Lectio divina su Mc
9,38-43.45.47-48
O Dio, tu non privasti mai il tuo popolo della voce dei profeti; effondi il tuo Spirito sul nuovo Israele, perché ogni uomo sia ricco del tuo dono, e a tutti i popoli della terra siano annunziate le meraviglie del tuo amore. Per Cristo nostro Signore. Amen.
Continuiamo il nostro cammino verso Gerusalemme. Questa domenica abbiamo un brano denominato "piccolo catechismo della comunità" che fa’ parte del resoconto di tradizioni orali, di predicazioni. Infatti, troviamo in esso una raccolta di insegnamenti di Gesù, di diversa natura sulla vita comunitaria legati da alcune espressioni ricorrenti: “nel tuo/mio nome”, “scandalizzare”, “fuoco e sale”. Questi contenuti l’evangelista Matteo li amplierà al cap. 18.
La Parola che fino ad oggi abbiamo ascoltato, ci ha dimostrato come siamo sordi e muti agli insegnamenti del Signore in quanto egoisti, orgogliosi. Questo è quello che accade alla comunità di Roma a cui Marco indirizza il suo Vangelo. Si ritrova divisa tra la testimonianza autentica fino alla prova del martirio e vivere la fede rinchiusi nel proprio io riparandosi dall’azione esterna e guardando con sospetto coloro che non sono nemici ma che accolgono la novità dello spirito, un aspetto frequente anche nella nostra vita. Con quest’insegnamenti l’invito è chiaro: vigilare sulle nostre azioni per capire se provengono da Dio. In questa chiave di lettura riusciamo a capire l'incipit del brano evangelico odierno.
v. 38: Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva».
Continuano le tensioni tra Gesù e i discepoli. Giovanni prende la parola, parla. Parla anche a nome degli altri (“abbiamo visto”). Qualcosa si va sbloccando. Egli poco prima era stato testimone con Pietro e Giacomo della trasfigurazione (vv. 2-13), era stato testimone anche della risurrezione della figlia di Giairo (Mc 5,21-43). Ed è lui che si rivolge a Gesù dicendo quello che hanno visto e quello che hanno fatto.
Quanto Giovanni fa notare, è un’azione del tutto normale da parte di taumaturghi che invocano il nome di qualcuno (quello più invocato era quello del re Salomone) che fosse ritenuto abbastanza potente da compiere il miracolo. Ma anche i discepoli di Gesù, un giorno, faranno la stessa cosa: come è narrato negli Atti degli Apostoli, compiranno miracoli nel suo nome.
Il gruppo dei discepoli si sente un ceto privilegiato del Vangelo, come chi ha l’esclusiva in campo, e fino al primo periodo della Chiesa fu così, ma non è questo il principio. Qui sembra che abbiano quella pretesa di essere seguiti, eppure il profeta dice: «maledetto l’uomo che segue l’uomo» (Ger 17,5).
Sì, abbiamo bisogno di connotarci, di distinguerci, farci riconoscere, orgogliosi di appartenere a Cristo ma senza distinzioni senza ripetere ancora oggi: “io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa, e io di Cristo” (1Cor 1,12).
Le patologie ecclesiali che ci avvelenano e che avvelenano tutta la Chiesa non sono ben accolte da Gesù. Nessuno può arrogarsi di essere perfetto o di vivere in un gruppo perfetto. Non fa parte del comportamento di Gesù! Tutti rischiamo quella tentazione: pensare di diventare il riferimento, invece di essere il collegamento con il Signore. Ancora una volta il Signore ripete: “Vai dietro a me Satana!” (Mc 8,33).
vv. 39-40: Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Qui abbiamo l’indicazione pratica, il principio: avere una mentalità ecumenica, aperta. Non si può impedire di fare il bene. Per questo Gesù ridimensiona le pretese. Compiere i miracoli nel nome di Gesù è già aver riconosciuto la sua autorità, è già essere stati visitati dallo Spirito Santo. San Paolo dirà: “Nessuno può dire Gesù è il Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo” (1Cor 12,3).
Chi compie miracoli nel suo Nome, non può profanare questo medesimo Nome. E così, chi non si pone contro i discepoli, lavora comunque a loro favore, per il medesimo Regno dei cieli. Gesù invita i suoi a non rinchiudersi in una mentalità chiusa e settaria. Un gruppo cristiano non deve ostacolare l’attività missionaria di altri gruppi. Non ci sono cristiani più «grandi» degli altri, ma si è «grandi» nell’essere e diventare cristiani: battezzati inviati. Purtroppo, viviamo ancor oggi la malattia dell’esclusivismo. San Paolo ci ricorda: “Tutto è vostro, ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio” (1Cor 3,22-23).
In queste parole stanno il nulla di Cristo che ogni cristiano deve assumere per essere sale, diversamente saremo solo buoni ad essere gettati e calpestati (cfr. Mt 5,13).
Il v. 40 contiene l’invito di Gesù al cambiamento dello sguardo, a orientare lo sguardo verso di Lui e non verso se stessi perché nel Vangelo e nell'insegnamento di Gesù la proposta non è mai di “seguire i discepoli”, ma di “seguire Gesù”, per questo dice: “Chi non è contro di noi, è per noi”. Con questa espressione Gesù ci aiuta a guardare l’altro come ad un amico e non come ad un rivale o come una minaccia per noi, cosa che spesso accade tutt’oggi.
v. 41: Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Se i discepoli restringevano il campo sulla cerchia dei discepoli, Gesù suggerisce un atteggiamento più aperto e accogliente verso tutti coloro che non si presentino apertamente come nemici. E dicendo “chiunque”, vuol dire anche quella persona che non ci aspettiamo. Tutti lavorano per il Regno di Dio anche chi presta soccorso ai discepoli di Gesù perché anche tra i non cristiani vi sono sogni di Vangelo, valori da riconoscere (cfr. Nostra Aetate, 2).
In questo versetto abbiamo il Vangelo racchiuso in un bicchiere d’acqua, qualcosa di semplice e povero che tutti abbiamo nelle nostre case eppure tante volte priviamo anche di questo.
In questo bicchiere d’acqua troviamo la sete di Cristo Gesù («nel mio nome») piena di azioni coraggiose che esprimono solo amore. E quest’azione fatta nel suo nome avrà la sua giusta ricompensa.
Il Vangelo ci ricorda la ricompensa equivalente al salario di cui si parla nella “parabola degli operai” chiamati nelle diverse ore della giornata (Mt 20,1-16). Ma la vera ricompensa è Gesù stesso perché lui è la via che conduce al Padre, l’unico che può darci quella vita piena che aspira il nostro cuore. Il resto non sono vie: sono evasioni che ci allontanano dalla verità e dalla vita. La cosa fondamentale è questa: seguire i passi di Gesù fino ad arrivare al Padre, per arrivare a godere della vita eterna.
v.42: Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.
Procede l'insegnamento divino, sul medesimo argomento, la catechesi sullo "scandalo dei piccoli". Nei loro confronti i discepoli devono stare bene attenti a non scandalizzarli. Questa grave violenza spirituale contro i poveri e gli umili che credono nel Signore è punita con severità (cfr. Zc 13,7).
Lo scandalo nelle Scritture ha un significato specifico: significa laccio, ostacolo, inciampo, causa di caduta. Lo scandalo è ciò che provoca la caduta, in particolare la caduta della fede e la morte in se stessi.
Nel linguaggio di Gesù indica qualcosa che porta al peccato ed alla Geenna. Scandalo significa “ostacolo che sbarra l’accesso” e, nel linguaggio di Gesù, indica tutto ciò che ostacola la venuta alla fede e l’entrata nel Regno di Dio.
Per chi scandalizza il più piccolo (mikroí), cioè tutti quelli che rispetto al discepolo sono meno muniti, più esposti e deboli, il giudizio di Gesù è tremendo. Il paragone è preso da un’usanza romana (oggi è in uso dalla malavita): una pietra pesantissima al collo e fatti annegare nel mare. Per i Giudei era una esecuzione infamante perché non si poteva dare sepoltura al cadavere e se non fosse stato sepolto, avrebbero detto i rabbini, al momento della risurrezione non potevano entrare nella vita eterna.
vv. 43.45.47: Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani andare nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te entrare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna.
Se prima abbiamo visto lo scandalo verso i piccoli, adesso vediamo lo scandalo verso noi stessi. Tre sono i versetti, non continuativi, che continuano il discorso sul cattivo servizio, sullo scandalo che viene da dentro il cuore dell’uomo.
Per descrivere le nostre azioni, Gesù usa gli organi del corpo umano per indicare che il vero scandalo nasce dalle nostre azioni, dai nostri desideri (cfr. Sir 6,17-18; 27,22): anche noi possiamo essere pietra di inciampo al nostro cammino di fede.
Anzitutto Gesù indica la mano, cioè l’azione, l’opera disonesta, violenta; il dito puntato, arrogante, il potere. Bisogna tagliare questa mano perché rimanga la mano di Dio, il suo amore da ricevere e donare; poi il piede che indica la direzione, le scelte, gli orientamenti della vita che vanno corretti. I discepoli si lamentavano perché non venivano seguiti. Ma chi devono seguire? Dove devo andare: dietro a Gesù o dietro ai discepoli? In seguito, l’occhio che indica la bramosia del piacere, dell’avere, etc. L’occhio indica il nostro modo di guardare la realtà e che di conseguenza ci fa agire (mano, piede). L’occhio, in fondo, è il cuore. Che cosa ti sta a cuore? Come ti relazioni?
Questi organi sono l’immagine implicita del corpo sociale, della comunità. Immagine ampiamente utilizzata da Paolo per la sua teologia della Chiesa, corpo del Cristo (1Cor 12,12-30). Ciò che chiede Gesù a saper decidere per la vita, a preservare il bene e a buttar via tutto ciò che sa di morte.
Il richiamo alle mani, ai piedi, agli occhi, delle parti di noi concrete con cui ci relazioniamo con gli altri, con cui facciamo le cose, con cui camminiamo, è un richiamo forte e concreto a vivere già qui questo Regno.
essere gettato nella Geènna
Il termine “Geenna” significa “valle di Innom” (Geremia 7:31-32) ed è una valle a sud-est di Gerusalemme. In questa valle, nei tempi biblici, venivano fatte passare le persone nel fuoco come sacrifici (Ger 7,31-32; 2Cro 28,3). Fu Giosia a mettere fine a questa pratica abominevole (2Re 23,10). Il punto specifico nella valle di Innom dove avvenivano queste cose si chiamava Tofet (Ger 7,31). Questo luogo fu usato anche per buttarci i cadaveri e bruciarli, come quelli delle nazioni nemiche d’Israele (vedi Is 30,33). In questo luogo in antichità si praticavano dei sacrifici umani offerti al dio pagano Molok. Contro queste pratiche abominevoli era insorto i profeti Geremia ed Isaia. Già nella letteratura apocalittica del sec. II a.C. questa valle è presentata come luogo della finale resa dei conti degli idolatri e degli apostati. Facile era, quindi, considerare quel luogo impuro (sia materialmente sia religiosamente) come la sede della condanna degli empi, l’inferno dalle fiamme inestinguibili.
Anche se la Bibbia non ne parla, la tradizione dice che la valle di Innom veniva usata anche come discarica di rifiuti, e quello che rimaneva veniva consumato dai vermi.
Gesù usando l’immagine della Geenna non condanna ma avverte, ammonisce perché la Geenna è la separazione dall’amore, dalla vita: è simbolo di distruzione eterna (Mt 23,33).
v. 48: dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue.
Questa affermazione chiude il libro di Isaia (66,24), che contiene una profezia per l'avvenire: «Quando gli adoratori usciranno, vedranno i cadaveri degli uomini che si sono ribellati a me; poiché il loro verme non morirà, e il loro fuoco non si estinguerà; e saranno in orrore a ogni carne». Probabile, con questa citazione, che Isaia si riferisce alla morte di tutti gli ingiusti resuscitati nella seconda resurrezione, e “gli adoratori che usciranno” sono i giusti che usciranno dalla nuova Gerusalemme per vedere i cadaveri degli ingiusti morti sulla terra (Ap 20,7-9). Isaia prevede nuovi cieli e nuova terra, in cui tutti i popoli aderiranno al Signore, saliranno al tempio del Signore (a Gerusalemme) e lo adoreranno. Uscendo dal tempio vedranno coloro che si sono ribellati a Dio soffrire il supplizio continuo del verme e del fuoco.
Il riferimento al verme riguarda quelle larve che si sviluppano negli alimenti o nei vegetali, ma anche nei corpi malati creando infezioni, come confessa Giobbe: «Purulenta di vermi e di croste squamose è la mia carne» (7,5). Oppure come accadde al re Erode Agrippa, persecutore dei primi cristiani, che similmente al nonno Erode il Grande, morì «divorato dai vermi» (At 12,23).
Il simbolo è, dunque, evidente: la vita del malvagio è analoga a un fuoco inestinguibile e a un verme che non lascia scampo alla carne e va in putrefazione.
La liturgia domenicale non riporta gli ultimi versetti (49-50) di questo capitolo 9 dove il cristiano è chiamato a buttare la propria vita nel fuoco dello Spirito Santo quello che ci dà la vera Sapienza, che ci fa decidere per la vita e ci permetterà di vivere in pace con tutti e realizzare la nostra esistenza. Diversamente, se il discepolo non ha questo sapore non serve a nulla.
Abbiamo anche noi, personalmente o a livello di comunità, la tentazione di creare una distinzione tra chi è “dei nostri” e chi non lo è?
Godo dei doni che vedo attorno a me? Li favorisco? Oppure sono geloso, pensando di essere uno dei pochi eletti a cui Dio ha scelto di manifestarsi?
Come vivo la piccolezza cristiana?
Quali sono le situazioni che possono provocare il mio allontanamento dalla fede? Come agisco nei loro confronti?
rinfranca l’anima;
la testimonianza del Signore è stabile,
rende saggio il semplice.
rimane per sempre;
i giudizi del Signore sono fedeli,
sono tutti giusti.
per chi li osserva è grande il profitto.
Le inavvertenze, chi le discerne?
Assolvimi dai peccati nascosti.
perché su di me non abbia potere;
allora sarò irreprensibile,
sarò puro da grave peccato. (Sal 18).