: un uomo e due figli che sono anche fratelli. L’uomo qui è Dio-Amore: è padre e madre messo insieme (vedi: Rembrandt, “Il ritorno del Figliol prodigo”, dipinto del 1669). È la storia di sempre. È Dio, che nel corso della lettura si rivelerà insieme padre e madre, legge e amore. Padre è colui che ha la Vita e la trasmette gratuitamente. Padre è un nome che dice Alleanza, comunione d’amore con un partner, il figlio. Dio è Padre perché crea, redime, santifica; Lui opera per la "pienezza della Vita" (cfr. Gv 3, 16.17).
I due figli indicano la totalità degli uomini ma anche la loro diversità, sia peccatori che giusti. Ciò che li rende diversi è il modo con cui arrivano a conoscere il Padre. La conoscenza di sé arriva attraverso il rapporto con un tu. Se non ci si riconosce come figli non ci si può riconoscere fratelli. Per il Padre siamo sempre e solo figli, perché Dio ha “compassione di tutti, perché tutto puoi, chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23).
Questi due fratelli sono il richiamo di tanti fratelli in lotta fra di loro: Caino - Abele; Giacobbe - Esaù; Giuseppe - i suoi fratelli.
v. 12: Il più giovane disse al padre: Padre dammi la parte del patrimonio che mi spetta.
Nel figlio giovane c’è un’aria di tenerezza e affetto. Lui stesso si sente figlio tanto è vero che solo lui dirà “padre” … il maggiore non lo dirà mai. In questo giovane l’uomo di tutti i tempi. Egli chiede il patrimonio, la "sostanza" del padre. Non è arrivato a sapere che la "sostanza" del padre è identica alla sostanza del figlio. Non sa che tutto ciò che è del padre è del figlio. Gesù ci ricorderà che il Figlio è "consustanziale" al Padre.
In questo figlio c’è Adamo (Gen 3) col suo peccato! L’uomo si sottrae alla Paternità. Il Padre diventa una presenza ingombrante. "Il patrimonio che quel tale aveva ricevuto dal padre era una risorsa di beni materiali ma più importante di questi beni era la sua dignità di figlio nella casa paterna" (Giovanni Paolo II). Con questa richiesta il figlio introduce la giustizia nella vita di famiglia. Lì dove l’amore dovrebbe essere regola unica e suprema ora c’è la giustizia. L’umanità non è più famiglia ma un insieme di concorrenti che si contendono la felicità. La comunione è finita, l’unità spezzata. C’è il "mio" e il "tuo".
Ed egli divise tra loro le sue sostanze.
Il Padre non parla, non si mette a discutere col figlio. Avrebbe potuto dirgli: "Che cosa devo fare ancora per te, che io non abbia già fatto? Perché, mentre attendevo che producessi hai dato comportamenti selvatici? (cfr. Is 5,4). Il Padre non reagisce nervosamente ma con-divide. Lui, in silenzio, porta il peso di un gesto insensato.  Di fronte alla scelta del figlio minore non oppone resistenza. Fa spazio all’esistenza dell’altro. Si ritira perché il figlio viva. Dio fa spazio alla dignità delle sue creature. Lui, l’Onnipotente, non va contro la nostra volontà. Non ha paura del giudizio degli altri. La forza che il padre usa è quella dell’amore. Il comportamento del padre è suggerito dal desiderio di lasciare al figlio una possibilità di ritorno. Di ritrovare la casa. Il padre non vuole rompere con questo figlio ribelle.
v. 13: Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto.  
Il peccato entra nel tempo quotidiano, nella vita. C’è nel figlio la fretta di partire. Il principio dell’avere, del possedere non è un principio di comunione e di armonia. Creare un’unione economica significa creare una comunione fragile. L’unione economica finisce nella discriminazione. Come Adamo, questo figlio si orienta non più sulle persone ma sulle cose. C’è nell’uomo il desiderio di essere padrone, di non fare riferimento ad altri. Questo figlio non saluta, non si congeda. Raccoglie e parte.
C’è in lui la preoccupazione di chi accumula tesori che la ruggine e la tignola consumano. Non vive per il Regno e la sua giustizia. Per questo figlio sono importanti le "cose", non l’unità e l’armonia familiare. La sua vita esce dalla relazione d’amore. Esce dalla casa come Adamo (Gen 3,8-10). Ma il salmista si interroga: esiste un posto lontano dal Signore? (Sal 139,7-12).
Questo paese lontano è il luogo dove si sciupa tutto. Il figlio perde tutto perché vive da dissoluto (=à - sotòs= senza salvezza), da misero, da peccatore. E il suo peccato è vivere per "poco". Non vive in pienezza. Dio ci ha fatto per il "tutto".
Quando ci si allontana dalla "pienezza" si è "come i tralci che si seccano e vengono gettati via. Solo chi rimane nella vite porta molto frutto" (Gv 15,5-6).
vv. 14-16: Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutriva­no i porci; ma nessuno gli dava nulla.
Stare lontano da Dio porta alla dissipazione dei beni. Sperperare i beni significa svuotarsi interiormente vivendo nel non senso, privo di speranza, senza nessun futuro. Quindi, sperperati questi beni, queste sostanze, avviene la carestia che costringe a comportarsi in un determinato modo, cercando una certa autonomia dal Padre. Si mette a servizio non del Padre, ma di un suo simile. Il servizio che deve rendere a quest'uomo è tra i più immondi e infamanti per un ebreo: "pascolare i porci". Tutto ciò ci dà l'idea del livello di degrado in cui quest'uomo è caduto: è posto lì a servizio dei porci, non più di Dio. Anzi questo mestiere impuro gli impedisce ogni relazione con Dio e col prossimo.
L’uomo è oramai solo con sé stesso, perduto, in un paese straniero, lontano dalla casa, dal focolare. Il suo sostentamento può essere solo quel cibo dato ai porci.
L’uomo ha toccato il fondo perché equiparato ai porci.
v. 17: Allora ritornò in sé e disse: "Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
L’uomo legge la sua realtà. Si sta leggendo dentro e inizia a fare il cammino di ritorno. Finora ha frugato nel fango e ha sperimentato il passare di tutte le cose. Ha capito il valore e il limite delle cose, ora deve conoscere sé stesso. Prima di trovare il padre bisogna trovare sé stessi.
Ritornare al proprio cuore. La presa di coscienza della propria situazione. Quel cuore dove "erano nati i propositi malvagi, gli adulteri e le prostituzioni" (Mt 15,5) ora deve essere rivisitato. Lì l’immagine di Dio è oscurata, ma non cancellata. Il cuore è dove si prepara l’incontro amoroso con Dio. Il prodigo ha un cuore passionale, esagerato, facilmente deviabile ma, nello stesso tempo, insaziabile di felicità.
Nella profondità del cuore il figlio trova la strada di casa. Ha perso tutto, ma non la memoria dell’amore del padre. I beni gli ricordano qualcuno che li dona.
Dopo aver guardato fuori e lontano ora inizia il cammino del ritorno. Inizia la conversione attraverso una molla egoistica: sto male e vorrei stare meglio.
Per convertirsi occorre chiarezza sulla propria situazione. La sincerità è un requisito necessario per arrivare alla salvezza. Anche se qui, il figlio si mette dalla parte dei salariati e non del Padre.
vv. 18-19: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te
Testimone del mio peccato è il cielo, il Padre. Il figlio avrebbe potuto elencare una serie di peccati: una vita dissoluta, lo sperpero delle ricchezze paterne... ma ora riconosce che tutto questo ha rotto il rapporto col Padre. Il peccato rompe la dimensione religiosa dell’uomo. Non è solo una trasgressione morale, è rottura dell’alleanza d’amore tra un padre e un figlio. Il peccato immiserisce i doni celesti.
non sono più degno di essere chiamato tuo figlio.
Essere figlio non è questione di dignità o di meriti. Si è figli per dono gratuito. Il vero male del peccatore non è il peccato, ma il guardare sé stesso. Questo lo fa cadere nella tentazione di non essere degno dell’amore di Dio. E questo è il peccato del giusto: rifiutare l’amore gratuito di Dio.
Chi guarda a sé vede il proprio fallimento, ma chi guarda a Dio scopre la sua identità: sono sempre figlio e figlio amato. Il figlio "rientrato in sé stesso" si scopre "servo" del peccato; nel ritornare dal padre si scoprirà figlio.
Trattami come uno dei tuoi salariati.
"Essere garzone nella casa del Padre è certamente una grande umiliazione e vergogna. Tuttavia, il figlio è pronto ad affrontare tale umiliazione e vergogna. Egli si rende conto che non ha alcun diritto se non quello di essere mercenario in casa del Padre" (Giovanni Paolo II). Anche nel figlio minore è presente il rischio del peccato del fratello maggiore. Davanti a lui più che l’immagine patema c’è quella del padrone.
In questa confessione c’è però un volersi mettere totalmente a disposizione del padre: fa’ di me ciò che tu vuoi. Non voglio gestire io la mia vita. Voglio che la gestisca tu. Sei Tu mio padre! Davanti al padre vuole presentarsi nella più completa povertà, di cuore e di vita. Servo, ma figlio. Quindi figlio obbediente.
v. 20: Si alzò e tornò da suo padre. In questi due verbi abbiamo
Se fin d'ora abbiamo parlato del figlio adesso subentra il padre in una scena travolgente. Il padre qui è ben altro, non aspetta al varco l’indegno per rinfacciarli una colpa senza scuse, previene ogni suo atto di pentimento. Per capire, l'evangelista usa per noi dei verbi: i verbi dell'amore.
Quando era ancora lontano ...
Il processo di conversione, o meglio di maturazione interiore verso il padre, era ben lungi dall'essere compiuto, infatti, "era ancora lontano". Ma a Dio non interessa che l'uomo sia pienamente convertito, né gli importa sentire parole di conversione. Per Dio è importante cogliere nell'uomo almeno un accenno di pentimento, al resto pensa lui. Non è l'uomo, infatti, che si salva con il suo pentimento, ma Dio compie la sua salvezza. L'importante è che l'uomo si renda disponibile. Basta poco!
lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro...
quattro verbi e un aggettivo (commosso) definiscono tutta la dinamica del grande amore di questo padre: "lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò". È l'esplosione di un amore incontenibile che, finalmente, può esprimersi nella sua pienezza. Giovanni nel suo vangelo ci ricorda proprio questo amore: "Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo Figlio" (Gv 3,16). Dio ama sempre per "primo". L’amore non conosce la lontananza. Tutta la Bibbia ci narra di Dio che cerca l’uomo: "Adamo dove sei?" (Gen 3,9). È il padre che soffre perché il figlio è distante.
Gesù è, dunque, il volto storico di questo amore del Padre che, attraverso suo Figlio, incontra gli uomini, li interpella, li abbraccia e cerca di far loro capire le dimensioni del suo amore per loro, stimolandoli a dare una risposta.
vv. 21-22: Il figlio gli disse: «Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio».
Nella sua confessione riscopre la sua vocazione. Di fronte al padre, alle sue tenerezze, non dice che vuole essere servo. Ora, di nuovo, sa che il padre lo ama. L’amore del padre lo cambia. Si riconosce figlio.
Ma il padre disse ai servi ...
Al padre non interessano le giustificazioni del figlio. L'importante è il ritorno. Basta poco e il gioco è fatto! Il figlio viene rivestito con il vestito più bello, con l'anello e con i calzari.
Questo breve elenco di oggetti con cui viene rivestito il figlio stanno ad indicare la ricostituzione dell'uomo nella sua primordiale dignità. L'abito bello indica il nuovo stato di vita di cui l'uomo, con la redenzione, viene ricoperto. Paolo ci ricorda questo nella sua lettera ai Galati: "poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo" (Gal 3,27). Il senso di questo vestito appare ancor più chiaro se riflettiamo su quanto la lettera ai Colossesi ci propone: "Anche voi un tempo eravate così, quando la vostra vita era immersa in questi vizi. Ora, invece, deponete anche voi tutte queste cose: ira, passione, malizia, maldicenze e parole oscene dalla vostra bocca ... Vi siete, infatti, spogliati dell'uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova ... a immagine del suo Creatore" (Col. 3, 8-10). L'anello, di cui viene adornato, è probabilmente un sigillo, indice di un potere di cui è stato nuovamente insignito; mentre i sandali indicano il suo stato di uomo libero; gli schiavi, infatti, camminavano a piedi nudi.
Con questi brevi tocchi Luca ci dice come l'uomo, investito dall'amore del Padre, che si è attuato e concretamente manifestato in Cristo, è stato rigenerato alla stessa vita di Dio, che condivide pienamente.
v. 23: Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa
Il sacrificio grasso (lett. di grano) immolato, che si "mangia", "facendo festa" è un'allusione all'eucarestia. Per i commentatori questo vitello di grano è l'Agnello immolato per quell'amore che è prima della fondazione del mondo (Gv 17,24).
È l’inizio dell’unica festa che si compie una volta sola per sempre, senza fine.
Questa della gioia di Dio nel perdonare è il nocciolo più originale del messaggio biblico-cristiano. Altri annunciano di Dio la potenza, altri la giustizia, altri l'ordine...: noi cristiani annunciamo che la potenza di Dio è l'amore e la misericordia, che egli sa vincere il male col bene, che Dio è amore e perdono onnipotenti.
v. 24: perché questo mio figlio era morto ...
Ecco la motivazione di tanta festa: la conversione dell'uomo a Dio, il passaggio da morte a vita. Con la sua conversione, infatti, l'uomo viene associato in qualche modo alla dinamica pasquale e viene investito dalla morte e risurrezione di Gesù. La conversione, pertanto, dice questo passaggio pasquale da morte a vita in cui Cristo ci ha trascinati.
Il vivere del credente, pertanto, è un vivere continuamente in uno stato di conversione, cioè in un continuo passare da morte a vita così che la vita del cristiano è una vita squisitamente pasquale.
vv. 25-28: Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: «Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo». Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo.
Entra ora in scena il terzo personaggio: il figlio maggiore. Nella Bibbia il maggiore è Israele, il primogenito di Dio, figura di ogni giusto ma anche nella vita di tutti i giorni, il figlio maggiore è colui che vive nel giusto o che crede di essere nel giusto e va in cerca dei ripari. Qui rappresenta il mondo perbenistico dei farisei, che mal digerivano il comportamento di Gesù, che frequentava e prediligeva i pubblicani e i peccatori e si lasciava avvicinare e toccare dalle prostitute. Sembra, a prima vista un figlio esemplare che riscuote la nostra simpatia e la nostra comprensione. Insomma, parteggiamo tutti per lui. Ma proviamo a vedere un po' più a fondo questa figura.
Entrambi i fratelli tornano alla casa del padre, ma soltanto il fratello minore vi entra, mentre l'altro, di fatto, rifiuta di entrarvi e contesta le logiche del padre. Anche lui, come i farisei "mormora", cioè si ribella al padre e non accetta le sue logiche, non rispetta le sue esigenze.
vv. 29-30: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici…
Vediamo come qui il figlio maggiore non si pone nei confronti del padre come un figlio, ma come un servo, ritenendo implicitamente il padre non un padre, ma un padrone a cui va data obbedienza e non amore; infatti afferma: "non ho mai trasgredito un comandamento". Il rapporto con il padre è regolato da una relazione giuridica e da una mera formalità esecutiva di comandi a fronte del quale il figlio si aspettava un compenso, mai venuto e per questo rinfacciato al padre: "tu non mi hai mai dato un capretto per far festa", quasi a dire: "mi hai sempre trattato da schiavo e sfruttato". Questi erano i rapporti del figlio maggiore con il padre.
Il figlio maggiore, inoltre, mostra tutto il suo disprezzo nei confronti del padre: "Ma ora che questo tuo figlio ...". Il fratello maggiore disprezza il fratello minore, respinge e insulta l'amore che il padre ha riversato su questo figlio ritrovato e prende le distanze sia da uno che dall'altro: "questo tuo figlio".
Il ritorno di questo fratello inquina la gioia della festa. È un figlio anche lui ammalato di invidia e di gelosia. Per lui amare sarebbe stato partecipare alla festa per il fratello perché "Dio lo si ama amando il prossimo"(cfr. 1Gv 4,20). Invece questa festa segna una nuova divisione nella famiglia. Anche lui vuol far festa ma non con il padre, con il fratello ma con gli amici. Non parla di suo fratello come tale, non lo chiama fratello, bensì "questo tuo figlio", come se non fosse più suo fratello. Ed è lui, il maggiore, che parla di prostitute. È la sua malizia che interpreta così la vita del fratello giovane.
In queste righe rimane l'atteggiamento diverso del Padre. Lui esce di casa per i due figli. Accoglie il figlio giovane, ma non vuole perdere il maggiore. I due fanno parte della famiglia. L'uno non può escludere l'altro!
vv. 31-32: Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo
Il padre cerca di far entrare nella logica dell’amore e della festa colui che è rimasto sempre impigliato nell’orizzonte del puro dovere, della sola osservanza di una religione rigida che esclude qualsiasi sentimento, gioia e festa e soprattutto perdono. Lo chiama: Figlio! E gli manifesta la cosa più importante della religione: “tu hai un padre, tu sei sempre con lui, con questo padre, nel suo cuore, nelle sue attenzioni. Tu non sei uno schiavo come tu ti definisci, ma un figlio che gioisce di tutto ciò che ho e che sono come padre. Vieni, abbracciami, baciami ed entra nella festa del ritrovamento del tuo fratello, nella festa del perdono. Perché, tu hai un fratello, non sei solo e disperato; come hai un padre, una casa, un focolare attorno al quale gioire e fare festa”.
bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato.
Il padre non rinnega il comportamento tenuto nei confronti del secondogenito e riconferma la sua gioia. La sollecitazione all’allegria e alla festa con cui si chiude il racconto, rimanda al finale delle due parabole precedenti in cui si assicura la gioia celeste per il peccatore convertito (Lc 15, 7.10).
La Parola del Padre ci conduce a deciderci a morire ai nostri schemi mentali, alla nostra religione fatta di leggi ed entrare in una religione imperniata sull’amore per cui il padre accoglie il figlio ribelle e il figlio-schiavo. Senza condizioni, perché sono suoi figli e basta.
La parabola non rivela la reazione del figlio maggiore, non dice se è entrato o no a far festa. Volutamente Gesù lascia le cose in sospeso: ricordando che la parabola è rivolta in primo luogo a farisei e scribi, e ad ogni lettore.
A Gesù sta a cuore far intravedere ai suoi ascoltatori di ieri e di oggi, peccatori e presunti giusti, il modo con cui Dio si rapporta alle persone: ogni uomo, anche se peccatore, rimane per Dio sempre un figlio, proprio come succede nella parabola.
La parabola possiamo concluderla così: "Figlio, ritorna anche tu!". E il vangelo non dice se il figlio ascoltò la voce del padre: forse questo silenzio è giustificato dal fatto che la risposta deve essere ancora data!
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
La nostra comunità rivela agli altri qualcosa di questo amore pieno di tenerezza di Dio Padre?
quale idea di Dio abbiamo? Gesù non racconta le parabole anche per noi?
Sono aperto al perdono verso i miei fratelli? Riconosco solo il loro peccato o anche il fatto che Dio li ama incondizionatamente?
Vivo il perdono - soprattutto sacramentale - con il cuore pieno di gioia, "felice come una pasqua"?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore;
nella tua grande misericordia
cancella la mia iniquità.
Lavami tutto dalla mia colpa,
dal mio peccato rendimi puro.
 
Crea in me, o Dio, un cuore puro,
rinnova in me uno spirito saldo.
Non scacciarmi dalla tua presenza
e non privarmi del tuo santo spirito.
 
Signore, apri le mie labbra
e la mia bocca proclami la tua lode.
Uno spirito contrito è sacrificio a Dio;
un cuore contrito e affranto tu, o Dio, non disprezzi. (Sal 50).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Per imparare ad essere misericordiosi e a non pretendere dagli altri, ripeti spesso e vivi oggi la Parola: “Mi indicherai il sentiero della vita” (Sal 15,11).