martedì 20 settembre 2022

LECTIO: XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno C)

Lectio divina su Lc 16,19-31

 
Invocare
O Dio, tu chiami per nome i tuoi poveri, mentre non ha nome il ricco epulone; stabilisci con giustizia la sorte di tutti gli oppressi, poni fine all’orgia degli spensierati, e fa’ che aderiamo in tempo alla tua Parola, per credere che il tuo Cristo è risorto dai morti e ci accoglierà nel tuo regno. Per Cristo nostro Signore. Amen.    
 
In ascolto della Parola (Leggere)
19C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni gior­no si dava a lauti banchetti. 20Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, 21bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. 22Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. 23Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. 24Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". 25Ma Abramo rispo­se: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. 26Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". 27E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, 28perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, per­ché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". 29Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". 30E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qual­cuno andrà da loro, si convertiranno". 31Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Pro­feti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"».
 
Silenzio meditativo lasciando risuonare nel cuore la Parola di Dio
 
Dentro il Testo
Con questa domenica terminiamo la lettura del capitolo 16, dedicato al problema dell’uso della ricchezza. Gesù sta parlando agli amanti del denaro. Si tratta di un racconto per esempi, che diventa poi un racconto di insegnamento.
Il racconto ha dei paralleli significativi in un racconto egiziano e nella tradizione rabbinica. Al v. 14 Lc segnala che “i farisei, che erano attaccati al denaro (philárgyroi: amanti del denaro), ascoltavano tutte queste cose e si beffavano di lui”. “Essi, rappresentati dal ricco, protagonista di questa parabola, si ritengono giusti perché osservano per filo e per segno tutto le regole della legge” (Santi Grasso), tuttavia non si prendono cura dei poveri e questo motiva la loro condanna. Gesù aveva sollecitato ad invitare a tavola i poveri e i derelitti (Lc 14,13.21).
La parabola si presenta come l’antitesi di quella dell’amministratore astuto (Lc 16,1-9). Per Luca la ricchezza porta all’indifferenza verso le esigenze di Dio e di conseguenza verso chi sta nel bisogno. La parabola non intende descrivere l’aldilà né lo stato intermedio tra la morte e l’ultimo giudizio e neppure affermare l’esistenza o meno del purgatorio. Vuole piuttosto dire che il destino di ognuno si gioca interamente in questa vita terrena.
L’insegnamento globale corrisponde bene al pensiero dell’evangelista sulla ricchezza e chi la possiede: l’indifferenza alle esigenze di Dio, e la conseguente indifferenza per chi sta nel bisogno. Le sofferenze del ricco nell’Ade lo puniscono non per la sua ricchezza come tale, ma perché, sordo all’insegnamento di Mosè e dei Profeti, non ha capito l’urgenza della conversione. Interamente occupato dai piaceri dell’esistenza, ha dimenticato la vita futura, ha trascurato il povero che era alla sua porta, ha misconosciuto Dio.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 19: C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti.
La parabola inizia come quella dell’amministratore infedele (cfr. 16,1-13): C’era un uomo ricco. Quest’uomo dimostra la sua ricchezza portando abiti preziosi (cfr. 1Mac 8,14; Gen 20,31) e questo gli da’ un posto d’onore in mezzo alla società. Quest’uomo è povero interiormente e la sua ricchezza serve a mascherare questa sua povertà.
Anche quest’uomo ricco Luca lo presenta senza nome, quasi a mettere il nostro di nome in particolare, quasi a ricordare i nome degli operatori di iniquità (cfr. Mt 7,23).
Il nome nella cultura ebraica e in ogni cultura rappresenta l'identità. Il tuo nome sei tu. Il ricco non ha identità, non ha consistenza, è "niente", vacuo, sabbia. Ha sviluppato tutto fuori e niente dentro. Il piacevole approfittarsi della ricchezza nella mancanza di misericordia è la base della sua rovina.
Il lauto banchetto quotidiano di cui si parla dimostra questa sua povertà interiore. Egli si riempie la pancia a più non posso e fare ogni giorno festa è diventato il suo stile di vita. Infatti, questo ricco può dire di sé ciò che Gesù pone sulla bocca del proprietario di campi di frumento, quando questi andava sognando il suo avvenire: “riposati, mangia, bevi e goditela” (Mt 12,19). Qui, a differenza dell’amministratore infedele, non si parla né di disonestà, né di dissolutezza.
v. 20: Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe
Il secondo personaggio è povero ma possiede una identità, un nome: Lazzaro, forma greca del nome ebraico/aramaico Eleazar, che significa colui che Dio soccorre, oppure Dio aiuta. Lazzaro è la figura opposta al ricco in modo contrastante. L’evangelista da’ un nome al povero per suggerire che egli aveva un’identità presso Dio.
Lazzaro giaceva presso il portone della casa del ricco: è il posto del mendicante impotente, come la tavola è il posto del ricco. Questo povero era coperto di piaghe. Nella mentalità del tempo, tra le molteplici maledizioni di Dio per chi trasgredisce la legge, ci stavano quelle delle piaghe. Lazzaro, per i farisei, è un peccatore, un maledetto da Dio e in quanto tale è un impuro.
Nonostante questo modo di pensare, Lazzaro è anche uno di quei poveri che attendono la loro consolazione da Dio, il difensore dei poveri, appartiene alla categoria di persone che Gesù proclama beate.
v. 21: bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe
Lazzaro è affamato e non ha di che sfamarsi. Luca riprende l’espressione usata per il figliol prodigo (Lc 15,16). “Ciò che cadeva”. Probabilmente il riferimento è alle molliche di pane che servivano per pulirsi le mani. Lazzaro non poteva neanche servirsi di questi pezzetti di pane che venivano gettati sotto la tavola e mangiati dai cani.
I cani erano ritenuti un animale impuro. Quindi con una persona ritenuta impura, non potevano che starci gli impuri: i cani. Solo i cani si degnano di vederlo.
Per una certa mentalità l’indifferenza del ricco è giudicata normale: la situazione di contrasto tra i due personaggi corrisponde a un certo ordine della giustizia divina che dà abbondanza al pio e miseria al peccatore. Ma già Giobbe gridava contro questa visione.
v. 22: Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Qui abbiamo il crocevia della parabola. Al momento della morte la situazione è rovesciata. Sia per il ricco che per il povero viene usato il medesimo verbo: morì. La morte accomuna i due personaggi. L’unica cosa che si nota è che il ricco viene sepolto, mentre il povero fu condotto accanto ad Abramo.
La rappresentazione del defunto ha il sapore della cosmologia e mentalità del tempo. Possiamo cogliere in Luca un anticipo della funzione escatologica degli angeli di radunare gli eletti al momento della morte individuale.
L’espressione “nel seno di Abramo” si può interpretare secondo la formula biblica: “andare presso i padri” (Gen 25,8; 35,28), con un’allusione adesso al banchetto celeste, nel senso di ricevere il posto d’onore vicino ad Abramo in tale banchetto (cfr. Lc 13,28; Mt 8,11; Gv 13,23).
Del ricco è detto che è semplicemente sepolto.
v. 23: Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Anche se secondo il pensiero del tempo è impreciso questo luogo, possiamo descriverlo come un luogo di tenebre e di ossa inaridite come direbbe il profeta Ezechiele (cfr. Ez 37,1-14).
Abramo si trova anche lui nell’Ade, ma in un compartimento separato, oppure forse in un altro luogo che non è più lo sheol.
Non si può sapere con certezza: le rappresentazioni giudaiche dell’aldilà non sono uniformi. Il ricco si trova comunque in un luogo di tormenti, ma questa volta si accorge del povero Lazzaro insieme ad Abramo. La rappresentazione è semplicistica, serve a dimostrare la condizione rovesciata tra il ricco e il povero, a rendere possibile e a preparare la scena successiva del dialogo.
v. 24: Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma".
Inizia il dialogo. Anzitutto riconosce una discendenza con Abramo (lo chiama padre), ma l’essere della sua stirpe non giova a nulla (cfr. Lc 3,8; Gv 8,39). Qui i verbi usati sono all’imperativo e di conseguenza appare che non ci sia un cambiamento ma un ordine.
Quest’ordine consiste nel chiedere l’aiuto di Lazzaro: i due personaggi della parabola devono incontrarsi anche dopo la morte, ma perché tutto torni a favore del ricco.
Purtroppo, il ricco dimentica che la posizione è rovesciata rispetto a quella avuta sulla terra. Ora è Lazzaro a essere a capotavola.
v. 25: Ma Abramo rispose: Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti.
Si legge chiaramente qui l’intervento di Luca. È la conclusione della prima parte del racconto. Questo versetto può essere considerato l’applicazione del “guai” di Lc 6,24.
Abramo chiama il ricco “figlio”, lo riconosce come membro della sua discendenza: ma questo privilegio non serve a cambiarne la sorte eterna. Questa sorte è formulata secondo la dottrina della retribuzione in senso stretto, come nelle beatitudini e nei “guai” di Lc 6,20ss: chi è ricco in questa vita viene tormentato nell’altra, e viceversa. Diversamente da come pensavano i farisei.
Abramo non solo lo chiama figlio, ma lo invita a “fare memoria” dei propri gesti, delle proprie scelte, a ricordarsi di chi è Dio nella propria vita (cfr. Dt 7,18).
Il povero Lazzaro non si è mascherato con abiti lussuosi, da potente, si è presentato così come era, con i suoi mali, lasciandosi avvolgere dal mistero dell’amore di Dio.
v. 26: Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi".
Tra i morti giusti e quelli empi la comunicazione non è più possibile e quindi la sorte del ricco è irreversibile: Lazzaro non può più aiutarlo. Questa verità è resa con l’immagine del “grande abisso” fissato da Dio come limite invalicabile in un senso e nell’altro. Questo apre al resto del dialogo.
vv. 27-28: E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento".
Con questa seconda parte il racconto cambia direzione. Di nuovo il ricco si rivolge ad Abramo chiamandolo padre, ma per usare la religione a suo favore: Abramo deve ascoltare la richiesta del ricco: l’invio di Lazzaro presso i fratelli ancora vivi a casa del padre. Non è il caso di commuoversi per il disinteresse di un dannato per la propria persona e la preoccupazione per gli altri: fa parte della tecnica narrativa per riportare il discorso sulla terra e introdurre l’argomento dei fratelli. Lo scopo della nuova missione di Lazzaro sarebbe quello di testimoniare per evitare ai fratelli una sorte simile a quella del ricco.
v. 29: Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro".
Questo versetto costituisce il fulcro della parabola. Il ricco subisce un secondo rifiuto. Positivamente viene affermata la permanente validità della Legge: "Nel mio popolo nessuno sia bisognoso" (cfr. Dt 15,4-11; 24,14).
In Mosè e nei profeti, cioè nelle Sacre Scritture, Dio ci ha dato la sua parola, la quale mira ad ammonirci, illuminarci e farci da guida (2Pt 1,19), affinché non abbiamo a finire nel luogo di tenebre e di morte (cfr. Lc 1,79). La Scrittura contiene l’insegnamento necessario e sufficiente per conoscere la volontà di Dio e quindi per entrare nel “seno di Abramo”. Gesù è il compimento dell’AT (cfr. Lc 24,27.44).
vv. 30-31: E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Quante volte anche noi come il ricco usiamo quel “ma se…”: è la tentazione di pensare che un miracolo sia più conveniente dell’ascolto della Parola di Dio. I dottori della legge e i farisei sono coloro che chiedono un segno, un miracolo, ma nessun segno è stato dato loro se non quello di Giona (cfr. Mt 12,39).
Qui abbiamo ancora un netto rifiuto della Parola, ma Luca ama ricordare ai suoi lettori il verbo “convertire” e l’allusione alla resurrezione di Gesù.
Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti".
Abramo riprende i termini dei vv. 29-30 per formulare l’ultimo rifiuto. La risposta è dura ma la regola è chiara. Il ricco deve imparare a dirottare la propria vita costruendola sul cuore di Dio facendo la sua volontà. Frutto genuino di questa conversione è la pratica dell’amore del prossimo, il saper spezzare il pane con l’affamato, a saperlo condividere (cfr. Is 58,7-10; Tb 4,15-16). Chi non ha mai spezzato il pane, chi non ha mai condiviso il pane con gli altri non farà mai l'esperienza della risurrezione, del Cristo risorto.
Il messaggio è chiaro: i miracoli possono impressionare ma non necessariamente convertire. La conversione implica l’apertura del cuore a Dio, l’attenzione a scoprire la Sua presenza nella Sua parola: il bisogno di segni straordinari è superfluo. Per Luca, quest’ultima parte della parabola costituisce anche una risposta alla domanda su come evitare il destino del ricco: convertirsi! Aprirsi a Dio che parla nella Scrittura e obbedire al suo insegnamento.
Il paradiso e l'inferno di questa vita dipendono da noi. Ognuno si crea il proprio paradiso e il proprio inferno.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
Come considero le mie ricchezze? Per cosa spendo i miei soldi?
Qual è il mio atteggiamento verso i poveri che bussano alla mia porta? Mi sono mai impegnato per alleviare le loro sofferenze?
Cosa significa per me “ascoltare Mosè e i Profeti”? Ci sono persone che, come il ricco della parabola, attende miracoli per poter credere in Dio. Ma Dio chiede di credere in Mosè e nei profeti. Ed io, verso che lato tende il mio cuore: verso il miracolo o verso la Parola di Dio?
Quale è la mia idea di aldilà?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Il Signore rimane fedele per sempre
rende giustizia agli oppressi,
dà il pane agli affamati.
Il Signore libera i prigionieri.
 
Il Signore ridona la vista ai ciechi,
il Signore rialza chi è caduto,
il Signore ama i giusti,
il Signore protegge i forestieri.
 
Egli sostiene l’orfano e la vedova,
ma sconvolge le vie dei malvagi.
Il Signore regna per sempre,
il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione. (Sal 145).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
“Fratelli, conoscendo la felicità di Lazzaro e la pena del ricco, datevi da fare, cercate degli intermediari e fate in modo che i poveri siano vostri avvocati nel giorno del giudizio. Avete ora molti Lazzari; stanno innanzi alla vostra porta e hanno bisogno di ciò che ogni giorno, dopo che voi vi siete saziati, cade dalla vostra mensa. Le parole del libro sacro ci devono disporre ad osservare i precetti della pietà. Se lo cerchiamo, ogni giorno troviamo un Lazzaro; ogni giorno, anche senza cercarlo, vediamo un Lazzaro”. (Gregorio Magno).