martedì 27 aprile 2021

LECTIO: V DOMENICA DI PASQUA Anno B

 Lectio divina su Gv 15,1-8
 
Invocare
O Dio, che ci hai inseriti in Cristo come tralci nella vera vite, donaci il tuo Spirito, perché amandoci gli uni agli altri di sincero amore, diventiamo primizie di umanità nuova e portiamo frutti di santità e di pace. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
In ascolto della Parola (Leggere)
1«Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. 2Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. 3Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. 4Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. 5Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. 6Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. 7Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. 8In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
 
In silenzio leggi e rileggi il testo biblico finché penetri in te e vi metta delle salde radici.
 
Dentro il Testo
Con la quinta domenica di Pasqua, la Liturgia ci presenta il brano evangelico della vite, immagine classica che troviamo nell'AT. L'evangelista Giovanni ispirandosi al genere letterario dei “discorsi di addio” (cfr. 13,31-16,33), parole che il Risorto glorioso e vivente rivolge alla sua chiesa, mette sulla bocca di Gesù un discorso prima di affrontare la sua "ora", rivolgendosi esclusivamente ai discepoli, che rappresentano i credenti di ogni tempo, e quindi anche ciascuno di noi.
Il tema è quello della vigna (la vite e i tralci). Per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; è la pianta da cui si trae “il vino, che rallegra il cuore umano” (Sal 104,15); è la pianta coltivata da sempre nella terra di Palestina, simbolo di una vita sedentaria e di una cultura attestata, simbolo della vita abbondante e gioiosa.
I profeti avevano assunto la vite come immagine del popolo di Israele, della comunità del Signore: vite scelta, strappata all’Egitto e trapiantata nella terra promessa da Dio stesso (cfr. Sal 80,9-12), coltivata con cura e amore dal Signore, che da essa attende frutti (cfr. Is 5,4).
Nel vangelo, Gesù rifacendosi al profeta Geremia (2,21) rivela se stesso la vite vera di Dio e il Padre il vignaiolo, colui che la coltiva.
La pericope si divide in due parti: i primi 4 versetti con il tema del rapporto tra Gesù e il Padre, i seguenti 4 versetti presentano la necessità di rimanere o dimorare in Cristo; comune il tema della vite, identificata con Gesù stesso, e del portare frutto.
 
Riflettere sulla Parola (Meditare)
v. 1: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore.
Gesù spesso, quando si autorivela, inizia con le parole: “Io-Sono” che sono le iniziali del Nome di JHWH con il quale Dio si è rivelato a Mosè e Gesù lo usa in modo assoluto specificando un attributo: Io-Sono il pane vero, Io-Sono la luce, Io-Sono il pastore, Io-Sono la risurrezione e la vita, Io-Sono la via, la verità e la vita. In questa pericope dice: “Io-Sono la vite, quella vera”.
L'immagine della vite e della vigna è classica nell'AT ed è riferita in genere ad Israele, nel cantico d’amore per la vigna (Is 5,1ss) e dalle dichiarazioni del Signore nel profeta Geremia: “Io ti avevo piantato come vigna scelta…” (Ger 2,21) (cfr. anche Ger 5,10; Ez 15,2-6;19,10-14; Sal 80,9-16). L’immagine viene utilizzata nel NT per indicare sia l'infedeltà della vite Israele sia la cura di Gesù per i discepoli (cfr. Mc 12,1-12; Mt 20,1-8; 21,28-31.11-41; Lc 13,6-9; 20,9-19).
Nel testo giovanneo c'è un riferimento diretto a Sir 24,17-20 dove tale simbolo è riferito alla Sapienza divina. E nel vangelo Gesù si presenta anche come la vera sapienza di Dio (cfr. Lc 7,35).
Gesù proclama se stesso la vera vite in contrapposizione alle viti false come la luce vera in contrapposizione alle false illuminazioni. Quella vite che produce il frutto dell’amore del Padre e dei fratelli, per questo è la vite vera. Il vero popolo fedele a Dio è rappresentato da lui (vite) e dai discepoli (tralci) che gli danno adesione.
Il ruolo di agricoltore è svolto dal Padre. Né Gesù, né tanto meno i tralci/discepoli possono subentrare in questo ruolo. La cura che l'agricoltore ha per la vite è simile a quella che il Padre ha per Gesù e i suoi, per la Chiesa. L’agricoltore non si arrabbia con la vite, non può arrabbiarsi; deve avere pazienza infinita, deve avere tutte le cure, deve aspettarsi assolutamente niente per i primi anni e poi aspetta che il tempo, le condizioni siano propizie per avere il frutto (cfr. Lc 13,6-9; Gc 5,7-10).
v. 2: Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Il versetto sottolinea la produzione crescente del frutto del tralcio in Gesù. Il tralcio che pur ricevendo dall’unione con Gesù/vite la linfa vitale non la trasforma in frutto è inutile e il Padre lo elimina.
L’importanza di portare frutto – idea essenziale di questo brano – viene sottolineata dall’Evangelista che ripete per ben sette volte l’espressione (tre volte in 15,2 e poi 4.5.8.16).
Qui l’Evangelista usa un gioco di parole tra il verbo: aírei = togliere e katháirei = purificare. L’Evangelista sottolinea che l’azione del Padre/agricoltore verso il tralcio che porta frutto non è di “potatura” ma di purificazione, cioè liberazione da tutti quegli elementi che impediscono di aumentare la capacità di portare frutto. È questa un’azione positiva tesa a favorire le capacità di vita e di dono del tralcio.
Il legame tra Gesù e i discepoli, i credenti (la Chiesa) indicato con la vite e i tralci sottolinea l'intensità del rapporto; il principio fondamentale della vita cristiana è condividere la stessa vita di Gesù, restando uniti a Lui, la vera vite.
Anche nella nostra vita spirituale deve avvenire questo cammino di purificazione per portare frutto e lo si può fare attraverso la Parola. E quale è questo frutto da portare nella vita? Il frutto è l’amore concreto per il prossimo.
v. 3: Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
La fede e l'amore con cui restiamo in Cristo (cfr. Gv 14,21) hanno alla radice l'azione del Padre. Infatti il v. 3 specifica che è la Parola (quella di Gesù e quella delle Scritture) a renderci puri. Il credente nell'ascolto fedele e obbediente alla Parola si purifica e diviene sempre più tralcio della vite/Cristo (cfr. Gv 13,10). La potenza della Parola taglia il tralcio sterile (cfr. Eb 4,12) e pota il tralcio rigoglioso per una vendemmia abbondante. Ciò significa uscire da noi stessi per amare il prossimo in ogni ambiente di vita per costruire la civiltà dell’amore.
Questo insegnamento che rende puri/liberi i discepoli è quello dell’amore che si traduce nel servizio da lui dimostrato nella lavanda dei piedi (cap. 13). Lavare i piedi agli altri (servizio di amare = purificare) è quel che rende puri i discepoli.
v. 4: Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Il verbo dimorare/rimanere = méinate da ménō è un verbo caratteristico del vangelo di Giovanni (ben 36 volte contro le 3 di Mt, 2 di Mc e 7 di Lc). In questo capitolo il verbo compare ben 11 volte.
Esso indica la reciproca appartenenza di Gesù e dei suoi discepoli e l'unica sfera di vita retta dall'amore, a imitazione della reciproca immanenza del Padre e del Figlio.
L’espressione vuole manifestare il dono di grazia di Dio che rimane nel discepolo, ma insieme al dono deve rimanere la fedeltà. Ciò significa che la fede è un cammino, un avanzare per continuare a godere del dono di Dio che in Cristo non verrà mai meno. La fede non è data al cristiano una volta per tutte, ma è la risposta alle esigenze della Parola che è un principio dinamico che purifica e libera da ciò che in noi si oppone a Dio. Il centro della nostra vita di credenti e di tutta la nostra azione è essere uniti a Gesù, perché uno poi produce secondo ciò che è: se sei unito a lui, produci i suoi stessi frutti. Più si dimora in Gesù e più si serve. Infatti, il servizio è piena comunione con Gesù.
v. 5: Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
L’espressione di Gesù richiama anche quella pronunciata nella sinagoga di Cafarnao: “chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui” (Gv 6,56) sottolineando la stretta relazione tra adesione/comunione a Gesù e il portare frutto.
Il v. 5 riprende il v. 1 ma con variante: si aggiunge “voi i tralci”. Non solo, torna il verbo “rimanere”. In pratica, il versetto contiene il rapporto tra Gesù/vite e i suoi discepoli/tralci e Gesù ne spiega la metafora: restare attaccato a Lui significa portare frutto, il suo stesso frutto, avere la sua stessa vita di Figlio, avere il suo stesso amore per il Padre, avere il suo stesso amore per i fratelli. Se resto unito a lui continuo la sua opera e la sua opera è dare vita e dare amore; se mi separo da lui distruggo la sua opera e do morte e do egoismo e distruggo innanzi tutto me stesso. Senza questa comunione il tralcio diventa sterile. Occorre riconoscere che senza l’aiuto dello Spirito Santo non possiamo fare nulla!
v. 6: Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Il versetto descrive il fallimento del tralcio. Cioè il non dimorare in lui è già l’essere fuori, è già essere secchi, è già essere morti perché lui è la vita. Una serie di verbi sottolineano l'inevitabile fallimento del tralcio staccato dalla vite. Una descrizione di questo movimento, l’abbiamo nel profeta Ezechiele: “Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Si può forse ricavarne un piolo per attaccarvi qualcosa? Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare, il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile per farne un oggetto? Anche quand’era intatto, non serviva a niente: ora, dopo che il fuoco l’ha divorato, l’ha bruciato, si potrà forse ricavarne qualcosa?” (Ez 15,2-5).
Tutto quello che non è amore, che non è in Dio, è paglia che brucia, non ha valore, ed è destinato alla morte.
Per fortuna brucia, produce luce e fuoco. E dice Paolo che saremo salvati attraverso il fuoco (1Cor 3,15), cioè tutto brucerà nell’amore di Dio come tutto brucerà sulla croce per donarci una nuova vita.
v. 7: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto.
Accogliere la Parola di Gesù non è un fatto uditorio, ma deve dimorare in ogni credente. Per vivere pienamente questo, non deve mancare l’accogliere la sua persona e il suo mistero, accoglienza possibile attraverso la fede che rende quindi efficace ogni preghiera. Tutto ciò è la traduzione di amare.
Se c’è tutto questo, i discepoli hanno la garanzia che qualunque cosa chiederanno, mi chiedete (cfr. Mc 11,24; Gv 14,13; 16,23-24) verrà loro concessa (nel verbo thélēte = chiedete/volete è insita la tensione/volontà comunitaria di desiderare ciò che desidera Gesù: tutto ciò che realizza veramente l’uomo).
Se amo Dio, accolgo le sue parole, entro nel suo volere, lo capisco e voglio concretizzarlo. Quindi posso chiederlo e Lui può esaudire la richiesta. L’evangelista Giovanni lo ricorderà nella sua lettera facendo menzione all’azione dello Spirito Santo (cfr. 1Gv 3,18-24).
v. 8: In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.
Infine la gloria del Padre, che si manifesta in Gesù, è manifestata anche in coloro che producono frutti in forza della loro comunione con Lui.
Il discepolo di Gesù sarà colui che, incondizionatamente, come Gesù glorifica il Padre nella vita di tutti i giorni attraverso il perdono, la misericordia, la condivisione.
La gloria del Signore è divenire discepoli del Signore. Cosa significa? Significa imparare a diventare figli e Gesù dice “a vantaggio mio”. Diventare discepoli significa imparare da Gesù ad amare i fratelli, come Lui ha amato. Solo così si può realizzare l’amore del Padre.
L’Evangelista in particolare sottolinea che solo diventando discepoli di Gesù e nell’abbondanza di frutto viene glorificato il Padre, cioè si rende manifesta la presenza e l’attività di un Dio-Amore.
 
Ci fermiamo in silenzio per accogliere la Parola nella vita. Lasciamo che anche il Silenzio sia dono perché l’incontro con la Parola sia largamente ricompensato
 
La Parola illumina la vita e la interpella
La mia è una fede viva o è generata dalle emozioni, dai sentimenti?
Sono capace di aprire il mio cuore al suo amore e con lui aprirmi verso i fratelli, verso le sorelle?
Dimoro nella Parola del Signore per viverla sulle strade della vita?
Sono convinto che senza l'Agricoltore non posso far nulla e che solo da lui mi viene tutto ciò di cui ho bisogno?
Mi lascio "potare" con gioia, con pazienza, per produrre frutti abbondanti e generosi?
 
Rispondi a Dio con le sue stesse parole (Pregare)
Scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.
I poveri mangeranno e saranno saziati,
loderanno il Signore quanti lo cercano;
il vostro cuore viva per sempre!
 
Ricorderanno e torneranno al Signore
tutti i confini della terra;
davanti a te si prostreranno
tutte le famiglie dei popoli.
 
A lui solo si prostreranno
quanti dormono sotto terra,
davanti a lui si curveranno
quanti discendono nella polvere.
 
Ma io vivrò per lui,
lo servirà la mia discendenza.
Si parlerà del Signore alla generazione che viene;
annunceranno la sua giustizia;
al popolo che nascerà diranno:
«Ecco l'opera del Signore!». (Sal 21).
 
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Nella pausa contemplativa, mi lascio trasportare dalla Parola per viverne il suo dinamismo, per vivere la vera vita spirituale, il primato dell’interiorità attraverso il verbo rimanere.