Lectio divina su Gv 10,27-30
O Dio, fonte della gioia e della pace, che hai affidato al potere regale del tuo Figlio le sorti degli uomini e dei popoli, sostienici con la forza del tuo Spirito, e fa’ che nelle vicende del tempo, non ci separiamo mai dal nostro pastore che ci guida alle sorgenti della vita.
Egli è Dio, e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
La quarta domenica di Pasqua è denominata la «domenica del buon Pastore» ed è anche la domenica in cui preghiamo insieme a tutta la Chiesa universale per le vocazioni. Ogni anno la liturgia ci propone diversi brani del capitolo 10 di Giovanni. Il testo proposto per l'anno C è molto breve, ma con una ricchezza immensa.
Il buon Pastore di cui parla l'Evangelo odierno è Gesù nel suo rapporto con noi: «Io sono il buon pastore. E il buon pastore offre la vita per le sue pecore». Per meglio comprendere e penetrare il senso di questa immagine è bene tener presente il brano del profeta Ezechiele (Ez 34, 3-4) in cui Dio si lamenta dei cattivi pastori che sono alla guida del suo popolo Israele, i cui rapporti col gregge sono delineati dai seguenti verbi: nutrire, vestire, ammazzare, pascolare. Questi verbi sono usati tutti in senso negativo nei confronti dei pastori d'Israele e suscitano l'indignazione di Dio che, sempre tramite il profeta Ezechiele, promette al suo popolo di occuparsi personalmente del suo gregge. Il tempo tanto atteso è giunto. Gesù è venuto, inviato dal Padre, per prendersi cura del gregge che gli è affidato e che nessuno rapirà dalla sua mano a costo della propria vita.
Nel piccolo brano, che riprende la tematica “pastorale” trattata nei vv. 1-18, si proclama l’ultima parte della parabola, e mette in rilievo la relazione che esiste tra le pecorelle e il pastore, Gesù, che presenta se stesso come il vero pastore. Questa relazione è caratterizzata da alcuni verbi: ascoltare, conoscere, seguire. Attraverso questi verbi è possibile ricostruire la storia integrale della vocazione cristiana.
Nella seconda parte del capitolo 10 (Gv 10,22-39), da cui è tratto questo brano, è ambientata a Gerusalemme, sotto il portico di Salomone, durante la festa della Dedicazione del Tempio.
Questa festa ricordava la nuova consacrazione del tempio di Gerusalemme, compiuta nel 165 a.C. dopo le profanazioni compiute da Antioco Epifane (narrate in 1Mac. 1,54-59; 4,36-39). Mentre Gesù stava passeggiando sotto il portico di Salomone viene raggiunto da un gruppo di Giudei, ma sarà l’ultimo incontro. Dopo la risurrezione di Lazzaro essi decideranno di uccidere Gesù (Gv 11,50). In questo ultimo incontro i Giudei chiedono a Gesù di dire apertamente se egli sia davvero il Cristo. Egli risponde loro di averlo già detto apertamente e di averlo anche dimostrato con le proprie opere, ma che loro non essendo sue pecore non gli avevano ancora creduto.
v. 27: Le mie pecore ascoltano la mia voce.
Gesù ha appena detto ai Giudei che loro non sono sue pecore. In questo versetto, invece, le descrive dicendo non chi sono le pecore ma cosa fanno: ascoltano. Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia “ascoltare” che “obbedire”. Quindi «shema’ Israel» non è soltanto “ascolta, Israele!”, ma anche “aderisci!”. «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cfr. Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore ...».
Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40,7 si dice letteralmente: «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te. Questo dice una adesione totale, incondizionata, fondata anche solo sul timbro di voce del Cristo. Le pecore sono conosciute perché non è il loro amore per il Pastore o l’ascolto che loro hanno di lui che fonderà la loro sequela, ma è la conoscenza che il Pastore ha di loro che fonda la sequela. Questo è il vivere da cristiani: l’intuire, il recepire la voce del Signore, il lasciarsi conoscere da lui, il lasciarsi amare da lui, il non sentirsi all’altezza neanche della Parola: questo dà origine alla sequela.
io le conosco ed esse mi seguono.
In questa seconda parte del v. 27 riscontriamo una conoscenza reciproca. Nel vangelo di Giovanni, conoscere indica un rapporto personale, come fra il Padre e il Figlio, fra Gesù e i suoi discepoli, fra i discepoli e Gesù o Dio. Conoscere abbraccia mente, cuore, azione, tutto l’uomo, da diventare sulle labbra del Gesù di Giovanni la definizione della vita eterna: “La vita eterna è conoscere te, unico vero Dio e colui che hai inviato, Gesù Cristo” (17, 3). L’uomo che ha ascoltato e si è fatto conoscere ed ha conosciuto Dio “segue” il Cristo come suo unico Pastore.
Gesù conosce le sue pecore, cioè nutre per esse un amore vivo che giunge al segno supremo, quello del dono della vita. Il buon Pastore è il proprietario delle pecore; il gregge è suo, gli appartiene. Gesù è il Signore della chiesa; la comunità dei fedeli gli appartiene, il popolo di Dio è sua proprietà. In caso di pericolo il buon Pastore non solo non abbandona le sue pecore per fuggire, ma si dona completamente al suo popolo fino al sacrificio supremo, fino all’offerta della propria vita per la salvezza dei suoi discepoli.
La conoscenza nel buon Pastore indica la carità profonda, l’affetto vitale che coinvolge tutta la persona. L’amore concreto tra sposo e sposa può fornire un’idea di questa conoscenza esistenziale. Secondo il linguaggio dei profeti, Jahvè conosce così il suo popolo che è la sua sposa; per il suo gregge egli nutre una carità tanto viva e concreta; egli ha conosciuto soltanto Israele facendo sua questa comunità con un patto nuziale eterno; Dio ha eletto il suo popolo amandolo con un amore di predilezione.
v. 28: Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano.
Il riferimento al “ladro” che viene per “perdere”, cioè per distruggere (v.10) e al lupo che “rapisce” (vv. 12-13), ma non potrà prevalere, perché il Pastore è più forte.
Avere vita è il desiderio più grande di ogni creatura e Gesù la offre abbondante nell’Eucaristia. Una vita che ha nell’amore la sua sorgente e nell’offerta di sé la piena realizzazione.
Nel quarto vangelo la vita eterna non è la vita fisica in quanto tale né però, è da concepire come una immortalità, cioè una vita futura spirituale senza fine. Essa è sinonimo di vita divina, è partecipazione alla stessa vita del Figlio di Dio, è comunione con lui, è ingresso nel mistero stesso di Dio.
Gesù ci dà la sua vita accettando per sé la croce come segno supremo dell'amore che non si risparmia, ma si dà fino alla fine, fin quando tutto è compiuto. Dare la vita si innesta nella struttura umana perché, nella partecipazione alla sua Pasqua, anche noi diventiamo partecipi della vita che è dono di Dio, è eterna come eterno è Dio. Diventiamo partecipi della vita del Figlio perché anche noi siamo adottati come figli.
Gesù ci dà la vita. Questa è per noi una sorta di assicurazione: la nostra vita è stata salvata dalla perdizione, tranne per “il figlio della perdizione” (Gv 17,12). Ora non abbiamo più da temere di finire male, ora sappiamo che la cifra per leggere ed interpretare le nostre vicende personali e quelle collettive della famiglia umana è la Pasqua.
v. 29: Il Padre mio, che me le ha date è più grande di tutti
Secondo vari manoscritti, questa frase si può anche tradurre: “Per ciò che riguarda il Padre mio, ciò che mi ha dato è più grande di ogni altra cosa” oppure “Il Padre mio è più grande di tutti, in ciò che mi ha dato”. La prima traduzione mette in risalto la grandezza di ciò che il Padre ha dato a Gesù e quindi ciò che fa grandi le pecore è il fatto che il Padre ne ha fatto dono al Figlio. Nel secondo caso, la traduzione ci dice che la grandezza del Padre deriva dal donare, dal dono che lui fa di noi al Figlio.
Nessuno può strapparle dalla mano del Padre.
Le mani di Dio sono le mani del Padre, ricco di misericordia, che, nella pienezza dell’Amore, ha inviato il suo Figlio, fattosi uomo, e a Lui ci ha consegnati, per essere salvati. Ogni uomo, dunque è nelle mani di Dio, quelle mani che lo hanno fatto e plasmato, come canta il Salmista (cfr. Sal 118), quelle mani forti e sicure che guidano e proteggono, quelle mani pronte ad accogliere, anche, i figli che si allontanano e ritornano pentiti; quelle mani tenere, come quelle di una madre, che accarezzano e confortano, che, come leggiamo nel libro dell’Apocalisse, asciugheranno ogni lacrima, quando, superato il tempo, saremo davanti a Dio.
L’attività pastorale di Gesù è efficace perché in essa si compie l’amore del Padre stesso per gli uomini, la sua ferma volontà che tutti gli uomini siano salvi.
v. 30: Io e il Padre siamo una cosa sola.
Gesù ricorda la profonda unità di intenti e di azione del Padre e del Figlio. Essi sono una cosa sola. Qui Giovanni ci ricorda ancora la divinità di Gesù che ha cominciato a dichiarare nel Prologo del suo Vangelo. Qui, ancora meglio, possiamo comprendere l’identità di Gesù Cristo, quale Figlio unigenito di Dio, e della sua missione come descritta nel quarto vangelo.
Gesù sente la necessità di ribadire la sua unità con il Padre. “Io e il Padre” dice una identità diversa del Cristo rispetto al Padre e quindi l’essere Uno. L’evento dell’essere, quella parola “siamo” pare sempre più essere lo Spirito Santo. E allora c’è questa identità pienamente espressa nell’unità. Questo testo richiama la creazione dell’uomo e della donna: a immagine e somiglianza li creò, maschio e femmina. Immagine e somiglianza di Dio, per il Cristo, è immagine e somiglianza del mistero della Trinità. Lo Spirito è l’unità del Figlio con il Padre. È l’essere Uno del Padre e del Figlio e garantisce l’identità del Padre e del Figlio. Questa affermazione scandalizzerà molto i Giudei: nel versetto seguente è detto che portarono pietre per lapidarlo, senza però riuscirci (cfr. Gv 31-39).
Sono immerso nell'ascolto di Dio? Ci sono spazi e momenti nella mia vita quotidiana che dedico in modo particolare all'ascolto della Parola di Dio?
Dove arriva la mia «conoscenza» di Gesù Cristo: è ferma ad un livello teorico-astratto o è un continuo abbandono fiducioso perché trasformi e guidi la mia vita?
Mi sento animato dalla fede in Cristo Gesù quando incontro difficoltà e ostacoli nel dare ragione della mia fede? Ispiro al Vangelo le mie scelte di vita?
Mi sento parte del gregge o rimango fuori per criticarlo?
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.
il suo amore è per sempre,
la sua fedeltà di generazione in generazione. (Sal 99).
L’incontro con l’infinito di Dio è impegno concreto nella quotidianità (Contemplare-agire)
Lasciamo che lo Spirito ci aiuti a discernere la Voce del Pastore della vita e del’amore vero. Scopriamoci disponibili a seguire Gesù per essere testimoni di speranza nella quotidianità.